Questo romanzo non ha la pretesa dell'accuratezza
storica; vi sono riportati fatti realmente accaduti, seppure in
momenti storici diversi rispetto a quelli narrati.
I lettori sono avvisati.
Videmus
nunc per speculum in aenigmate.
Ora
vediamo attraverso uno specchio, nell’oscurità.
Paolo
di Tarso, Lettera ai Corinzi
Parte
prima
Nox
I
La stanza era buia e nuda. Un ticchettare ostinato,
ritmico, compulsivo sconvolgeva le ultime pieghe della notte, nella
luce incerta che preannuncia il giorno. La coscienza lentamente si
risvegliava, la ragione si liberava dai tentacoli del sonno e
spezzava le inferriate della prigione onirica nella quale era stata
reclusa.
Cosa aveva sognato?
Tentò di ricordare, di riportare a galla i sogni.
Scrutò nei foschi recessi dei neuroni, lungo i tortuosi meandri
della coscienza, nei bui cunicoli della memoria.
Niente.
Nessun ricordo affiorava dal fiume di tenebra, nessun
baluginio, seppur lieve, che potesse rivelare il riaffiorare di
reminiscenze, brandelli sfilacciati di sogni rimasti impigliati, come
nebbia fra i rami, nelle terminazioni nervose durante la notte.
Eppure qualcosa indugiava ancora. Una lieve sensazione, uno
smarrimento e un’angoscia, un vago sapore spiacevole in bocca e un
ronzare persistente nelle orecchie.
Aprì gli occhi lentamente.
Dove si trovava?
La stanza era buia e spoglia, le mura nude, senza
quadri, specchi e altri orpelli, incombevano sul letto. E quel
ticchettio continuo, inarrestabile, ossessivo, come se mille orologi
battessero il tempo all’unisono, percuoteva le membrane timpaniche
tese come pelli di tamburo e, attraverso il buio delle terminazioni
nervose, si insinuava nelle pieghe della mente.
Chi era?
Si guardò le mani nella luce grigia dell’alba. Non
erano mani di vecchio, non erano mani di giovane. A chi appartenevano
quelle mani scarne, ossute, solcate da capillari azzurrognoli,
malaticce come petali appassiti? Rabbrividì, di freddo e d’angoscia.
Si alzò dal letto e andò in bagno. Allo specchio comparve
l’immagine di uno sconosciuto e trasalì di stupore. Lo sconosciuto
rispose al suo sguardo sbalordito con un ghigno. E un’occhiata
sconcertata. Si toccò il viso e le guance sulle quali affluiva
bluastra l’ombra della barba e i polpastrelli affondarono
impazienti nella carne delle gote. Si infilò le dita in bocca, si
toccò i denti, la lingua, le pareti interne, come se potesse trovare
il rovescio del suo volto ed estrarlo, e quel rovescio fosse più
familiare dell’immagine riflessa nello specchio. Agganciò le dita
agli angoli della bocca e tese il tessuto molle deformandola in fauci
bestiali. Allo specchio, un mondo parallelo e sconosciuto, al pari di
quello che si trovava dall’altra parte, faceva sfondo a una
maschera orribile e deforme che lo fissava con occhi spalancati di
viva curiosità.
Una giacca giaceva abbandonata sulla spalliera di una
sedia, infilò le dita in una tasca e ne estrasse un portafoglio.
Trovò il passaporto. Lo aprì e la foto mostrò il volto straniero
che era comparso allo specchio. Heinrich
Dammerschlaft diceva il documento a caratteri
netti e precisi e non vi era motivo di dubitarne.
Si lavò il viso e si rase. Dunque, si chiamava
Heinrich. Heinrich Dammerschlaft. Quel nome non gli diceva niente. Si
guardò ancora allo specchio. Scosse la testa. Doveva esserci un
errore. Il volto riflesso non si combinava affatto con quel nome
pieno di forza e di energia, un nome che emanava autorevolezza. Il
volto allo specchio, invece, ne scarseggiava.
Si vestì e uscì in strada. Non aveva mai visto quella
città, non aveva idea di dove si trovasse. Guardò a destra, guardò
a sinistra, poi dritto davanti a sé. Non sapeva dove andare.
Dall’altra parte della via c’era un caffè.
Attraversò la strada ed entrò. Era prestissimo, non c’era
nessuno. Si sentì molto stanco, quel sonno senza sogni non gli aveva
portato il ristoro e si trascinò incerto oltre la soglia.
«Buongiorno signor Dammerschlaft.»
Trasalì, ma si riprese rapidamente, cercando di
mascherare il suo stupore. Si stropicciò gli occhi cisposi, ancora
intorpiditi dal sonno e guardò meglio.
Osservò a lungo quel tale, indagò sulla sua fronte
ampia e calva, studiò le sopracciglia nere e folte e il viso
butterato a forma di mandorla. Invano. Nei suoi lineamenti non vi era
nulla di familiare. Eppure il tizio dall’altra parte del bancone
aveva dato mostra di conoscerlo. Sentì lo stomaco contrarsi e tutti
gli altri suoi organi interni restringersi e raggomitolarsi seguendo
il suo esempio, e poi indurire come fossero diventati di legno.
Nondimeno, si impose di comportarsi normalmente. Si avvicinò al
banco e ordinò un caffè.
Avvicinò le labbra alla tazzina. Trovò alquanto
conforto nel liquido nero e caldo che vi era nel fondo.
«Non mi par da tanto di aver assaporato un caffè
magnifico come questo.»
«Certo, signor Dammerschlaft, è stato l’altro ieri.»
Accese una sigaretta senza fretta. Era
Dammerschlaft, e al contempo, non lo era. Armeggiò con il cucchiaino
e la tazzina e intanto i suoi occhi vagavano febbrili nell’ambiente
circostante, in cerca di particolari familiari. Indugiò ancora
studiando i canapè, i tavolini d’acciaio, le tende di broccato, ma
nulla veniva in soccorso alla sua memoria. Quel luogo era un mistero,
come il volto che si rifletteva negli specchi della scansia di
fronte. Decise di averne avuto abbastanza e finì il resto del caffè
tutto d’un fiato.
Attraversò la strada e si trovò di fronte il portone
dal quale era uscito poco prima. L’entrata apparteneva a un grande
edificio grigio dall’aspetto austero e funereo con una grande
insegna a caratteri cubitali, infissa all’altezza del primo piano.
Hotel Vasteland.
Ci rimuginò su, ma neanche quel nome gli diceva nulla.
Il portiere gli porse la chiave della stanza
novantacinque. «Buongiorno, signor Dammerschlaft.»
Egli rispose con cortese indifferenza e salì in camera
sua. Trovò la stanza più fredda e più nuda di quando l’aveva
lasciata. Si buttò sul letto e stette a considerare gli stravaganti
arabeschi che la luce scialba del giorno, filtrando dalle imposte
semiaperte, proiettava sul soffitto. Volle accendersi un’altra
sigaretta, ma l’accendino gli scivolò dalle mani. Non udì il
tonfo metallico che si sarebbe aspettato in seguito alla sua caduta,
ma un suono lieve e smorzato. Si sporse per vedere e il respiro gli
si fermò in gola.
Una mano spuntava da sotto il letto e teneva il suo
accendino.
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