sabato 25 ottobre 2014

Avventure marinare: un preludio al naufragio?


 

Un’alba di ferro sorge sulla pianura d’acciaio. La città dorme nel suo bozzolo di cemento.   Impressioni di ottobre: aria frizzante punge la pelle, il sole è una macchia giallastra sfumata sulla tela del cielo, un azzurro tenue, timido. Il quadro di un impressionista.

Davanti a me il mare, nella sua coltre di mistero. Oggi non lo sento.

Rabbrividisco e mi sento solo.

Dentro di me una voce: ti senti solo, ma non anneghi nel vuoto. Per tua fortuna, soffri della solitudine di chi pensa. E pensare, a volte, è pericoloso, ci sospinge al largo.

Navigare al largo è come spingersi oltre la vita, oltre l’immaginazione, oltre la soglia della paura. E’ partire dalla spiaggia e oltrepassare i punti sicuri, in cui si “tocca” e si vede ancora la terra, varcare il punto in cui le acque litoranee divengono mare aperto e andare oltre, oltre e ancora più oltre e diventare un puntino blu all’orizzonte. E svanire nell’azzurro.

Controllo le drizze, gli stralli, le sartie. Le manovre sono in chiaro. La luce del giorno mi piove sulla testa con lo splendore dei giorni fatidici. Sono pronto a partire. Sotto il peso del vento la barca s’inclina e si accomoda meglio nel letto del mare, sulla sua rotta invisibile. La scia dietro la poppa appartiene al passato, le acque vergini dinanzi alla prua sono il futuro e in mezzo, il mio effimero, traballante presente, incarnatosi sul ponte instabile di una barca.

Il mio sogno è bello e fragile come un guscio di noce sull’oceano: volevo possedere un’imbarcazione, mandare tutti a quel paese - rigorosamente non bagnato dal mare -, levare le ancore e salpare.

Per sempre. Per non tornare mai più.

Prua a sud per uno – otto – zero, barra al centro, alla via così. Non chiedevo niente di meglio: una piccola nave e una stella per fare la rotta. E’ piccola, ma è mia e non la cambierei per niente al mondo. In fondo, è quello che ho sempre voluto.

C’è a chi tocca in sorte un transatlantico e a chi, invece, una bagnarola. Ma, meglio essere il capitano su una tinozza, che il secondo di un transatlantico.

E quel rottame è la mia vita.

  

COPYRIGH 2014 ANGELO MEDICI

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domenica 19 ottobre 2014

Recensioni e commenti su La città verticale


Recensioni e commenti su La città verticale


PRENDI UN UOMO E PORTAGLI VIA TUTTO, SPOGLIALO DI OGNI COSA.

QUANDO GLI HAI TOLTO TUTTO, COSA RESTA?

Un paese governato da una legge spietata. Un boss della mala impera sulla gente che non osa alterare questo perverso equilibrio. Una sola persona non riesce ad accettare questa realtà: don Giuseppe, il prete. La sua storia si intreccia a quella di Ciro, un giovanissimo che viene assoldato proprio dal boss per diventare il suo baby-killer di fiducia. Presto, però, la situazione rivelerà la sua precarietà e sfuggirà di mano a tutti. Ciò che il sacerdote dovrà subire sarà terrificante quanto ciò a cui andrà incontro il piccolo assassino, precipitando inesorabilmente verso un finale sorprendente.

Un romanzo straordinario, impietoso e violento, crudo e scioccante, ma infarcito di straziante e crudele poesia.

Genere letterario: crossover- noir mafioso.

Pubblico di riferimento: adulto.

Punti rilevanti: lettura a più livelli.

Impianto tecnico e ampio, struttura lineare, ritmo cadenzato, buona leggibilità, aspetti linguistici gergali.

Il testo esaminato scandaglia le inaudite difficoltà dell’essere in un ambiente ostico come può esserlo un territorio ad alta infiltrazione mafiosa, dove il boss è “la legge”, al di sopra dello Stato tanto quanto di Dio. Un romanzo orientativamente di mafia, sebbene non poliziesco, se non blandamente, il quale parte da una situazione di cupa disperazione sociale per arrivare a un finale di triste umanità. Sviluppato attraverso parallelismi e introiezioni, in un itinerario dalle molte sfaccettature (anche stilistiche), filtra le vicende, talvolta archetipiche, in una sequenza di movimenti disparati, traslando narrazioni e incrociando trame e filosofie. I personaggi chiave sono tre, il prete, il giovane killer e il boss. E se il primo perde la sua forza cedendo alla propria rabbia, il secondo finisce per difendere la sua ritrovata dignità, mentre il terzo è fondamentalmente l’antagonista necessario allo sviluppo del plot. Siamo di fronte a un itinerario emotivo, a una vicenda di grande intensità. Mai acritico, neppure semplicistico, lo scritto ha un taglio significativo, denso. Il finale rappresenta effettivamente la soluzione a molte cose, l’accettazione da parte del protagonista della sua nuova condizione coincide con il cambiamento e tutto sfuma in un’inesorabile sconfitta. La sintesi formale è articolata, stilisticamente come pure semanticamente è scorrevole. Linguisticamente è valido.

 
Abbiamo letto con interesse il suo testo e riteniamo che sia un’opera valida nel suo genere, dalla trama articolata e priva di cadute, che scorre rapida fino alla fine tenendo viva l’attenzione del lettore. Molto attuale come argomento, potrebbe trovare i suoi lettori in un pubblico di ogni età.


E' una tempesta di emozioni, ha regalato al lettore tutto ciò che promette nella prefazione. Forse anche di più...

martedì 14 ottobre 2014

La prima pagina de La città verticale


 

Sono rimasto un po’ deluso, lo confesso, per il fatto che tutte le case editrici che hanno letto il manoscritto de La città verticale abbiano considerato il mio romanzo appartenente al genere noir, che io stesso avevo, invece, escluso nella prefazione. Evidentemente, a un lettore non emotivamente coinvolto come me nella storia, meglio se un lettore professionale e critico, con la mente fredda, come il responsabile di una casa editrice, può giudicare meglio dello stesso autore. Anche se quest’ultimo credeva che la sua ultima fatica letteraria si avvicinasse più al mainstream, la corrente principale, senza tuttavia esserne risucchiato, e si sperdesse nel grande fiume delle lettere, senza appartenere ad alcun genere in particolare. E dunque, il genere che si attaglia di più è il crossover, cioè, un incrocio di genera diversi, nel quale essi si annullano inevitabilmente, ma, dalla loro liquefazione, non sgorga alcun genere.

E, per invogliarvi alla lettura, eccovi la prima pagina. Se lo leggerete per intero, e spero che vi piaccia, giudicherete voi se è noir, crossover, mainstream, o un’emerita schifezza.

 

Capitolo primo

 

Era buio e freddo là sotto.

Freddo screziato di tenebre e di silenzi.

Annaspava nel gorgo, sotto l’onda verde che l’aveva rapito al mondo e imprigionato in un universo sommerso e ovattato. Non riusciva a respirare, non aveva più aria nei polmoni. La pressione marina gli comprimeva il petto come una morsa. Brancolava nel buio verdastro, in un abisso di acque opache e smorte. Più si dibatteva, più precipitava verso il fondo nel più completo silenzio.

Stava per morire.

Stava per lasciare per sempre il mondo della luce, per sprofondare in un mondo di ombre. Ma non era triste. Non provava niente. Non sentiva più nulla. Soltanto la pesantezza delle membra, mentre il suo corpo, come fosse di piombo, precipitava. La sua coscienza si affievoliva pian piano e i pensieri ticchettavano sempre più lenti nei neuroni, come se dentro il suo cervello s’inceppassero, uno dopo l’altro, i meccanismi di migliaia di orologi.

Con un tonfo, lieve, toccò il fondo, sollevando nuvole di sabbia e i suoi occhi guizzarono nell’acqua fredda alla ricerca della superficie delle onde. Dal pelo dell’acqua, che appariva così distante, filtrava a stento una debole luce, che giunse, tuttavia, fino alle profondità nelle quali era immerso.

Ma già il suo corpo si faceva leggero e le membra si sgravavano dal peso delle acque e le fibre muscolari contratte si scioglievano, scacciando il freddo delle correnti marine. Si sentì lieve, inconsistente, impalpabile, come una bolla d’aria che dal plumbeo crepuscolo degli abissi risaliva alla superficie. Sempre più rapida, sempre più in alto, finché riemerse.

E finalmente la luce perfetta del giorno.

 

LA CITTÀ VERTICALE

Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni
                                        ISBN: 978-88-6307-804-6

sabato 11 ottobre 2014

La città verticale, il mio nuovo romanzo


 

Ecco, ci risiamo. Ci sono cascato ancora. Ho scritto un altro libro, un romanzo stavolta. Mi è proprio scappato, perdonatemi, ho provato a trattenerlo, ma mi faceva male dentro, dovevo scriverlo a tutti i costi.

Ora che è uscito sto meglio.

E ci sono già alcuni commenti da parte di chi l’ha letto, soprattutto addetti ai lavori.

Ma di questo parleremo più avanti.

Eccovi intanto la prefazione che ho scritto per il romanzo.

 

Ubi pus, ibi evacua

 

Ecco il mio nuovo libro. È un romanzo criminale, una storia meridionale, ma non è un noir, né certamente un thriller. In omaggio alle origini, ho rivisitato alcuni luoghi della mia infanzia. Dal viaggio immaginario nel passato è sorta una città verticale, che si è stratificata, insieme al potere che la corrode, verso l’alto. Una città solare, eppure oscura e gotica al tempo stesso, perché è proprio dove c’è più luce, che s’annida l’ombra più scura. 

È crudo, forte, paradossale? Sì, è proprio quello che cercavo. Volevo che fossero pugni allo stomaco, sputi negli occhi e schiaffi in faccia. Volevo narrare una storia scomoda, metterla in scena nel teatro del grottesco, dell’assurdo e del surreale, con attori fuori dal comune, dotati d’ironia e sfrontatezza, ma anche d’una buona dose di umanità. Scriverla mi ha fatto comprendere quanto, a volte, può essere assurda, grottesca e surreale la realtà.

Lo so, questo libro vi farà uscire fuori dai gangheri, probabilmente lo lancerete via, ne tormenterete le pagine, forse lo strapperete. Ma, se sarà così, io avrò raggiunto il mio scopo. Perché volevo darvi un pugno allo stomaco e infilarvi le dita negli occhi. Volevo scuotervi le coscienze.

È un romanzo sul rapporto tra fede e religione: il protagonista, e attraverso di lui l’autore, avvia e porta a termine l’opera di demolizione della Divinità, riducendola a mero simulacro, a inutile appendice, fino a svuotarla del tutto di significato.

È anche un’opera sulla diversità, tema che avevo già affrontato ne L’impero del vento. In quelle storie desertiche chi è straniero è diverso, altro, alieno. All’opposto, ne La città verticale si sente diverso chi è a casa sua, mentre dovrebbe sentirsi a proprio agio, come un pesce nel suo acquario. Invece, non trova pace nella sua stessa casa, nel suo letto, nei panni che indossa. È il dramma del sentirsi estranei al mondo che ci appartiene. 

Perché ho scritto questo libro? Si tratterebbe di una domanda salutare se fosse fornita della risposta, uno scrittore dovrebbe sempre sapere perché ha scritto un libro, anche se a volte le vere ragioni le apprende molto tempo dopo averlo fatto. Io lo so perché l’ho scritto, l’ho sempre saputo, fin dall’inizio. Il tema della diversità, della disomogeneità tra omogenei, della difficoltà di relazionarsi con i propri simili e riconoscerli uguali, era troppo impellente in me, andava sviluppato, diversificato, analizzato, sezionato, scorticato fino a farlo sanguinare.

Dove c’è pus, bisogna incidere e spurgare. 

Ecco spiegato il titolo della prefazione. Secondo Galeno di Pergamo, medico e fisiologo della Roma imperiale, la guarigione si ottiene attraverso l’eliminazione della materia in eccesso, la materia peccans che, in campo medico è il pus, ma nel mio caso era il marciume, il livore, l’angoscia e ha funzionato. Sono stato subito meglio, come essermi tolto un peso. Il peso delle parole che mi avevano tormentato e afflitto durante la prima stesura, la revisione e la successiva riscrittura del romanzo e che io ora consegno intatte a voi.

In questo romanzo non c’è spazio per la poesia, non ci sono ricami, niente belletto, lustrini e paillettes. La poesia è morta. Signori, vi sto offrendo la verità, solo la verità. Nient’altro che la verità, nuda e cruda.

Lo giuro.

Nell’introduzione ho voluto citare l’Oppiario di Alvaro de Campos, uno dei tanti eteronimi di Fernando Pessoa:

Non posso stare da nessuna parte.

La mia Patria è dove non mi trovo.

Era proprio quello che intendevo dichiarare con la mia storia. Non poteva essere scritto meglio.

venerdì 3 ottobre 2014

...





 

Mi piace entrare nei bar sconosciuti, sperduti in remote contrade, o attaccati ai margini di strade solitarie con le unghie e con i denti, come un naufrago alla zattera, locali solitari e polverosi, a volte malfamati ed equivoci, vere e proprie discariche umane a cielo aperto, dove poveri cristi parcheggiati attendono la fine del giorno.

Mi piace entrare, ordinare e sorseggiare i loro caffè impossibili e quell’odore di muffa, di chiuso e stantio, che impregna anche le vesti del barista e la polvere sul bancone e le ragnatele tra le bottiglie dei liquori e forse anche sui volti degli avventori, che mi scrutano, m’indagano con viva curiosità, perché, in fondo, loro sono sempre gli stessi, ormai quasi complementi d’arredo, ci si accorge della loro presenza solo quando sono assenti, e io invece no, sono quello nuovo, il cittadino, il forestiero.
Analizzano ogni mio gesto, mi sondano per capire se la loro cupa disperazione equivale alla mia, se in fondo alla mia anima s’annida ancora qualche residuo d’umanità che puzza come la loro…
 

                                              COPYRIGHT 2014 ANGELO MEDICI