giovedì 27 febbraio 2014

Neve


 
Dai bassifondi della mia modestissima opinione…

Pare che i libri ci capitino tra le mani solo apparentemente per caso. Credo che c’imbattiamo in essi nel momento giusto, quando ne abbiamo bisogno. In fondo, un libro è una lettera aperta sull’eternità, una lettera che parla attraverso i secoli e le generazioni, indirizzata a ciascuno di noi e disponibile quando ne abbiamo bisogno.

E’ quanto è avvenuto con il volume che mi accingo a commentare. Si tratta di Neve, di Maxence Fermine. Ero in cerca di una citazione per un romanzo che sto scrivendo, ci avete mai fatto caso, quelle frasi di altri, che gli scrittori seri amano far stampare sulle pagine che precedono le loro opere? Bene, io che scrittore serio non sono affatto, ho, tuttavia, lo stesso vizietto e, finalmente, la citazione che cercavo, l’ho trovata in Neve, o meglio, nel romanzo ho trovato la strada per scovarla, che è quella, elegante e raffinata, ma a volte tortuosa, della poesia giapponese, l’haiku. Ma di questo parleremo più avanti.

Il libro mi è stato regalato, o meglio, è stato regalato a due persone, che una volta erano legate, da una persona che, a sua volta, è legata a entrambe. Non me l’aspettavo il dono, come non mi aspettavo di riscoprire il doppio vincolo che legava queste persone, che ormai credevo lontane, nel tempo e nello spazio. Per dirla in breve, è bastato un giro di telefonate per passare una piacevole serata insieme, dopo tanto tempo. Sembra una storia di Natale, no? E lo è davvero. E io credo che certe cose non capitino per caso. Così, in un colpo solo, ho trovato la dedica che cercavo per il mio romanzo e ritrovato due amici. Miracolo della letteratura.

Ma ora parliamo del volume.

E’ un romanzo sulla neve, sull’amore, sulla vita e sulla morte. E’ una storia zen, l’amore, la vita, quindi, la morte, non sono fini a se stesse, ma l’introduzione a qualcos’altro ed è il qualcos’altro a essere importante.

Ma è anche un romanzo sulle montagne. Fermine è un montanaro dell’Haute Savoie e ha dimestichezza con il candore infinito che cela la vetta delle montagne. Io, che sono nato al mare, cresciuto in montagna e diventato uomo di pianura, al cospetto delle sue cime tempestose, evocate dalla struttura esile, tenue della sua scrittura, provo un vago senso di vertigine e smarrimento, come se mi mancasse l’aria. Come se fossi un funambolo anch’io, in equilibrio incerto su un filo sottile di parole, su una corda che collega tutti i miei mondi, quello marino a quello alpestre, quello meridionale a quello nordico, quello della vita a quello dell’arte.

Ma è anche un racconto sulla scrittura. E, in particolare, sulla poesia giapponese.

L’haiku è un genere letterario del Sol Levante, che consiste in poesie cortissime, di appena tre versi e diciassette sillabe, non una di più, non una di meno. La dolcezza e la raffinatezza sono tipiche dei suoi versi.

Eccone un esempio.

La pelle delle donne

Quella che celano

Quant’è calda!

(Sutejo)

Scrivere è come distillare liquore, le parole non si creano di getto, ma sono vagliate, pensate, sofferte, una per una, finchè non sono pure, fino a quando non siano quintessenza di bellezza.

Ma ecco quanto scrive Fermine in proposito.

Scrivere è avanzare parola dopo parola su un filo di bellezza. Scrivere è avanzare passo dopo passo, pagina dopo pagina, sul cammino del libro. Il difficile non è elevarsi dal suolo e mantenersi in equilibrio sul filo del linguaggio. No, il difficile è rimanere costantemente su quel filo che è la scrittura, vivere ogni ora della vita all’altezza del proprio sogno, non scendere mai, neppure per qualche istante, dalla corda dell’immaginazione.

Lui paragona l’arte della scrittura con l’arte del funambolo, un’arte difficile, come difficile è mantenersi in equilibrio sulle parole e, come il funambolo rischia di cadere e, qualche volta cade, anche noi a volte precipitiamo dal filo sottile teso tra le pagine di un libro.

Ma non è del tutto vero. Solo una cosa è più ardua.

L’amore.

Perché l’amore è l’arte più difficile. E scrivere, danzare, comporre, dipingere, sono la stessa cosa che amare

E l’amore ci tiene sospesi sul vuoto in equilibrio precario sulla corda sottile, che va dal nostro cuore a quello della persona amata; l’amore a volte ci fa perdere la stabilità e precipitiamo in un abisso vertiginoso.

Vaghiamo come sonnambuli nel buio della vita. Non sappiamo cosa stiamo cercando, ma l’amore lo sa già.

Neve invece non cercava nessuno”. E, non cercando nessuno, cercava qualcuno.

Qualcuno con cui tenersi in equilibrio sul crinale della vita.

Questa donna è bianca come la neve, la sua pelle è così candida che, guardarla fa male agli occhi. Io, in sincerità, preferisco un altro genus di donna. Io amo le ombre, adoro le tenebre, amo il buio e così mi piace pure la donna. Non la vorrei la donna bianca, nè di nome, né di pelle. La vera femmina è nera dentro e fuori ha pelle di pantera, oscura e bella come la notte.

Infine, ho provato anch’io a scrivere qualcosa, dopo aver letto Neve. Forse, è un haiku, forse no. I tre versi ci sono, le sillabe, invece, sono molto più di diciassette.

La malvagità è una forma di purezza.

La bontà è una specie d’ipocrisia.
La strada della virtù passa nel mezzo.

giovedì 20 febbraio 2014

Outlaw song




Un giorno come tanti, mi ritrovai una pistola per le mani. Era bella, pesante e luccicava al sole. Io avevo i pantaloni strappati e la maglietta sporca. Allora entrai nel supermercato.

Cercavo solo dei vestiti nuovi e un paio di occhiali da sole. E’ dura stare al mondo senza un paio di occhiali da sole. Ma il proprietario prese a guardarmi male.

 “Ehi tu! Vattene fuori di qui!” sbraitò e fece per cacciarmi via.

Allora tirai fuori la pistola. Lui si mise a urlare e partì un colpo. In un lampo accecante era a terra con un buco in mezzo agli occhi.

La pistola era bella, pesante, ma non luccicava più.

La cassa era piena di soldi, arraffai quello che potei e scappai.

Ero diventato un fuorilegge e quella fu la mia canzone.

La polizia si mise a indagare e mi venne ad arrestare. Il giudice mi chiamò in aula per la dichiarazione preliminare.

Mi chiedi se sono stato io? Mi chiedi se sono colpevole?

Sissignore, sono stato io. Ho premuto io il grilletto. Ma l’ho fatto perché avevo paura. L’ho fatto perché avevo fame. Perché avevo i vestiti sporchi e laceri e volevo solo un paio di occhiali da sole.

Cazzo, non si può stare al mondo senza un paio di occhiali da sole.

Ma mi hanno voluto scacciare come un cane, anche se avevo i soldi per pagare.

Si certo, signor giudice, sono stato io a sparare. Perché sono un fuorilegge e questa è la mia canzone.

Il giudice mi sbattè in galera, per tanti anni chiuso in una gabbia. Di giorno canto la mia canzone. La mia chitarra sembra un’astronave, mi conduce in mondi lontani. Le giornate non passano mai. Ma quando arriva la notte, mi addormento finalmente e sogno. Sogno di essere fuori di qua.

E rivedo la mia pistola. Bella, pesante e luccicante al sole.

Perché sono un fuorilegge.
        E questa è la mia canzone.

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venerdì 14 febbraio 2014

Teoria e pratica del collettivismo oligarchico


 

Oggi voglio parlare di un libro. Tanto per cambiare, penserà qualcuno di voi, dotato di cospicuo senso dell’ironia. Il libro di oggi si intitola La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico e l’ha scritto Emmanuel Goldstein. Credo che ai più questo nome non dica niente, ma andiamo avanti. E’ stato scritto poco dopo la seconda guerra mondiale, nel 1948 ed è un’analisi lucida e spietata del mondo che sarebbe stato, da quell’epoca agli anni a venire. Le osservazioni che vi sono contenute sono sinistramente premonitrici, poichè l’autore ha immaginato, più di cinquant’anni prima, un mondo che somiglia sinistramente al nostro del duemila. Facoltà precognitive o più semplicemente l’incubo partorito da un’intelligenza raffinata? Propendo per la seconda ipotesi. 

Ma la particolarità dell’opera risiede anche nel fatto che è un libro scritto nel libro di qualcun altro. Mi rendo conto, tuttavia, che sto parlando per arcani ed enigmi ed è giunto il momento di svelare il mistero. Il libro nel quale è contenuto La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico è 1984, alias Il grande fratello, di George Orwell ed è l’opera del tutto immaginaria, composta dall’ideologo della fantomatica Fratellanza, un’organizzazione antagonista al sistema totalitario che Orwell immagina essersi instaurato negli anni ’80 del secolo scorso. Si tratta, naturalmente, di un eccellente artificio narrativo, che occupa la parte centrale del romanzo e che funge da coscienza critica del protagonista e che, al tempo stesso, conferisce un substrato di verosimiglianza all’intera narrazione. Con un unico appunto. George Orwell è scrittore dalla prosa semplice e scorrevole, tuttavia, la traduzione che io ho letto, di Gabriele Baldini, risente di certi arcaicismi della lingua italiana e credo, non so se a torto o con ragione, che sia stata la prima edizione in italiano dell’opera, nei primi anni cinquanta.

Tuttavia, il reale motivo del post non era un’analisi storico – critica dell’opera di Orwell, che sicuramente s’inserisce nella tradizione distopica inglese, tra Wells e Huxley (ai quali mi sia consentito aggiungere il recente Ishiguro di Non lasciarmi e anche l’opera di Philip Dick, che, però, era americano), bensì, quello di esprimere meraviglia e stupore nell’evidenziare alcuni passaggi molto forti, nella loro lucidità predittiva.

Il potere restava appannaggio di una piccola casta privilegiata”, ma la massa “non avrebbe tardato prima o poi a capire che la minoranza privilegiata non aveva alcuna reale funzione e avrebbe fatto in modo di scalzarla”.

Letto bene? La casta privilegiata non ha alcuna reale funzione e la massa non avrebbe tardato a capirlo. E qual è la casta privilegiata anche oggi? Tendo le orecchie, ma non ve n’è il bisogno, sento nitidamente urlare le vostre bocche giustamente indignate. I politici! Naturalmente! I politici non hanno alcuna reale funzione, se no quella di perpetuare sé stessi per conservare all’infinito i privilegi di casta, a discapito di tutto e tutti.

Ma non è finita.

Né era soluzione soddisfacente quella di tenere le masse in stato di povertà col ridurre la produzione dei beni… grandi strati di popolazione furono tenuti lontano dal lavoro e mantenuti malamente in vita dalla carità dello Stato”.

E questo sembra storia recente, la cronaca quotidiana di questi anni di crisi economica e sociale. Una crisi, forse, scatenata ad arte per ridurci in schiavitù e acquisire il controllo mondiale, attraverso la riduzione della produzione dei beni, creando eserciti di disoccupati da tenere soggiogati con sussidi di disoccupazione graziosamente elargiti dagli Stati? E perché? Per spiegarlo, bastano un sostantivo e un aggettivo:

POTERE ASSOLUTO!

Sto esagerando? Io non credo. Non voglio essere profetico e spero tanto di sbagliarmi, ma sono convinto che la crisi non finirà mai. Anzi s’incancrenirà, divorerà le membra e le coscienze sociali e si trasformerà in una sorta di stato di guerra perenne. A quel punto non potremo fare altro che chinare il capo davanti al leader del pensiero unico. Guardatevi in giro, ci sono certi movimenti “politici”, che definire populisti è eufemistico, i quali non ammettono repliche e critiche e non tollerano la libertà di stampa, soprattutto quando esprime le idee altrui. Attenzione, forse il leader del pensiero unico è già arrivato.

Non è ancora abbastanza? Bene, eccovi serviti.

I beni dovevano essere prodotti, ma non dovevano essere distribuiti.” Appunto, proprio quello che accade oggi.

Ma come?

Ed in pratica, l’unico modo per raggiungere quel risultato era di mantenersi perpetuamente in guerra.

E ancora.

“L’atto essenziale della guerra non consisteva tanto nella distruzione di vite umane quanto nella distruzione dei prodotti del lavoro umano.

La guerra non serve solo ai mercanti di armi per vendere i loro strumenti di morte, ma anche a distruggere i beni, la ricchezza e, attraverso queste, la felicità degli individui. Dove non arriva la crisi economica, arriva la guerra.

Ecco, ora mettete insieme tutti questi elementi e abbiamo un mondo dove tutti spiano tutti, gli amici più dei nemici, perché è necessario scoprire, contro la sua volontà, quello che ogni essere umano pensa, perché è necessario “estinguere, una volta per tutte, ogni possibilità di pensiero indipendente” e il gioco è fatto.

Questo è il Grande Fratello. Ci siamo arrivati.

LA GUERRA E’ PACE

LA LIBERTA’ E’ SCHIAVITU’

L’IGNORANZA E’ FORZA

giovedì 6 febbraio 2014

Era una gioia appiccare il fuoco


 

Era una gioia appiccare il fuoco. E’ l’incipit di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. E’ un romanzo distopico, il protagonista è un vigile del fuoco in crisi, ma attenzione, nel futuro i pompieri non spengono gli incendi, li appiccano. Sulla schiena non portano estintori, ma lanciafiamme che come draghi furiosi alitano lingue di gas rovente e divorano pagine e pagine di libri. E sì, perché nel futuro i libri sono vietati e devono essere distrutti.

Perché?

Ma perché sono pericolosi, naturalmente. Un libro è una lettera aperta, spalancata sull’umanità, un libro è la summa del pensiero di un individuo, idee spesso tanto belle e importanti, da non poterle tenere per sé, tanto che allo scrittore pare quasi di avvertire un obbligo morale di rivelarle al mondo. E le idee si diffondono, volano come il vento, sulle fragili ali dei libri. Ma questo non va bene per chi vuole impedirci di pensare con la nostra testa, non va bene per chi vuole che non pensiamo alle idee degli altri, ma solo alle sue.

Ecco perché i libri bruciano, la carta prende fuoco così facilmente… Non sono certo mancati nella storia i roghi di libri.

Il Bucherverbrennungen (letteralmente, rogo di libri ebraici) nella Germania nazista, ad esempio. Il rogo di libri ingombranti in seguito al colpo di stato in Cile. Quei volumi dovevano essere talmente ingombranti, che anche l’Argentina di Videla ne seguì l’esempio e volute di fumo nero si levarono alte nel cielo sudamericano. Ma anche Mario Vargas Llosa subì lo stesso trattamento in Perù, a opera dei militari, che non gradirono la pubblicazione del suo La città e i cani, che denunciava la violenza e le ipocrisie della casta militare di quel paese.

Tanto per limitarci alla storia più recente.

Ma anche in Italia, paese nel quale, grazie a Dio, non ci facciamo mancare nulla, abbiamo avuto i nostri roghi. Anzi, proprio da noi è accaduto il fatto, forse, più curioso. Nel 1958, per ordine della Procura della Repubblica di Varese, vennero date alle fiamme innumerevoli copie di Storielle, racconti e raccontini del marchese De Sade, allo scopo di distruggere il corpo del reato, poiché l’opera fu giudicata, all’epoca, scandalosa.

Ma chi distrugge un libro, distrugge anche una persona, quella che sta dietro il volume, che l’ha pensato, meditato, sofferto e infine, scritto.

Quando si bruciano i libri, si bruciano le persone” diceva Heinrich Heine alla fine dell’ottocento nel suo Almansor. E’ la sacrosanta verità. Quando un libro va in fumo, va in fumo non solo l’idea che vi è insita, ma s’incenerisce anche il senso più profondo del suo autore, la sua anima.

Per sempre.

E’ un modo deleterio e rovente e altamente simbolico, per scagliare nell’oblio quella persona e la sua creatura, affinchè delle sue parole non resti nulla. Solo cenere.

Una volta si mandavano le persone al rogo, adesso i loro libri.

Ma ora arriviamo dove volevo arrivare. Tutto questo sproloquio perché oggi ho visto sul web una foto che non mi è piaciuta, anzi, mi ha fatto accapponare la pelle e mi ha fatto venire in mente le atmosfere di Fahrenhit 451. Un signore (chiamiamolo così, per il momento, dopo troveremo un sostantivo più adatto), ha bruciato nel camino, una versione domestica dei lanciafiamme di bradburiana memoria, il volume di uno scrittore che ha espresso in modo cortese, ma deciso, di non essere d’accordo con le sue idee. In questo caso il rogo è avvenuto al contrario: tu non condividi le mie idee, allora io brucio le tue, come per una sorta di ripicca. E l’autore del gesto è un appartenente, abbastanza in vista, a un movimento di natura “astrale”, capeggiato da un comico che non fa ridere e ispirato da un ideologo privo di idee, che sarebbe ora si tagliasse i capelli, perché l’epoca dei figli dei fiori è passata da un pezzo. Scusate, non faccio nomi, non è importante, tanto è tutto facilmente identificabile.

Mmm… , avevo detto che questo è un blog apolitico, scusatemi, continuerà a esserlo, non voglio scadere nella politica, ma dopo gli ultimi indecenti episodi del Palazzo proprio non ce la faccio a tenermela.

Premetto che nutro il più profondo rispetto per qualunque opinione diversa dalla mia e soprattutto, per l’opinione qualificata, consacrata dal voto, di chi nel febbraio 2013 vergò la scheda elettorale con un crocesegno sul simbolo di quel famoso movimento “stellare”, però, ritengo che non si possa infangare così il Parlamento italiano, siamo i soliti provinciali, ci facciamo ridere in faccia da tutto il mondo!

E’ un movimento populista, mi dice qualcuno, dovevi aspettartelo. E va bene, è un movimento populista, ne prendo atto.

Mi dicono anche che il populismo parli alla pancia della gente. Prendo atto pure di questo, ma io credo che il populismo italiano si rivolga ormai a parti più basse del corpo umano. “Questo” populismo parla al CULO della gente. E quello che spero è che alle prossime elezioni la gente voti col CULO sulla scheda elettorale, depositando una bella massa di materia fecale (n’ strunz, come dicono dalle mie parti) sui nomi di questi miseri sfigati, che da un giorno all’altro si sono ritrovati deputati e senatori e, da miseri (nel senso di miseria morale e non di carenza di risorse materiali) e sfigati quali sono ed erano, pretendono d’infangare l’onore e il rispetto dovuto alle cariche istituzionali che ricoprono, fregandosene delle regole e con metodi antidemocratici, beceri e sessisti.

In democrazia le regole sono tutto, perché stabiliscono il confine tra la mia libertà e quella del prossimo. Dove finisce la tua libertà, comincia la mia e viceversa, guai se non fosse così, altrimenti ci pesteremo i piedi a vicenda.

Altrimenti, sarebbe una democrazia incompiuta, una democrazia formale, solo di facciata e priva di contenuto e avrebbe ragione il grande Charles Bukowski in La politica è come cercare di inculare un gatto, quando sosteneva che la differenza tra democrazia e dittatura è che in democrazia, prima si va a votare e poi si prendono ordini, mentre sotto la dittatura non c’è bisogno di perdere tempo per andare a votare, per prendere gli ordini.

Io credo che il popolo italiano sia molto più intelligente di quanto credono loro e ha già capito che dentro questi personaggi c’è il vuoto assoluto, che nasconde il baratro nel quale ci condurranno, se non stiamo attenti.

Ma chi è questo signore che pretende di essere il maestro assoluto della politica, l’insindacabile arbitro delle ideologie, il fustigatore degli italici costumi, il masturbatore di tubercoli cerebrali? E’ il nulla, è il buio, è il vuoto spinto, è il grado più basso della catena evolutiva umana.

Signori, ve lo dico io chi è.

E’ un povero capocomico in crisi, un castigamatti, un malefico burattinaio che muove leve e fili, ai quali sono attaccati arti e bocche di deputati e senatori, che, a suo comando, alzano la manina per votare e chiudono la bocca per non far emergere opinioni discordanti da quelle del capo della baracca.
No, io questo signore proprio non lo sopporto. Non mi faceva ridere da giullare televisivo, mi fa piangere come politico!