domenica 18 dicembre 2016

Ubik



E' come sbattere contro un muro, o come quando ti sparano negli occhi la luce abbagliante di una cellula fotoelettrica, o farsi trapanare le orecchie da un impianto audio da un milione di watt.

Non si entra mai impunemente in un romanzo di Philip Kindred Dick (1).

E anche Ubik non fa eccezione.

Ma cos'è Ubik?

Ubik è uno e trino. E' essenza divina, è sostanza sfuggente e farmaco che attenua il dolore insopportabile dell'esistenza. “Io sono Ubik. Prima che l'universo fosse, io ero. Ho creato i soli, ho creato i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi che esse abitano; io le muovo nel luogo che più mi aggrada. Vanno dove dico io, fanno ciò che io comando. Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato, il mio nome che nessuno conosce. Mi chiamano Ubik, ma non è il mio nome. Io sono e sarò in eterno.

Ma attenzione, non è un dio a parlare, neppure a nome di un oscuro pantheon di numi inesplicabili e vendicativi; è l'essenza stessa del capitalismo, del business as usual, della miserabile arte di trovare il prezzo di ogni cosa, anche di ciò che non si può vendere o non si può comprare. E' l'ubiquità (Ubik, appunto, dal latino ubique, ovunque) del materialismo, del potere del denaro che domina le creature viventi e le sballotta di qua e di là esclusivamente in base alle leggi di mercato, la Legge suprema della R.M.F.S. (Repubblica Materialistica Fondata sulla Speculazione, l'acronimo è mio e, a voler essere modesti, anche il resto).

Il passato si confonde col futuro, la vita con la morte, il male con il bene. Non si può essere certi di nulla. E' tutto capovolto, sottosopra, ambivalente e si fa fatica a distinguere qualcosa nelle tenebre. Ma forse, non è davvero così importante.

Il progresso tecnologico ha reso quasi possibile sconfiggere la morte, organizzando imprenditorialmente un limbo a pagamento, chiamato semi-vita, nel quale i dormienti aleggiano incerti fra le ultime luci della vita e i primi sentori dell'eternità. Un luogo metafisico che ha molto della vita intermedia del BarDo Thodol (2), in attesa di rinascere ancora.

In questa fase artificiale fra la vita e la morte, che è l'anticamera della dissoluzione temporanea, prima di tuffarsi a capofitto nella luce rossastra che segna l'inizio di una nuova vita, in un nuovo utero, irrompono fantasmi in carne e ossa; sono i vivi che cercano di comunicare con i morti, sbirciando in quel mondo etereo e crepuscolare con curiosità morbosa, dall'altra parte della superficie di ghiaccio, nel quale i defunti sono mantenuti in ibernazione.

E' un mondo terribile; chi ha parenti che se lo possono permettere, è da questi glorificato (o condannato?) all'eternità fasulla e artificiale della semi-vita, mentre chi non se lo può permettere defunge alla vecchia maniera. Anche nell'oltretomba si scatenerà la lotta di classe?

Ne vale la pena?, si chiese. E' meglio della morte vecchio stampo, la strada diretta dalla vita alla tomba? Lei è ancora con me, in un certo senso, decise. L'alternativa è il nulla.

E' davvero spaventoso. Per parte mia, non vorrei vivere in quel modo. Attivato e disattivato a richiesta di parenti, amici e conoscenti che desiderano conferire con me. E per tutto il resto del tempo, fluttuare senza memoria nel buio fitto del nulla. Davvero, mi accontenterei di tornare a dare un'occhiata. Di tanto in tanto.

Ma c'è ancora qualcosa di strano, qualcosa che non quadra e che le innovazioni scientifiche non bastano a spiegare, come il disfacimento del visibile e il flusso a ritroso del tempo. L'effetto è di spaesamento totale, come vedere un film a partire dai titoli di coda. Gli attori si muovono al contrario, fanno gesti innaturali, la visione complessiva provoca la nausea. La materia regredisce, la carne si decompone, le lamiere arrugginiscono. Tutto retrocede in una folle corsa in direzione di un passato che prende il posto del futuro. Una caduta nel maelstrom (3), verso l'annientamento del sé, ma molto ricca di particolari e d'inventiva. Perchè anche nella distruzione è necessario essere creativi.

Se in Un oscuro scrutare (4), Dick cercava di scandagliare il presente - l'epoca successiva alla beat generation, nella quale i sogni psichedelici mutarono in incubi da overdose, ai quali nessuno sopravvisse -, in Ubik egli scruta nel futuro. Un futuro allucinante e distorto, molto simile a un deja vu - il ricordo del presente, secondo una bellissima espressione di Bergson.

E se la fantascienza può essere considerata come l'espressione di un presente in crisi, il prodotto visionario e terrificante di un futuro che incombe minaccioso con le sue distopie innescate e pronte a deflagrare come una profezia che si auto-avvera, l'intera opera dello scrittore californiano è fantascienza del presente. Le sfaccettature più aberranti, le visioni più distorte, gli aspetti più spaventosi della nostra epoca, lui li aveva già visti nei dorati Sixties. Dietro le pagine mi sembra quasi di vederlo sghignazzare, ubiquo e onnipresente. U-Dick (5).

E noi che ci dibattiamo nel qui e ora, nei labirintici miasmi di un passato che non passa e di un presente oscuro, è meglio che lo sappiamo. Lui c'era già stato.

Prima di noi.

Il finale è spiazzante e rimette tutto in discussione. Ancora una volta, chi è vivo e chi è morto? Qual è il bene e quale il male? Cos'è la vita e cos'è la morte?

Davvero, non è così importante saperlo.



(1) Nato a Chicago il 16 dicembre 1928 e morto a Santa Ana il 2 marzo 1982. Fra i principali esponenti della letteratura post moderna, è considerato un precursore del cyberpunk e dell'avantpop. Il cinema ha letteralmente saccheggiato le sue opere. Blade Runner, Next, The Truman Show, la trilogia di Matrix, Total Recall, Paycheck, Screamers, Impostor, Radio Free Albemuth, A Scanner Darkly, Minority Report, Memento, L'esercito delle dodici scimmie, The Island, Inception, eXistenZ e molti altri ancora, non sarebbero stati girati senza i suoi libri.

(2) Il libro tibetano dei morti.

(3) Racconto di Edgar Allan Poe. Il titolo originale è Una discesa nel maelstrom.

(4) Titolo originale, A scanner darkly (1977).

(5) Gioco letterale fra Ubik e U–Dick, il cognome dello scrittore; una sorta di grande occhio universale (6) che ci scruta dall'altra parte del tempo, attraverso le tenebre.

(6) Nota alla nota (non sono sicuro che si possa fare): “Io sono un occhio” dice Bruce col cervello bruciato, tossicodipendente e contraltare di un alienato mentale, giunto al termine del suo oscuro scrutare.


sabato 3 dicembre 2016

Celine e il tappo del dolore



Ci sono scrittori ai quali non è bastato inventare una letteratura, hanno dovuto anche (re)inventare un linguaggio per poter scrivere quella letteratura. Giganti della statura di Joyce e Celine. Ma, eleviamoci fino a loro, per quanto ci è consentito, e diamo un'occhiata più da vicino a quest'ultimo.
Dal retro di copertina Celine lo guardava con lo sguardo assente, ironico, canzonatorio dei bei tempi andati, ritratto nel bel mezzo di un ennesimo scandalo. Si soffermò a guardare quella foto in bianco e nero, la fronte aggrottata e sovrastata dai capelli pettinati all'indietro, quegli occhi innocenti, trasparenti come il cielo, un sorriso beffardo eternamente stampato sulle labbra, prima di aprirle su una delle sue innumerevoli provocazioni. Sembrava così innocuo e inoffensivo. Soltanto un altro cacciatore di miseria. Niente di più. (Così scrivevo di lui ne La città verticale, 0111 Edizioni, 2014). Pare quasi che ci prenda ancora in giro da un passato non troppo lontano. Ma la sua opera non è affatto una presa in giro. Non c'è finzione, raggiro, artificio. E' tutto puro e genuino. E' la vita stessa che cola dalle sue pagine.
Non è un caso che adorava, come io adoro, François Villon - non si può dimenticare la Ballata degli impiccati, anche se è stata scritta nel 1489 (1) – e sopra ogni cosa, amava la sua lingua, che era la lingua del popolo dei bassifondi, catturata in presa diretta nelle bettole e nei postriboli, in fondo a strade buie ai margini della città della luce, dove si aggirano uomini senza nome e senza volto. Un linguaggio bizzarro, probabile archetipo l'argot della suburra parigina, spesso ai limiti della comprensione, come nello sfrenato delirio verbale di Carneficina (2), messo in bocca a un'umanità lasciva, decadente e corrotta.
Questo siamo, neri stormi che sporcano i cieli, affamati di miseria e morte. Uomini e donne arrivano assieme come branchi d'avvoltoi su una carcassa fumante, si accoppiano e subito volano via. Avvoltoi che piombano dal cielo come pietre pesanti. Artigli e becco, questi siamo! Un enorme apparato intestinale che fiuta la carne morta (3).
Erano anni difficili, è un arduo compito narrare la vita di uno scrittore difficile in un'epoca complicata, devastata da due guerre mondiali, di cui fu vittima egli stesso. Anarchico, fascista, antisemita? Niente di tutto questo. Ogni sua provocazione generava scandalo e un diluvio di accuse, tanto da ritrovarsi perennemente sul banco degli imputati. Spesso da innocente.
Grande scrittore, ma atroce antisemita”, oppure, “atroce antisemita, ma grande scrittore”, i simmetrici giudizi su di lui. Il primo lo condanna senza appello all'oblio dell'esilio, a nulla vale il giudizio delle lettere; nel secondo, ma in netta minoranza, la nera aura razzista è riabilitata dalla sua immensità artistica (per la verità, solo ai giorni nostri).

Fra le righe è possibile rintracciare la scia di un uomo alla deriva, portato soltanto dalle correnti della vita e dal vento mutevole del destino, da Parigi all'Inghilterra in improbabili e fallimentari apprendistati, ancora a Parigi e da qui all'Africa; e ancora a New York e di nuovo a Parigi, sulle vie soffocanti di un eterno ritorno.
Ma come si sopravvive a tutto questo? Se non hai gli anticorpi non puoi resistere al morbo della vita e Celine gli anticorpi di sicuro non li aveva. E così è stato sbranato, divorato un morso alla volta, devastato pezzo a pezzo, una ferita dopo l'altra.
Celine non sopravvisse, morì sui suoi fogli, nelle pagine dei suoi libri, in cui riversò tutta la sua anima, senza lasciarne più nulla per sé. Egli si è letteralmente dissanguato, nelle sue opere l'inchiostro ha preso il posto del sangue tra le fibre di cellulosa, il tessuto connettivo del suo corpo. E, insieme al dolore, colava via la ragione. Celine perdeva senno dal tappo del dolore, scrive Erri De Luca in La città non rispose (4) e io non oso ritapparlo, perchè non saprei dirlo meglio. Non si risparmiava, affogava in fondo all'anima i dolori, le paure, le miserie del mondo e segnava il foglio con l'impronta irregolare della sua anima errabonda e fallace. (Ancora dal mio La città verticale).
Certo, la vita materiale ebbe il suo decorso, ma a quale prezzo? Seguì la disfatta dell'esercito tedesco e ne condivise la sorte. Tribunale militare, condanna, esilio. Gli fu consentito di tornare in Francia soltanto nel '51, dopo lunghi anni a Copenaghen. A quel tempo, Celine era lo scrittore del secolo, come uomo era già finito. Era incerto, tra Flaubert e Dostoevskij, a quale dei due attribuire il titolo di miglior scrittore dell'Ottocento, ma per il Novecento non aveva dubbi. Il titolo spettava a Celine. Il suo Viaggio al termine della notte era un'opera ineguagliabile. Tutti gli altri erano un branco di pecore che seguono il pastore (La città verticale, ibidem).
Il Viaggio potrebbe essere a buon diritto la pietra tombale, la parola fine, L'ultimo libro dell'umanità, quello che avrebbe voluto scrivere Henry Miller. Tutti quelli che hanno qualcosa da dire, la diranno, là dentro, anonima. Daremo fondo alla nostra epoca. Dopo di noi non più libri, almeno per una generazione. Il mondo si potrà nutrire del nostro libro per mille anni a venire. Solo a pensarci, quasi ci annienta. (5)
Che cosa non ha funzionato nella sua storia d'uomo, si chiede Carlo Bo (6). La mancanza di equilibrio fra l'intelligenza piena della realtà e la sua resistenza morale? Il senso di anarchia più profondo e fagocitante, l'estremo dileggio di ogni regola e di ogni sapere scientifico, perfino della sua professione di medico condotto? Je n'ai toujours pratiquè la mèdicine, cette merde (!).
Ma la sua scrittura era inesorabile, il dolore, la disperazione, ma anche la compassione per questa umanità dolente, la sua sorda pietà di medico suonato che cercava l'impossibile interpretazione del mondo, ne marcava ogni passo. Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m'han detto gran che. (7)
Ancora una volta, per fortuna, è sempre il tempo di Celine, scrive Georg Steiner (8). E anche oggi il Viaggio al termine della notte, la folle corsa a rivedere la luce di uno scialbo mattino, il viaggio di uno, il viaggio di tutti noi, è un salvacondotto per la vita.


(1) La ballade des pendus

Vous nous voyez 'cy
attachez cinq, six
quant de la chair,
que trop avons nourrie
elle est pieça devorèe et pourrie
La pluye nous a dèbuez et lavez
et le soleil dessechez et noirciz.
Pies, corbe aulx nous ont les yeux cavez
et arrachè la barbe et le sourciz.

Ci vedete qui
in cinque, sei, appesi
quanto alla carne che troppo abbiamo nutrita
ora è divorata e putrida.

La pioggia ci ha lavati
e il sole ci ha anneriti e seccati
Gazze, corvi ci hanno gli occhi cavati
e strappata la barba e le sopracciglia.

(2) Titolo originale Cassepipe (1949).

(3) Tropico del Cancro, Henry Miller (1934).

(4) In alto a sinistra (un'antica via d'uscita), Feltrinelli (1994).

(5) Ancora in Tropico del Cancro.
(6) Saggio critico su Morte a credito, Garzanti 2011.

(7) Morte a credito, titolo originale Mort à crèdit (1952).

(8) The Times Literary Supplement, 12 gennaio 2010.

domenica 27 novembre 2016

Ancora quattro chiacchiere su Hotel Vasteland e poi basta




Ogni uomo si porta dentro una storia.

(Proverbio ebraico)



Heinrich/il signor Dammerschlaft, è il misterioso, duale protagonista di Hotel Vasteland. In quel cognome, forse inventato da un falsario, è contenuto il simbolo della sua vicenda umana, trascinata al limite dell’assurdo e dell’inspiegabile. Dammerschlaft si traduce pressappoco in “sonno del crepuscolo” ed è un termine utilizzato nell’odierna psicologia per indicare un particolare stato mentale di grande confusione, spesso indotto da psicofarmaci e droghe. Il signor Dammerschlaft ha perso la memoria e vive incastrato in un incubo, un eterno presente che si ripete all’infinito, il cui nome scientifico è amnesia lacunare. E' una particolare tipologia di disturbo della memoria, che interessa uno specifico periodo di tempo, che non viene ricordato dal paziente, ad esempio, la stessa giornata che in apparenza si ripete sempre uguale. E proprio quando sta per scoprire la verità, ai margini della rivelazione, Heinrich è risospinto indietro, nel suo inferno personale, fatto di amnesie e jamais vu.

La vicenda orbita intorno a un albergo, l’Hotel Vasteland di Amsterdam, un luogo inesistente, ma altamente simbolico. Vasteland in olandese vuol dire “terraferma”. E il Grand Hotel Terraferma diviene il precario rifugio degli amanti in fuga, mentre il mondo è sconvolto dal cataclisma della guerra e della Shoah.

Terraferma, terra solida sotto i piedi.

Terra promessa.

Ma se volgiamo per assonanza di suono il termine dall’olandese all’inglese, ecco che abbiamo tutto l’opposto. Terra incolta, desolata, deserta è infatti il significato di wasteland, anche nell’accezione di terre devastate e perdute (wasted lands). Ed è proprio dalle terre perse della Vestfalia in fiamme e in preda agli odi etnici e al genocidio, che fuggono i protagonisti del romanzo, cercando scampo e rifugio in un'Olanda non ancora toccata dalla guerra, mentre la terra intorno a loro è putrida di morte, brucia dilaniata dalle bombe e sta per sprofondare nel limbo d’odio che circonda l’Europa.

Colonia, luminosa città adagiata sul Reno, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, era sede di un’importante e fiorente presenza ebraica, che si stimava a più di ventimila abitanti. Alla cessazione delle ostilità, se ne contavano meno della metà. L’altra metà, quella più consistente, era stata deportata nei campi di concentramento, soffocata nelle camere a gas, dispersa nell’aria dai forni crematori.

Ma l’olocausto è stata soltanto una delle persecuzioni antiebraiche europee, l’ultima, in ordine di tempo, e la più grave, di una lunga serie. Proprio a Colonia sono state rinvenute le tracce di un pogrom compiuto intorno all’anno 1000, seguito da un ulteriore massacro, trecento anni più tardi.

Oggi Colonia conta solo poco più di cinquemila abitanti di origine ebraica. Una sparuta minoranza in una moderna metropoli di oltre un milione di persone. Eppure il loro retaggio provoca ancora incomodi e imbarazzo, sulle ali oscure di un antisemitismo latente e mai del tutto estirpato, se è vero che ci si scaglia e oppone all’apertura di un Museo di storia e civiltà ebraica da far nascere sulle sponde del Reno, in ricordo di una delle più antiche comunità ashkenazite (1), proprio sulle fondamenta dell’antico quartiere ebraico, in cui ha visto la luce l'amore sovversivo di Heinrich e Josephine.



(1) Gli ashkenaziti sono gli ebrei tedeschi, da Ashkenazi, il nome biblico della Germania.




domenica 20 novembre 2016

Hotel Vasteland e Racconti carnivori. Affinità e coincidenze



Ho trovato strane reminiscenze del mio romanzo in Racconti carnivori di Bernard Quiriny. L'opera è stata pubblicata nel 2008, ma l'ho letta solo otto anni dopo, indotto ad acquistarla da un bell'articolo sulla terza pagina del Corriere della Sera. Abbiamo ancora bravi giornalisti in Italia.

La densità di scrittura mi ha ricordato un po' Buzzati, anche nei titoli, ma il piglio narrativo e la struttura della raccolta mi conducono dritto dritto a Borges e al suo Aleph.

Ero agitato all'idea di camminare a fianco di una tale bellezza...

...vuole continuare la passeggiata con me?

...al suo braccio avevo l'impressione di scoprire strade e piazze che pure conoscevo a memoria.

Sono brevi frasi tratte da Sanguigna, il racconto che apre la serie delle storie sarcofaghe. Alcune di esse richiamano stranamente le circostanze dell'incontro fra Heinrich e Josefine. Aggiungerei anche: “il magnetismo dei suoi occhi era sbalorditivo”. Ciò che colpisce Heinrich è però una sorta di fascinazione al contrario, un horror vacui, l'insana attrazione per gli abissi. E dunque, la vacuità dello sguardo della donna misteriosa, le insondabili profondità dei suoi occhi (1), sono per lui come la fiammella della candela per la falena.

Egli ha quasi paura di lei e del suo sguardo, senza sapere perchè, o forse intuendolo appena e subito dimenticandolo, momentaneamente felice che gli sia stato concesso il privilegio di passeggiare accanto a una donna di così rara bellezza. E proseguendo la passeggiata con lei, ha la sensazione che la città della sua nascita sia per lui irriconoscibile e misteriosa.

Ma la spiegazione è molto più prosaica. Colonia, le sue piazze e le sue strade, i profili familiari, sono stati sventrati da crudeli bombardamenti.

Come il protagonista di Sanguigna, Dammerschlaft parla molto - parla, parla, ma quanto parla! - mentre la sua controparte femminile è quasi muta. E tuttavia, l'incontro le è fatale: è colpita e affondata dalla sua capacità narrativa, la dote dell'affabulatore, del contastorie e dello scrittore. La storia del naufragio fa naufragare anche lei, fra le braccia dell'ufficiale tedesco.

Ancora, nel racconto di Quiriny, la donna mito alla fine scompare e torna a essere irraggiungibile. L'inafferrabilità, l'incomprensibilità, l'asimmetria della bellezza, oltre che nel romanzo, riecheggia anche nel mio Racconto dell'alba. E infine, la sua sparizione, provocata – o causata - dal protagonista, si ritrova in entrambi (sia in Hotel Vasteland, che in Racconto dell'alba).

Ma passiamo al secondo racconto della raccolta carnivora, Il vescovado d'Argentina. La storia è intessuta intorno al tema del doppio, altro territorio esplorato in Hotel Vasteland, o per meglio dire, che resta inesplorato anche dopo Hotel Vasteland.

Il motivo del doppio si riflette poi negli specchi di Miscugli amorosi. Ed è superfluo riferirsi al mio romanzo, che vive proprio sui riflessi degli specchi.

Per tacere della perdita della memoria (Tristi racconti di Eicher, in Cronache musicali d'Europa e dintorni) e della crisi d'identità ancora in Miscugli amorosi, “...si osservava le mani come se avesse il dubbio che non fossero le sue”.



(1) Ricordate Modigliani che dipingeva le sue donne senza occhi? E si giustificava: “Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi”.


sabato 12 novembre 2016

Hotel Vasteland. Possibili interpretazioni della Parte terza - Oltre lo specchio


Hotel Vasteland si chiude (o per meglio dire, non si chiude) con la Parte Terza Oltre lo specchio. Non si chiude realmente, dicevo, perchè ho voluto un finale aperto.
Esplorare la conclusione di un romanzo è altrettanto arduo che sondarne l'incipit e, ve l'assicuro, mettere la parola fine a una storia che non ha fine, sarebbe stato un sacrilegio.
La faccenda del finale aperto, come strategia narrativa, ha richiamato alla memoria di alcuni lettori La donna del tenente francese di John Fowles e l'amore impossibile in un'epoca impossibile di Storia di una ladra di libri di Markus Zusak. Altri hanno letto i capitoli della prima parte del mio romanzo, come frammenti della stessa giornata rivissuta più volte. Interpretazione interessante, che apre ad altri sviluppi.
E' un onore essere accostato a cotanti scrittori, ma ci tenevo a precisare che non ho mai letto i libri sopra citati. Sicuramente li acquisterò, soprattutto il primo, ma le influenze, o meglio, i libri che ho letto mentre scrivevo la prima stesura del mio romanzo sul finire dell'inverno di un ormai lontano 2013, sono stati Comma 22 di Paul Heller e Un oscuro scrutare di Philip Dick. E' stato quest'ultimo a ispirarmi l'esergo di Paolo di Tarso (Ora vediamo attraverso uno specchio, nell'oscurità), oltre che a trarmi d'impaccio dalle infide secche narrative di Hotel Vasteland.
Il finale aperto del romanzo si presta a molteplici interpretazioni. Eccovene alcune di mio pugno, ma sono certo che ne troverete molte altre, alcune fantasmagoriche e mirabolanti, molte geniali e altrettante a cui semplicemente non avevo pensato, ma tutte estremamente interessanti. È singolare  come le idee partorite dalle altrui menti siano sempre più coinvolgenti, convincenti e vivide delle nostre. La strana fascinazione dell'erba del vicino.
In ogni caso, qualunque sia la vostra interpretazione del finale, vi sarei grato di comunicarmelo: sarò felice di integrare questo succinto elenco.
  1. Oltre lo specchio è letteralmente il passare di là, in un mondo invisibile, celato dalla superficie riflettente dello specchio, che ci confonde ributtandoci negli occhi la nostra realtà effimera, fasulla e a rovescio. E' come se scoprissimo, attraversando la superficie di cristallo, che dall’altra parte c'è un mondo parallelo, apparentemente identico a quello ufficiale, ma nel quale la morte, come la vita, è finzione (Vedi n. 6).
  2. Un'interpretazione più realistica: è il risveglio di Heinrich dall'altra parte del mare, all’alba del suo primo giorno in Inghilterra. Un risveglio amaro, inseguito dai fantasmi del passato e del suo amore infranto. Il suo inferno personale. Parafrasando Dostoevskji, gli inferi non esistono, l'inferno è su questa nera terra (epì gàn melàinan, epi gan melainan, scusate non ho potuto resistere, anche Saffo voleva dire la sua) e ognuno trova il suo con le fauci spalancate, pronto ad accoglierlo come si conviene. L'inferno dei russi, egli diceva, è essere russi; l'inferno di Heinrich, dico io, è essere Heinrich.
  3. Josephine è ormai un'abitante ufficiale del mondo delle ombre. Si è svegliata nella morte, stupita di non trovarlo accanto a sé, poiché egli è rimasto incastrato nella vita. Stringe Heinrich con straordinaria forza, egli ne è sorpreso e cerca di divincolarsi, come se avesse paura di precipitare insieme a lei nel pozzo della morte, ma lei lo ammonisce a non sciogliere il suo abbraccio. E nel suo sguardo trapelano lampi d'invidia.
  4. Un'interpolazione alquanto macabra. La donna sul letto è morta. Heinrich sta abbracciando e parlando con un cadavere. Perso il senno, il cervello distrutto dalla morfina, può dare sfogo al suo amore per le ombre.
  5. E’ una scena soltanto immaginata dal protagonista maschile, lo sviluppo ideale dell’omicidio – suicidio, in cui Josephine, da un piano molto sopra la realtà, dialoga con lui attraverso il velo oscuro della morte.
  6. E’ il bar-do (letteralmente isola in mezzo, nel Libro tibetano dei morti), la vita intermedia fra un'esistenza e l'altra, nel circolo di molte vite. E il satori, la rivelazione. “Non v’era niente che non conoscesse già, non v’era nulla che dovesse ancora accadere.” Nello stato di sospensione fra una vita e l’altra, in attesa della prossima nascita, il passato, il presente e il futuro si manifestano nello stesso istante, il tempo è abolito, il velo dell'ignoranza è finalmente squarciato.
Nella Parte Terza v'è il nocciolo della questione, la scoperta dei due nuclei gemelli del romanzo, gli atomi non ulteriormente divisibili della nostra crisi.
Heinrich riconosce il suo nome, un nome che, fino a quel momento, gli era risultato estraneo, freddo, fasullo, ma che adesso, per il solo fatto che è pronunciato da lei, gli appartiene, è davvero il suo. Egli si vede riflesso nei suoi occhi, in quegli occhi che sono la verità e la vita, e finalmente si riconosce, quel volto è il suo volto. La crisi d'identità, il primo nucleo gemello, sarebbe, a questo punto, risolta.
Invece, “Non avremo tempo di amarci” egli dice, riconoscendo l’impossibilità dell'amore. L’ultima riga dell’ultimo capitolo, l’ultima riga del romanzo, contiene la rivelazione, l'illuminazione, il satori. E muore il secondo nucleo gemello di Hotel Vasteland: non sappiamo amare. E' un amaro risveglio, all'alba fredda di un mattino qualunque, sferzato dal vento, soli nella nebbia, che cela con amorevole cura le spaventose vastità del mare.
Soltanto con l’amore ci salveremo, soltanto per mezzo dell’amore salveremo l’altro e, attraverso di lui, noi stessi.
E l'epilogo ci vede finalmente attraversare la superficie dello specchio, confine ideale fra l’io e il sé, il reale e l’immaginato, la realtà e il suo riflesso.
Crisi d’identità = Impossibilità di amare.
L'una, il riflesso dell'altra; l'una, la negazione dell'altra.
Per dirlo, ho impiegato ventitremilaseicentoottantasette parole. Non ho il dono della sintesi.
Decisamente, no!

sabato 5 novembre 2016

Esoterismo in Hotel Vasteland



Cinque pianeti allineati esercitavano il loro misterioso influsso sulla terra… “ (capitolo X).

Si guardò le mani. Linee rette e curve s’intersecavano solcando la pelle, come orbite di pianeti di un universo bidimensionale… “ (capitolo XII).

Le due frasi, sebbene in distinti capitoli, sono collegate fra loro. Un po’ ermetico, in apparenza, ma non troppo; solo alquanto esoterico (1).

E' chiromanzia. Nella mano sono tradizionalmente rappresentati cinque pianeti: Mercurio, Saturno, Giove, Marte e Venere (oltre al Sole e alla Luna).

Che volto ha Josefine? Heinrich non lo ricorda. E' mutevole e cangiante, come la luna.
Selene e il suo triplice viso: il profilo destro di luna crescente, la faccia di fronte, luna piena, il profilo sinistro, di luna calante.

E nel capitolo VII, dove si narra del loro primo incontro, va in scena il mistero di Iside e Osiride.

 
 
 
Heinrich e Josefine sono come il sole e la luna, condannati dalle forze dell'universo a inseguirsi e non raggiungersi mai. Sono la luce e le tenebre, Yin e Yang, il bianco e il nero, Aset e Asar (ovvero, Iside e Osiride), lingam e joni, gli opposti che si attraggono. Ma la loro seduzione è inconcepibile, senza dubbio scandalosa, immorale, contro natura, nel contesto e nel tempo in cui s'avverano. Sono l’unione impossibile fra El e Asherah, la moglie di Dio, le divinità delle religioni ebraiche pre-monoteistiche (2), a cui faccio riferimento nel Capitolo X.
 
 
I versi in ebraico nel capitolo VIII:
Shemà Israel
Adonai eloheinu
Adonai ehad
Baruch shem kevod malkhuto leolam va’ed…
E' Shemà Israel, una preghiera antichissima (3), la più sentita fra quelle della liturgia ebraica. Secondo alcune fonti, risalirebbe addirittura ad Amenothep IV, meglio noto come Akhenaton, passato alla storia come il faraone eretico per aver tentato di sostituire il culto del dio Amon con un embrione di monoteismo.

Israel, secondo alcuni studiosi, deriva dall’unione delle parole Is (da Iside), Ra (il dio egizio Rah) ed El (il dio canaanita sopra citato). La spiegazione che viene fornita in proposito è che tre battaglioni egiziani di stanza nel Sinai, guidati da un generale di nome Moshéh, abbiano disertato e si siano insediati nella Terra promessa. E’ stato appurato che sono storicamente esistite unità da guerra egizie con nomi di divinità.
Dunque, siamo noi a creare i nostri dei e non loro noi. E, come creiamo i nostri idoli, plasmandoli dalla creta delle nostre paure, così forgiamo i nostri epigoni e li facciamo danzare sulle assi traballanti dei nostri teatri esistenziali.
Mi scuso per la divagazione.
Scansione del testo, ritmo della narrazione. Il romanzo è diviso in tre parti, nella Parte prima Nox, che è quella più misteriosa, i ricordi di Dammerschlaft sono imprigionati nell'amnesia lacunare che lo affligge. E' notte fonda ed egli brancola nel buio.
La Parte seconda Dies, è più luminosa, perché egli ricorda, finalmente. E' la luce del sole che rischiara le tenebre.
L’epilogo è una parte a sé stante, in cui si attraversa il confine fra il reale e l’immaginato, tra la forma e il suo riflesso e si transita dall’altra parte, nel sogno, nel mondo delle ombre, sollevando il velo della morte, il profilo nero che traccia il limite di ogni cosa. Si intitola Oltre lo specchio ed è costituita da un solo breve capitolo, in cui il satori risplende nella sua insopportabile luce.
Dunque i capitoli, escluso l'epilogo, il termine del viaggio, sono dodici. Non a caso.
Nell’antichità, presso i Babilonesi e i Cinesi, il giorno era suddiviso in dodici ore, ognuna delle quali corrispondeva a due delle attuali ore. E, secondo il Libro egizio dei morti, l'anima del faraone per purificarsi doveva passare attraverso le Dodici porte del Giorno e della Notte.
 
 
 
 
(1) V'è una differenza di sostanza fra esoterismo (4) ed essoterismo. Il primo indica le dottrine a carattere riservato, la verità occulta, il nucleo inaccessibile o i significati nascosti di dottrine non esoteriche, note soltanto agli iniziati. Il secondo termine ha un significato nettamente opposto: indica il cerchio esterno delle verità palesate, aperte e accessibili a tutti. A volte, una consonante in più fa la differenza. E che differenza.
 
(2) Fu il tentativo, quasi riuscito, di abbattere il pantheon di numi oscuri e vendicativi del paganesimo della Mezzaluna fertile. Il passaggio al dio unico però diede alla luce una divinità ammalata di solitudine, tanto che fu necessario dargli una compagna, una moglie. Asherah, appunto.
 
(3) I suoi echi si odono anche nel Paternoster del cattolicesimo. Primo Levi ne elaborò una sorta di preghiera civile in Se questo è un uomo:
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo.
 
(4) Nota alla nota (Non so quanto sia corretto). Ogni religione possiede una componente esoterica di verità occulta, un mistero ammantato di ombre, da cui ha avuto origine (almeno, secondo Schurè). Io credo che questa verità ultima non possa essere rivelata, per la semplice ragione che non vi è nulla da rivelare.


 

martedì 1 novembre 2016

Manuale di viaggio per Hotel Vasteland


Per i tour operators e le guide turistiche propongo un viaggio sulle tracce di Heinrich e Josephine. Viaggerete nei (neri) panni di agenti della Gestapo o della Politie olandese, oppure come semplici fuggitivi con la notte per rifugio; tanto, in un modo o nell'altro, siamo tutti in fuga.

Allora, ecco il programma. Si parte a mezzanotte da Colonia, non prima di aver gustato torta al rum accompagnata da litri di caffè in un bar del centro; soltanto con la pancia piena e il cervello ben nutrito dalla caffeina fermeremo un taxi e chiederemo di accompagnarci fuori città fino a un certo incrocio illuminato dalla luna piena; lì, davanti a una fattoria disabitata, troveremo un camion arrugginito ad attenderci. Tutti a bordo, si parte, il camionista è di poche parole, però sa il fatto suo. Il viaggio è lungo e scomodo ma avrete tutto il tempo di ammirare la luna giocare a nascondino con le nubi e strizzare gli occhi alla campagna, mutandola in un mare d'argento. E se per caso, udirete un rombo cupo nel cielo e lugubri insetti di metallo passarvi in stormo sulla testa, non abbiate timore, non c'è alcun rischio. La guerra è finita da un pezzo.

Il camionista sa il fatto suo, vi dicevo e ci farà passare indenni il confine olandese a Zevenaar. Ci mollerà alla stazione, in tempo per prendere il treno per Utrecht. Ve l'ho detto, è un tipo taciturno, ma il suo sguardo di saluto vale tutto il viaggio.

In realtà, il treno va fino ad Amsterdam, ma fingeremo di essere costretti a scendere a Utrecht da una pattuglia della Politie. Però vale la pena di visitare la città: è bellissima. Mentre ci attarderemo sotto i portici in negozi di libri antichi e polverosi, un vecchio stanco e quasi cieco, ci istruirà su come raggiungere Amsterdam via terra. Seguendo le sue istruzioni, saliremo su un autobus, ma è così decrepito, sgangherato e puzzolente, che non ci sorprenderemo troppo se il motore si pianterà dopo alcuni chilometri in mezzo al nulla della campagna olandese. Ma animo! Una donna che suona la fisarmonica davanti a un bar, ci dirà dove trovare delle biciclette per proseguire il viaggio.

Sarà uno spreco di denaro. La strada costeggia un canale talmente placido e solenne che ci verrà voglia di abbandonare i velocipedi e proseguire il viaggio in barca. Così, ci abbandoneremo al dondolio della debole corrente, seguendo le ninfee; qualcuno leggerà per tutti all'ombra di un ombrello, con voce sommessa, per non disturbare troppo, qualcun altro sorseggerà tè di Ceylon, altri con lo sguardo perso si chiederanno da che parte è Amsterdam. A questo punto la guida, indovinando la domanda, risponderà: “Alla fine del viaggio” e si guadagnerà il rispetto e l'ammirazione di tutti.

Ma ecco che il canale si allarga e siamo già nell'Amstel (1), solcato da centinaia di altri battelli e – non vi sbagliate – quei palazzi dai colori vivaci che si specchiano nelle acque smorte appartengono alla città strappata al mare.

Amsterdam, finalmente.

Ed ecco l'hotel Vasteland, un alberghetto lindo e dignitoso. Ma attenzione, non è citato nelle guide turistiche e non lo troverete neppure con Trip Advisor; lo scoprirete soltanto chiudendo gli occhi e ascoltando il vostro cuore.

Ora disfate in fretta i vostri bagagli; anzi, non disfateli affatto, perchè ce ne andremo da un momento all'altro.

Quando?

Ce lo dirà uno strano tipo con la faccia da mezzaluna e con la tosse.

Dove?

Nel Cafè De Vrije (a proposito, si pronuncia d'frai), appena dall'altra parte della strada. E sorseggiando i nostri caffè improbabili e oleosi, assorbiremo avidamente le sue istruzioni per arrivare sani e salvi dall'altra parte.

La fine del viaggio è una corsa disperata in taxi dentro una notte buia come l'infinito; saremo a Ijmuiden appena in tempo per vedere l'alba sorgere sul mare, in attesa d'imbarcarci su una nave che non partirà mai.

Che ne dite?

Si accettano prenotazioni.


NdA Solo per i più audaci, il viaggio potrebbe avere un'appendice in Norvegia per ammirare cime rombanti di vento specchiarsi nelle acque scure della baia di Narvik, ignari dei rugginosi relitti di navi da guerra che giacciono, ferite a morte, sui fondali.



(1) Amsterdam prende il nome dal suo fiume: Amstel-Redam, che letteralmente vuol dire sbarramento, diga sul fiume Amstel.






martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Parte prima Nox - Capitolo I



                                                   Hotel Vasteland



Questo romanzo non ha la pretesa dell'accuratezza storica; vi sono riportati fatti realmente accaduti, seppure in momenti storici diversi rispetto a quelli narrati.

I lettori sono avvisati.



Videmus nunc per speculum in aenigmate.

Ora vediamo attraverso uno specchio, nell’oscurità.

Paolo di Tarso, Lettera ai Corinzi




Parte prima

Nox



I

La stanza era buia e nuda. Un ticchettare ostinato, ritmico, compulsivo sconvolgeva le ultime pieghe della notte, nella luce incerta che preannuncia il giorno. La coscienza lentamente si risvegliava, la ragione si liberava dai tentacoli del sonno e spezzava le inferriate della prigione onirica nella quale era stata reclusa.

Cosa aveva sognato?

Tentò di ricordare, di riportare a galla i sogni. Scrutò nei foschi recessi dei neuroni, lungo i tortuosi meandri della coscienza, nei bui cunicoli della memoria.

Niente.

Nessun ricordo affiorava dal fiume di tenebra, nessun baluginio, seppur lieve, che potesse rivelare il riaffiorare di reminiscenze, brandelli sfilacciati di sogni rimasti impigliati, come nebbia fra i rami, nelle terminazioni nervose durante la notte. Eppure qualcosa indugiava ancora. Una lieve sensazione, uno smarrimento e un’angoscia, un vago sapore spiacevole in bocca e un ronzare persistente nelle orecchie.

Aprì gli occhi lentamente.

Dove si trovava?

La stanza era buia e spoglia, le mura nude, senza quadri, specchi e altri orpelli, incombevano sul letto. E quel ticchettio continuo, inarrestabile, ossessivo, come se mille orologi battessero il tempo all’unisono, percuoteva le membrane timpaniche tese come pelli di tamburo e, attraverso il buio delle terminazioni nervose, si insinuava nelle pieghe della mente.

Chi era?

Si guardò le mani nella luce grigia dell’alba. Non erano mani di vecchio, non erano mani di giovane. A chi appartenevano quelle mani scarne, ossute, solcate da capillari azzurrognoli, malaticce come petali appassiti? Rabbrividì, di freddo e d’angoscia. Si alzò dal letto e andò in bagno. Allo specchio comparve l’immagine di uno sconosciuto e trasalì di stupore. Lo sconosciuto rispose al suo sguardo sbalordito con un ghigno. E un’occhiata sconcertata. Si toccò il viso e le guance sulle quali affluiva bluastra l’ombra della barba e i polpastrelli affondarono impazienti nella carne delle gote. Si infilò le dita in bocca, si toccò i denti, la lingua, le pareti interne, come se potesse trovare il rovescio del suo volto ed estrarlo, e quel rovescio fosse più familiare dell’immagine riflessa nello specchio. Agganciò le dita agli angoli della bocca e tese il tessuto molle deformandola in fauci bestiali. Allo specchio, un mondo parallelo e sconosciuto, al pari di quello che si trovava dall’altra parte, faceva sfondo a una maschera orribile e deforme che lo fissava con occhi spalancati di viva curiosità.

Una giacca giaceva abbandonata sulla spalliera di una sedia, infilò le dita in una tasca e ne estrasse un portafoglio. Trovò il passaporto. Lo aprì e la foto mostrò il volto straniero che era comparso allo specchio. Heinrich Dammerschlaft diceva il documento a caratteri netti e precisi e non vi era motivo di dubitarne.

Si lavò il viso e si rase. Dunque, si chiamava Heinrich. Heinrich Dammerschlaft. Quel nome non gli diceva niente. Si guardò ancora allo specchio. Scosse la testa. Doveva esserci un errore. Il volto riflesso non si combinava affatto con quel nome pieno di forza e di energia, un nome che emanava autorevolezza. Il volto allo specchio, invece, ne scarseggiava.

Si vestì e uscì in strada. Non aveva mai visto quella città, non aveva idea di dove si trovasse. Guardò a destra, guardò a sinistra, poi dritto davanti a sé. Non sapeva dove andare.

Dall’altra parte della via c’era un caffè. Attraversò la strada ed entrò. Era prestissimo, non c’era nessuno. Si sentì molto stanco, quel sonno senza sogni non gli aveva portato il ristoro e si trascinò incerto oltre la soglia.

«Buongiorno signor Dammerschlaft.»

Trasalì, ma si riprese rapidamente, cercando di mascherare il suo stupore. Si stropicciò gli occhi cisposi, ancora intorpiditi dal sonno e guardò meglio.

Osservò a lungo quel tale, indagò sulla sua fronte ampia e calva, studiò le sopracciglia nere e folte e il viso butterato a forma di mandorla. Invano. Nei suoi lineamenti non vi era nulla di familiare. Eppure il tizio dall’altra parte del bancone aveva dato mostra di conoscerlo. Sentì lo stomaco contrarsi e tutti gli altri suoi organi interni restringersi e raggomitolarsi seguendo il suo esempio, e poi indurire come fossero diventati di legno. Nondimeno, si impose di comportarsi normalmente. Si avvicinò al banco e ordinò un caffè.

Avvicinò le labbra alla tazzina. Trovò alquanto conforto nel liquido nero e caldo che vi era nel fondo.

«Non mi par da tanto di aver assaporato un caffè magnifico come questo.»

«Certo, signor Dammerschlaft, è stato l’altro ieri.»

Accese una sigaretta senza fretta. Era Dammerschlaft, e al contempo, non lo era. Armeggiò con il cucchiaino e la tazzina e intanto i suoi occhi vagavano febbrili nell’ambiente circostante, in cerca di particolari familiari. Indugiò ancora studiando i canapè, i tavolini d’acciaio, le tende di broccato, ma nulla veniva in soccorso alla sua memoria. Quel luogo era un mistero, come il volto che si rifletteva negli specchi della scansia di fronte. Decise di averne avuto abbastanza e finì il resto del caffè tutto d’un fiato.

Attraversò la strada e si trovò di fronte il portone dal quale era uscito poco prima. L’entrata apparteneva a un grande edificio grigio dall’aspetto austero e funereo con una grande insegna a caratteri cubitali, infissa all’altezza del primo piano.

Hotel Vasteland.

Ci rimuginò su, ma neanche quel nome gli diceva nulla.

Il portiere gli porse la chiave della stanza novantacinque. «Buongiorno, signor Dammerschlaft.»

Egli rispose con cortese indifferenza e salì in camera sua. Trovò la stanza più fredda e più nuda di quando l’aveva lasciata. Si buttò sul letto e stette a considerare gli stravaganti arabeschi che la luce scialba del giorno, filtrando dalle imposte semiaperte, proiettava sul soffitto. Volle accendersi un’altra sigaretta, ma l’accendino gli scivolò dalle mani. Non udì il tonfo metallico che si sarebbe aspettato in seguito alla sua caduta, ma un suono lieve e smorzato. Si sporse per vedere e il respiro gli si fermò in gola.

Una mano spuntava da sotto il letto e teneva il suo accendino.



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