domenica 27 novembre 2016

Ancora quattro chiacchiere su Hotel Vasteland e poi basta




Ogni uomo si porta dentro una storia.

(Proverbio ebraico)



Heinrich/il signor Dammerschlaft, è il misterioso, duale protagonista di Hotel Vasteland. In quel cognome, forse inventato da un falsario, è contenuto il simbolo della sua vicenda umana, trascinata al limite dell’assurdo e dell’inspiegabile. Dammerschlaft si traduce pressappoco in “sonno del crepuscolo” ed è un termine utilizzato nell’odierna psicologia per indicare un particolare stato mentale di grande confusione, spesso indotto da psicofarmaci e droghe. Il signor Dammerschlaft ha perso la memoria e vive incastrato in un incubo, un eterno presente che si ripete all’infinito, il cui nome scientifico è amnesia lacunare. E' una particolare tipologia di disturbo della memoria, che interessa uno specifico periodo di tempo, che non viene ricordato dal paziente, ad esempio, la stessa giornata che in apparenza si ripete sempre uguale. E proprio quando sta per scoprire la verità, ai margini della rivelazione, Heinrich è risospinto indietro, nel suo inferno personale, fatto di amnesie e jamais vu.

La vicenda orbita intorno a un albergo, l’Hotel Vasteland di Amsterdam, un luogo inesistente, ma altamente simbolico. Vasteland in olandese vuol dire “terraferma”. E il Grand Hotel Terraferma diviene il precario rifugio degli amanti in fuga, mentre il mondo è sconvolto dal cataclisma della guerra e della Shoah.

Terraferma, terra solida sotto i piedi.

Terra promessa.

Ma se volgiamo per assonanza di suono il termine dall’olandese all’inglese, ecco che abbiamo tutto l’opposto. Terra incolta, desolata, deserta è infatti il significato di wasteland, anche nell’accezione di terre devastate e perdute (wasted lands). Ed è proprio dalle terre perse della Vestfalia in fiamme e in preda agli odi etnici e al genocidio, che fuggono i protagonisti del romanzo, cercando scampo e rifugio in un'Olanda non ancora toccata dalla guerra, mentre la terra intorno a loro è putrida di morte, brucia dilaniata dalle bombe e sta per sprofondare nel limbo d’odio che circonda l’Europa.

Colonia, luminosa città adagiata sul Reno, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, era sede di un’importante e fiorente presenza ebraica, che si stimava a più di ventimila abitanti. Alla cessazione delle ostilità, se ne contavano meno della metà. L’altra metà, quella più consistente, era stata deportata nei campi di concentramento, soffocata nelle camere a gas, dispersa nell’aria dai forni crematori.

Ma l’olocausto è stata soltanto una delle persecuzioni antiebraiche europee, l’ultima, in ordine di tempo, e la più grave, di una lunga serie. Proprio a Colonia sono state rinvenute le tracce di un pogrom compiuto intorno all’anno 1000, seguito da un ulteriore massacro, trecento anni più tardi.

Oggi Colonia conta solo poco più di cinquemila abitanti di origine ebraica. Una sparuta minoranza in una moderna metropoli di oltre un milione di persone. Eppure il loro retaggio provoca ancora incomodi e imbarazzo, sulle ali oscure di un antisemitismo latente e mai del tutto estirpato, se è vero che ci si scaglia e oppone all’apertura di un Museo di storia e civiltà ebraica da far nascere sulle sponde del Reno, in ricordo di una delle più antiche comunità ashkenazite (1), proprio sulle fondamenta dell’antico quartiere ebraico, in cui ha visto la luce l'amore sovversivo di Heinrich e Josephine.



(1) Gli ashkenaziti sono gli ebrei tedeschi, da Ashkenazi, il nome biblico della Germania.




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