Ogni
uomo si porta dentro una storia.
(Proverbio ebraico)
Heinrich/il signor Dammerschlaft, è il misterioso,
duale protagonista di Hotel Vasteland.
In quel cognome, forse inventato da un falsario, è contenuto il
simbolo della sua vicenda umana, trascinata al limite dell’assurdo
e dell’inspiegabile. Dammerschlaft
si traduce pressappoco in “sonno del
crepuscolo” ed è un termine utilizzato
nell’odierna psicologia per indicare un particolare stato mentale
di grande confusione, spesso indotto da psicofarmaci e droghe. Il
signor Dammerschlaft ha perso la memoria e vive incastrato in un
incubo, un eterno presente che si ripete all’infinito, il cui nome
scientifico è amnesia lacunare.
E' una particolare tipologia di disturbo della memoria, che interessa
uno specifico periodo di tempo, che non viene ricordato dal paziente,
ad esempio, la stessa giornata che in apparenza si ripete sempre
uguale. E proprio quando sta per scoprire la verità, ai margini
della rivelazione, Heinrich è risospinto indietro, nel suo inferno
personale, fatto di amnesie e jamais vu.
La vicenda orbita intorno a un albergo, l’Hotel
Vasteland di Amsterdam, un luogo inesistente, ma altamente simbolico.
Vasteland in
olandese vuol dire “terraferma”.
E il Grand Hotel Terraferma
diviene il precario rifugio degli amanti in fuga, mentre il mondo è
sconvolto dal cataclisma della guerra e della Shoah.
Terraferma, terra solida sotto i piedi.
Terra promessa.
Ma se volgiamo per assonanza di suono il termine
dall’olandese all’inglese, ecco che abbiamo tutto l’opposto.
Terra incolta, desolata, deserta è infatti il significato di
wasteland,
anche nell’accezione di terre devastate e perdute (wasted
lands). Ed è proprio dalle terre perse
della Vestfalia in
fiamme e in preda agli odi etnici e al genocidio, che fuggono i
protagonisti del romanzo, cercando scampo e rifugio in un'Olanda non
ancora toccata dalla guerra, mentre la terra intorno a loro è
putrida di morte, brucia dilaniata dalle bombe e sta per sprofondare
nel limbo d’odio che circonda l’Europa.
Colonia, luminosa città adagiata sul Reno, prima dello
scoppio della seconda guerra mondiale, era sede di un’importante e
fiorente presenza ebraica, che si stimava a più di ventimila
abitanti. Alla cessazione delle ostilità, se ne contavano meno della
metà. L’altra metà, quella più consistente, era stata deportata
nei campi di concentramento, soffocata nelle camere a gas, dispersa
nell’aria dai forni crematori.
Ma l’olocausto è stata soltanto una delle
persecuzioni antiebraiche europee, l’ultima, in ordine di tempo, e
la più grave, di una lunga serie. Proprio a Colonia sono state
rinvenute le tracce di un pogrom
compiuto intorno all’anno 1000, seguito da un ulteriore massacro,
trecento anni più tardi.
Oggi Colonia conta solo poco più di cinquemila abitanti
di origine ebraica. Una sparuta minoranza in una moderna metropoli di
oltre un milione di persone. Eppure il loro retaggio provoca ancora
incomodi e imbarazzo, sulle ali oscure di un antisemitismo latente e
mai del tutto estirpato, se è vero che ci si scaglia e oppone
all’apertura di un Museo di storia e civiltà ebraica da far
nascere sulle sponde del Reno, in ricordo di una delle più antiche
comunità ashkenazite (1),
proprio sulle fondamenta dell’antico quartiere ebraico, in cui ha
visto la luce l'amore sovversivo di Heinrich e Josephine.
(1)
Gli ashkenaziti
sono gli ebrei tedeschi, da Ashkenazi,
il nome biblico della Germania.
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