sabato 30 aprile 2016

Jacob il rosso


Jacob si svegliò una mattina e aprì la finestra. A nord le colline vegliavano l'orizzonte a guardia della città distesa nella pianura, come una grigia troia a cosce aperte, e a est un sole svogliato cominciava senza troppa convinzione la sua scalata al cielo.

Ma dai marciapiedi saliva un clamore anormale. Un rombo sordo come un fiume in piena. Jacob si vestì in fretta e scese da basso. Una corrente umana risaliva la strada e fu subito trascinato via.

La faccenda era troppo strana e complicata per articolare pensieri coerenti e tentare di ricomporli in maniera decente e comprensibile nella sua bocca. Si era cacciato in una situazione pericolosa? Sarebbe potuto morire? Forse si, forse no. Ancora una volta, era tutto troppo complicato per capirci qualcosa. A ogni modo la calca era così densa e veloce che non ci si poteva opporre alla corrente.

Il flusso rallentò e Jacob si ritrovò in centro. Una massa di gente, bandiere rosse, cartelli e striscioni. E barricate da una parte all'altra dei boulevards. “Uno sciopero!”, pensò e cercò di tornare indietro. Ma da lì non facevano passare nessuno. Nemmeno le ambulanze e i mendicanti che dovevano raggiungere il loro posto di lavoro sulle scale della Cattedrale. Niente da fare, non si passava. Il popolo era sceso in piazza e aveva innalzato barriere alla pietà, sbarramenti alla solidarietà. La rabbia arrossava mille volti. E ovunque Jacob spingesse il suo sguardo, una folta moltitudine gremiva le piazze e le strade, una distesa di rosse vergini teste.

Davanti a lui la gente aveva formato una sorta di anfiteatro umano, stavano in cerchio intorno al vuoto e in mezzo al vuoto: “Libertà... Uguaglianza... Fratellanza!”, gracchiava la voce distorta di un megafono.

E il pubblico ripeteva: “Libertà... Uguaglianza... Fratellanza!”

“Forse sta per iniziare un concerto rock”, riflettè Jacob, ma non aveva mai sentito parlare di una band che si chiamasse Libertà... Uguaglianza... Fratellanza!

“Ma Jean Jacques Rousseau si era sbagliato su tutto. La tolleranza è finita, la pietà è morta!” disse serio il megafono.

“Rousseau? L'ala destra del Saint Etienne?” chiese qualcuno alle sue spalle.

“E' vero, domenica scorsa si è mangiato tre gol contro il Martignac.” disse un altro. “Basta tolleranza, cacciatelo dalla squadra!” e nel suo sibilo si percepì una sottile punta di soddisfazione.

“Lottare per la libertà dimenticando la fratellanza, significa soltanto sostituire la vecchia gerarchia con una nuova ma del tutto uguale a quella precedente. Libertà e fratellanza sono importanti entrambe, l'una non può esistere senza l'altra. Esse sono la reciprocità democratica: io limito i miei diritti, affinchè tu possa esercitare i tuoi. Ma tu dovrai fare altrettanto.” cercava di spiegare il megafono, ma nessuno capiva.

Allora provò con concetti più semplici: “Lottiamo contro la tirannia! Lottiamo per la libertà!”

Andò meglio.

“Abbasso la tirannia! Evviva la libertà!” urlò la folla col tono di un animale inferocito, che però subito si placò.

“La tirannia, la dittatura...” disse un dimostrante accanto a Jacob. “Ma lo sanno tutti che non ce ne sono più”. Era vestito più o meno come lui, soltanto un po' meglio. Forse era un operaio specializzato.

“Già, quale tirannia, quale dittatura?” chiese un altro, anche lui poco informato.

“Ma il governo, il presidente, il parlamento... Non sono una dittatura?” azzardò un terzo manifestante con un casco giallo in testa e un tubo di ferro in mano.

“Il governo, il presidente, il parlamento... Sono ormai una dittatura!” disse il megafono.

“Ah ecco!” fece il casco giallo.

A Jacob tutte quelle parole difficili misero appetito. Si allontanò dalla massa e camminò un bel pò lungo i bordi dei palazzi, prima di trovare un locale aperto.

Sciao belo!

Jacob guardò il menù e fece l'ordinazione, senza essere sicuro della pronuncia.

Gon sgibola?”

“Si, tanta cipolla.”

Mansgi gui o bordi via?

Bordo via... ehm, porto via.”

Eggo. Sciao belo!

Si mise a sedere sulle scale esterne di un palazzo e aprì il cartoccio. Sulle sue labbra si stampò la brutta copia di un sorriso.

Jacob non comprava mai fiori dai venditori ai semafori. Non avrebbe saputo a chi regalarli. Jacob non andava mai al cinema, perchè detestava stare da solo al buio. Jacob non andava neppure al ristorante. Intanto, non aveva abbastanza denaro; ma, anche se ne avesse avuto, non avrebbe mai trovato il coraggio di dividere il pasto con la sua ombra sul muro o con gli sguardi curiosi di perfetti sconosciuti. Preferiva anonimi self-service, dove si poteva servire da solo senza dover ordinare e pagare senza dire una parola. Adorava riempirsi la pancia alle mense a poco prezzo e nelle pizzerie al taglio, oppure mangiare dal kebabbaro (1), dove uomini soli come lui cenavano con lo sguardo affondato nel piatto, nessuno faceva domande e le solitudini degli uni non si mescolavano con quelle degli altri. Ma la solitudine, in fondo, non è che ombra, un'ombra appena un pò più scura delle altre, che riempiva di silenzi le sue giornate e non rispondeva mai alle sue domande.

Il primo boccone gli incendiò la bocca dello stomaco, il secondo diffuse un piacevole calore nel suo corpo, il terzo scacciò il gelo della fredda mattina dalle mani e dai piedi e si sentì subito meglio, al quarto non si curò più del megafono che continuava a sbraitare in mezzo alla folla.

Le città non sono perfettamente orizzontali, esse si sviluppano su piani inclinati e le novità rotolano sempre verso la periferia. Ma stavolta era il contrario. La novità si era impossessata del centro della città e non voleva saperne di abbandonarlo.

Alcuni africani lo guardarono con occhi gravidi di muta disperazione e della loro fame. Jacob ne fu turbato e decise di dividere con loro il resto del kebab, la birra e i suoi falafel.

“Come ti chiami?” chiese uno dei tre.

“Jacob” disse Jacob continuando a mangiare.

Ma il suo gesto era stato notato. Una parola corse come un'onda di bocca in bocca fino a raggiungere il centro dell'arena, fino ad arrivare al megafono, che subito la pronunciò: “Jacob!”

E la folla rispose a una sola voce: “Jacob! Jacob! Jacob!”

Battevano le mani a tempo e scandivano il suo nome come uno slogan rivoluzionario.

Ja-cob! Ja-cob!

Ma non ebbe il tempo di rendersene conto che due energumeni del servizio d'ordine lo acciuffarono e lo portarono via. Il trio fendeva la folla come la prua di una nave e la divideva in due flutti a babordo e a tribordo. Ben presto Jacob fu deposto ai piedi del megafono.

“Volevate Jacob?” disse il megafono “Ed ecco Jacob!”

Egli si avvicinò, ingobbito dal terrore, con passo incerto. Il cuore gli batteva in petto come uno che bussa alla porta con una certa insistenza. Cosa volevano da lui? Forse si sarebbero accontentati di un saluto e poi l'avrebbero lasciato tornare al suo kebab? Forse si, forse no. Troppo complicato per capirci qualcosa. Ma si schiarì la voce, prese fiato e: “Non è finita finchè non è finita”, disse.

Sulla moltitudine scese uno strano silenzio.

“Se il mondo fosse perfetto, non lo sarebbe.” La sua voce arrivò in fondo alla piazza, raggiunse l'ultima fila, che era composta da operai dei cantieri navali, e tornò indietro.

La folla continuava a tacere, ma proseguì.

“In teoria, non c’è differenza fra teoria e pratica. In pratica, si.”

E la folla esplose.

JA-COB! JA-COB! JA-COB!

Imbaldanzitosi, levò in alto la mano a chiedere silenzio, ma volle esagerare: “Mai rispondere a una lettera anonima!”

L'ultima frase non c'entrava nulla, come le precedenti del resto, però la folla parve non accorgersene.

A questo punto, è necessario rivelare un particolare non certo trascurabile. Le citazioni le aveva sentite tutte in televisione - e gli erano piaciute molto, del resto - da un americano che si chiamava quasi come un cartone animato (2).

La conversazione è un'arte governata da regole sottili e variabili infinite, tuttavia, non è importante ciò che si dice. La cosa davvero importante è non interrompere il dialogo, non far mai spegnere il fuoco. Ma la domanda è: si può conversare con la folla? Probabilmente no, ma era proprio quel che stava accadendo. Jacob chiacchierava con la folla e la folla lo adorava.

“Inutile lottare, non serve a niente resistere, arrovellarsi, disperarsi. E' tempo sprecato.” pensava mesto il megafono. “Accettiamo con rassegnazione la nostra fine imminente e smettiamo di pensare al futuro, il sole dell'avvenire è soltanto una chimera.” Tuttavia non disse nulla; però, se avesse avuto le braccia, di sicuro gli sarebbero staccate di netto e cascate sull'asfalto. Ma il popolo ha sempre ragione e lo lasciò fare.

Jacob non aveva null'altro da dire, ma l'euforia e l'entusiasmo serpeggiavano fra la gente come un drago che crescesse un po' di più dopo aver divorato un'altra testa. E già si rincorrevano le prime voci.

“Ti dico che ha diviso il suo cibo con trecento persone affamate!”, andava dicendo uno che sosteneva di averlo visto con i propri occhi.

“E come ha fatto?” chiese un incredulo. Ma fu subito fulminato da uno sguardo denso di fede: “Ha moltiplicato il kebab!”

“E' un miracolo!” fece il casco giallo e si fece il segno della croce, ma poichè non si ricordava bene come si faceva, gli venne male.

“Egli è il Messia!” sostenne serio un altro.

In risposta, la folla scandì il suo nome e tutte le strade rimbombarono: Ja-cob! Ja-cob! Ja-cob!

Jacob, che non aveva spiccicato parola dopo la frase sulle lettere anonime, era rimasto attonito e incredulo a osservare la moltitudine, ma ora cominciava ad avere paura sul serio. Si ricordò di un'altra frase: “Se non hai niente da dire, non dire niente”. Ma ormai era troppo tardi per metterla in pratica. La massa si avvicinava minacciosa e il suo rombo sordo e inquietante gli scuoteva il petto e sovrastava il suo respiro. Cominciò a tremare e a sudare, ma prima che potesse rendersene conto, cento mani lo afferrarono e lo issarono in cima alla barricata.

“Guidaci Jacob, guida il tuo popolo!”

La luce del sole si rifletteva sulle finestre dei palazzi e lo accecava. Non riusciva quasi a vedere da lassù. Sollevò la sinistra a proteggersi gli occhi, come uno che si aspetta di essere picchiato da un momento all'altro. E nel contempo alzò la mano destra, puntando l'indice al cielo. Gonfiò il petto per parlare, ma non riuscì a dir nulla.

La polizia arrivò, preceduta dall'ululato delle sirene e lo sorprese in quella posa da profeta sull'alto delle barricate. In pochi istanti più di mille agenti in tenuta antisommossa, si schierarono sui boulevards e presero a battere i manganelli all'unisono sugli scudi di plexiglass. A quel suono minaccioso, il popolo di Jacob tacque e un brivido freddo serpeggiò per tutta la piazza. I poliziotti avanzarono, marciando al suono dei manganelli. Giunti a ridosso degli sbarramenti, un ufficiale si distaccò dal battaglione e ordinò la carica. Gli agenti scattarono come levrieri e affrontarono le barricate inerpicandovisi velocemente. In poco tempo raggiunsero la cima e le conquistarono.

Il primo a essere travolto dalla fiumana di caschi blu fu proprio Jacob, a cui non era venuto in mente di scappare ed era ancora sulla vetta in attesa della rivelazione. Poi il torrente debordò dalla sommità delle barricate, si precipitò nella piazza e cominciò a scorrere impetuoso tra la folla. I lacrimogeni descrissero parabole perfette e atterrarono in mezzo alla gente. E chi prima aveva riso, cominciò a piangere lacrime amare.

“Io non ho fatto niente, sono venuto soltanto per guardare”

“Io? Io sono solo di passaggio, stavo andando a lavorare”

“Io? Sono qui per errore, ho sbagliato strada”

“E' stato lui a sobillarci” disse un altro indicando Jacob. “Si è vero, è proprio così” sostenevano a centinaia “Sosteneva che era giunta l'ora di rovesciare il governo”. Lo disse perfino il megafono: “E' stato Jacob! E' stato Jacob!”

Ja-cob! Ja-cob! Ja-cob! rumoreggiò la folla.

Jacob, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto dir nulla, poiché in quel momento era impegnato a farsi pestare da quattro poliziotti. Quando lo lasciarono, si tastò il volto gonfio e dolorante. Un sapore freddo e amaro in bocca. Sputò più volte e sull'asfalto sbocciarono fiori di sangue.

Faceva buio, iniziavano ad accendersi i primi lampioni e a splendere nella sera come acqua fredda. Un'oscurità pesante e polverosa velava le finestre dei palazzi. La marea blu si ritirò, portandosi dietro alcuni dimostranti ammanettati e rinchiusi in furgoni blindati dello stesso colore, che lasciarono uno alla volta la piazza. Il corteo aveva un andamento lento, come i treni di notte che sbucano all'improvviso e poi muoiono nel buio. Fra i disperati che tentavano di affacciarsi ai finestrini c'era anche Jacob. La colonna della polizia si lasciava dietro strade vuote che le automobili cominciarono lentamente a riprendersi. Jacob lanciò lo sguardo oltre la scia blu, oltre l'ultimo blindato della polizia.

Cavalli montati da gendarmi danzavano su e giù contro la cortina grigia dei palazzi. E oltre i casamenti, oltre la città, oltre il crepuscolo, il monte Dardenne dormiva sotto la neve, ignaro della sua immensità. La piazza vuota gli apparve patetica e disperata, la folla, fragili nere formiche operaie, non c'era più; bottiglie rotte, bastoni spezzati, bandiere strappate e qualcuno rovesciava secchi d'acqua sulle macchie di sangue. Eppure c'era gente che fino a poco prima aveva creduto che bastasse indossare una felpa con il cappuccio per scatenare la rivoluzione.

E dov'erano adesso? Dov'erano?

Le porte della cella si spalancarono, un tanfo di sudore e urina, profumo d'uomini disperati, gli violentò le narici e gli addentò lo stomaco. Le inferriate si richiusero in un clangore assurdo e angosciante. Appena dall'altra parte, sorgevano le stelle, si aprivano come fiori notturni, come minuscole puntiformi ferite sulla pelle della notte. La città scivolava nel silenzio e si ricopriva di nero e oro. Il suo vestito più bello.

I reclusi si avvicinavano, le loro ombre gli lambirono i piedi come una marea chiazzata di petrolio. Jacob sentì dentro di sè una grande calma, ma al contempo, una forza così vasta e imperiosa che avrebbe potuto distruggere il mondo e ricostruirlo in un giorno solo, magari incompiuto e imperfetto com'era lui, ma senza sprecare tutto il tempo che ci aveva messo Nostro Signore, e per giunta, senza neppure riposarsi la domenica.

Dov'era la folla delirante, dov'erano gli arruffapopolo da strapazzo, che l'avevano messo in quel casino? Dov'erano? Perchè non sentiva più urlare quei commoventi slogan con le parole della libertà e dell'amore?

Elì, Elì! Lemà sabactàni? (3)

L'avevano abbandonato. Aprì le braccia in croce e rivolse gli occhi al soffitto, come il Nazzareno prima di spirare. In fondo anche lui era stato l'unico a pagare.

Soltanto un ragno abbarbicato alla ragnatela a testa in giù rispose al suo sguardo con il lieto ammiccare dei suoi otto occhi.



(1) Non sono affatto sicuro che si dica così, o non piuttosto, kebabbante, kebabbatore, o kebabbista.

(2) Si tratta di Yogi Berra, allenatore famosissimo per i suoi lapalissiani aforismi.

(3) Dio mio, Dio mio! Perchè mi hai abbandonato? (Vangelo di Matteo, 27, 46).



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sabato 23 aprile 2016

30. Il mariachi


Como el candor de una rosa. Y decirte nina hermosa...

Malaguena Salerosa sfumava lentamente come il sole all’orizzonte. Il signor Antonio andò alla finestra e si affacciò. Il traffico serale procedeva monotono. Sempre la stessa gente sui marciapiedi di quella città annoiata, inutile, fine a sé stessa. Era imperscrutabile, un borgo medievale cresciuto troppo e male, cinto da alte mura. E Antonio si chiedeva spesso se quelle mura fossero state erette per tenere fuori quelli che non dovevano entrare o per impedire a quelli che stavano dentro di uscire.

Non sapeva darsi una risposta, ma propendeva per la seconda ipotesi. E in fondo, era così che si sentiva. Imprigionato in una fortezza inespugnabile, rinchiuso nella torre più alta del castello. Aveva edificato la sua casa, aveva messo su famiglia e costruito la sua vita, ma ora si accorgeva che per tutto il tempo non aveva fatto altro che accumulare pietre, mattoni, marmi ed erigere mura, lapidi e inferriate per costruire una prigione.

La sua.

Mattone dopo mattone, pietra dopo pietra. Mura fatte di banconote, di scartoffie senza valore, di corpi nudi e cadaveri ambulanti, mura che si erano richiuse sopra la sua testa seppellendolo vivo.

La giacca e la cravatta erano la sua tenuta da galeotto. E la ventiquattrore la sua palla al piede. Anzi, al polso. Non avrebbe mai immaginato di finire così, impaludato in una vita piatta e stabile, troppo piatta e troppo stabile.

Invidiava le foglie che cadevano, perché nel momento stesso in cui precipitavano erano libere dall’albero e non ancora prigioniere della terra. Invidiava gli uccelli, liberi di saettare nel cielo, come frecce scagliate contro il sole nudo. Di quella libertà perduta sentiva un assoluto, disperato bisogno, come l'aria per il nuotatore in apnea da troppo tempo, come la luce per un cieco. Era questa la rinuncia più grande dell’alfiere della libertà senza confini, ridotto agli arresti domiciliari delle sue quattro mura per una condanna mai pronunciata, per una colpa mai commessa; in una città che odiava, in una casa che detestava, fra gente che lo disprezzava senza che ne sapesse il motivo. No; quella città e i suoi abitanti, lui proprio non li sopportava.

E non li capiva, né l'una né gli altri.

Si nutriva dell’odio scagliato da quegli sguardi obliqui, da quelle bocche digrignanti, da gesti rigidi e scostanti. La loro arroganza era senza limiti e l'indifferenza ne era la fedele compagna. La loro freddezza era una lama di ghiaccio che gli spaccava il cuore. Non era quello che aveva desiderato, non era questa la sua vita. Era vita B, vita C, forse D, sicuramente quella di qualcun altro. Non si riconosceva più, certo non in quell’essere amorfo e senza peso, alla mercè dei venti, ch’era diventato.

Ripensò a Desperado, il film che amava alla follia, alla scena in cui il mariachi si inginocchia a pregare prima dell’azione finale. Quante volte aveva imitato le sue pose sfrontate, il suo sguardo bello e altero; quante volte l'aveva invidiato perchè poteva stringere fra le braccia la bella Carolina.

Anche ad Antonio viene voglia di pregare, anche se non ha nessuna azione finale da compiere, anche se non ha alcun avversario spietato da sconfiggere e sa bene che azioni e gesti, sempre uguali, si ripeteranno all’infinito nella loro perfetta inutilità, nell’inutilità più grande che è la sua vita.

Si lega i capelli e s'inginocchia. Fa il segno della croce con la destra, ma la sinistra accarezza la canna della pistola.

Dio dammi la forza di tornare quello che ero e perdonami per quello che sono.



(To be continued)

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sabato 9 aprile 2016

Losing my religion


Se fossi rimasto in Capitanata, sarei ancora religioso. Il cattolicesimo era qualcosa di dolce e solare, come la crema di certe paste la domenica mattina all'uscita dalla chiesa, l'allegro ciarlare delle campane, voci di bambini che risuonavano fra i vicoli antichi come sciami di rondini.

Il falco pellegrino lanciava nell'aria il suo secco richiamo, un sottile dito di fumo saliva lento e solenne all'orizzonte, come un filo di lana nera che legava la terra al cielo. Mio figlio raccolse una spiga caduta, che giaceva abbandonata come un tesoro perduto dall'epoca della Festa del grano, e me la regalò.

Fui richiamato imperiosamente al presente. Il filo si sciolse e la terra e il cielo si divisero. L'acqua gorgogliava scura e misteriosa nel canale che costeggiava la Madonna della Vittoria. Era poco più di un canale d'irrigazione e poco meno di un ruscello, ma per me bambino era vasto e grandioso quanto il Mississippi. Forse pesci sconosciuti nuotavano nelle profondità abissali. Non lo seppi mai. La corrente nera rifletteva un volto, bianco come quello di un clown. Non riconobbi quella faccia e quel sorriso falso, che forse nascondeva le lacrime.

Me la ricordo la mia vecchia casa. Dormiva protetta dal giardino dal cancello verde. Il suo sonno era così solenne che nessuno osava interromperlo. Mia madre sciorinava il bucato. I panni sporchi si lavano in famiglia, ma quando sono puliti si stendono al sole ad asciugare. Alla vista di tutti. Dal portone alla strada c'erano diciassette scalini. Iniziavo a contare... uno, e mettevo il naso fuori... due, tutto il corpo all'aria aperta... a tre la luce e i suoni irrompevano tirannici negli occhi e nei timpani... al sedicesimo scalino saltavo direttamente in strada, evitando di pronunciare il numero dell'ultimo, denso di foschi presagi.

Un altro salto e mi ritrovo più avanti negli anni. Leggevo Nostromo (1) con il tè della sera e cominciavo a capire chi ero. Il giornale aperto non poteva nascondere mio padre che sonnecchiava, il fuoco crepitava nel camino, il cane russava ai miei piedi e guaiva nel sonno.

Il viaggio nel passato s'interrompe. S'alza un vento di passi stanchi e capinere e una fisarmonica suona. Note dolenti s'innalzano nell'aria secca e malferma e compongono una melodia dolce e struggente. Da qualche parte in fondo alla vallata, qualcuno non teme il fiume del tempo e si abbandona ai ricordi.

Non aver paura della vita, in un modo o nell'altro siamo tutti condannati all'infelicità. Ma non abbandonarti alla tristezza (2), non permettere che t'impedisca di aprire la finestra ogni mattina e guardare il mondo con occhi nuovi, di stringerlo forte a te in un nodo indissolubile, di amare gli alberi e le rocce perchè soltanto loro sono immutabili e non si piegano al flusso inarrestabile della vita. Ricorda: rifuggi il male e opera il bene.

Così avrebbe parlato il bambino che ero al me stesso futuro, scrutando la cortina degli anni a venire. Rifuggire il male e operare il bene? Che Dio mi aiuti! La vita è zeppa di simboli e metafore. Sta a noi decifrarli. La vita è dolore e paura, la vita è un congegno da ricomporre senza il libretto delle istruzioni. La vita è mistero.

I cipressi dalla chioma quasi nera si ergevano nel blu facendo buona guardia all'enigma.


(1) Titolo originale: Nostromo, A tale of the Seabord, Joseph Conrad (1904).

(2) “La tristezza è il peggiore fra tutti gli spiriti umani. L'uomo triste agisce sempre male.” (Il pastore di Erma).


sabato 2 aprile 2016

Dentro lei


 
Non si accorgeva neppure della mia presenza, ma io vegliavo discreto sul suo sonno, sulla sua vita, come un guardiano riservato e silenzioso, affinchè nulla d'imperfetto potesse soltanto sfiorarla.
Le ciglia d'oro pesavano sulle gote. E il pallore della fronte, il naso perfetto, la curva delle guance che rifletteva morbida la luce e le labbra tumide. Era il volto di una bambina addormentata, che forse sognava cavalli bianchi e palazzi di cristallo, draghi spaventosi e nobili cavalieri.
Il suo sonno era leggero e pesante al tempo stesso, proprio come quello dei bambini. Non osavo svegliarla. Le mie sensazioni non erano affatto diverse da quelle che si provano nella sala d'attesa di un dentista; era soltanto la mia indole noncurante a farmi sentire vigoroso e temerario, come uno di quei cavalieri dei sogni.
Temevo il suo risveglio.
La sua personalità era come scissa in due. C'era lei, ma c'era anche qualcun altro. L'intimità non era mai vera, non si poteva star certi di essere soli. C'era lei, e c'era anche l'altra. In lei vivevano due donne, l'una contro l'altra. Donne che si detestavano. Una era una poetessa e trovava sempre il punto di contatto fra i versi e la follia, ma l'altra era un sadico guerriero che non si placava prima di aver lasciato dietro sé dolore e devastazione.
Soltanto nel sonno trovava pace.
Non ho mai provato angoscia con una donna; con lei, anzi con loro, sì. Era come scendere in un precipizio nel buio più fitto: non sapevo mai cosa mi sarebbe spettato. Eppure, quella povera creatura mi ha amato; a modo suo, mi ha amato.
Mi guardava ma non mi vedeva, cercava se stessa. A volte si rivolgeva a me con un gesto affascinante e protettivo simile a un abbraccio, anche se non lo era. Ma subito dopo arrivava l'altra, col suo sguardo carico d'odio e un'ingiuria sfoderata come una spada pronta a colpire.
Forse, non è importante chi si ama a questo mondo, ma qualcuno bisogna pur amare.
Non desiderava cose impossibili, ma pretendeva una vita normale. Voleva soltanto svegliarsi la mattina con il gatto accoccolato sul letto, un vaso di fiori alla finestra e piangere da sola se ne aveva voglia.
Mi sarei accontentato di essere quel gatto, pur sapendo che mi sarei dovuto sobbarcare ore e ore di solitudine, o quel fiore nel vaso, essendo certo che avrei patito la sete, o quella finestra, che non si sarebbe mai spalancata sul mondo.
Un giorno, ho aperto la porta. Mi ero illuso di addomesticare la lupa famelica che dimorava in lei, ma ho rischiato di esserne sbranato. No, non avrebbe funzionato. Nel migliore dei casi, mi avrebbe divorato, nel peggiore, sarebbe rimasta chiusa in gabbia per sempre. In un modo o nell'altro, ci avremmo rimesso entrambi. Dovevo lasciarla andare, lo dovevo alla sua libertà morale, lo dovevo alla mia integrità fisica, alla mia sanità mentale. Così, ho tenuto la porta aperta, allo stesso modo in cui l'avevo fatta entrare, tanto tempo fa.
Io sono rimasto sulla soglia. Mi sono accontentato di vederla fuggire nella foresta nera e spaventosa, dal mio lembo privato e provvisorio di civiltà. Il suo ultimo ululato, acuminato e terrificante, era dedicato a me. L'acuto di un virtuoso. Mi è penetrato in fondo all'anima come la punta di un coltello. E da allora non ho smesso di sanguinare.
Il cielo è verde, oleoso. Un freddo sapore amaro nell'aria. E freddezza anche sui volti e nei gesti, un freddo che taglia il cuore. Nella vita c'è qualcosa d'indefinito, che aleggia triste nell'etere e nelle coscienze. Ma ora è qui, nel mio petto e fa parte di me, allo stesso modo in cui mi appartiene l'aria che respiro, prima che la restituisca, impura e contaminata, agli altri.
Passarono altri giorni, verdi e oleosi.
Dalla finestra aperta mi sembrava che il buio mi osservasse, mi scrutasse, mi spiasse. Poi penetrò all'improvviso nella stanza e in me. Era la foresta, nera e impenetrabile. Da qualche parte, lei mi chiamava.
E ricordai quei giorni sospesi fra lucidità e follia, giorni in cui eravamo più silenziosi dell'acqua, strisciavamo più bassi dell'erba. E gli odori di quel lontano ottobre, l'aria cristallina e pungente, i brividi di freddo sulla pelle. Tremavo pensando ai suoi occhi, del colore delle foglie morte e ardevo per quel suo corpo latteo, nudo e pieno alla scialba luce del mattino, quando riemergeva dai vividi sogni dell'alba.
Ero a un passo dal raggiungerla, scavalcare il davanzale e gettarmi a capofitto nelle tenebre, fra le sue zampe. E nelle sue fauci.
Dentro lei.
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