sabato 30 gennaio 2016

Saper sapere




Quando sento la parola ‘cultura’ tolgo la sicura alla mia Browning” disse Hanns Johst, drammaturgo nazista.
E io proprio di questo voglio parlare, della cultura. Di sapere cioè quello che non serve a niente.
E' utile?
O non è piuttosto uno spreco di energie?
Parrebbe di si, secondo l'Ecclesiaste.
Ed ho applicato il cuore a cercare e investigare tutto ciò che si fa sotto il cielo. Ed ecco, tutto è vanità e un correr dietro al vento. Ciò che è storto non può esser raddrizzato, ciò che manca non può essere contato. Poichè dov'è molta sapienza v'è molto affanno e chi accresce la sua scienza, accresce il suo dolore (Vanità della sapienza)
Ma davvero sapere è inutile, accresce soltanto la vanità e la superbia?
Allora, mi chiedo: è ancora utile passare gli anni della giovinezza, gli anni migliori, sui libri? O è soltanto una perdita di tempo, uno spreco di risorse e di energie?
Sentite cosa ne pensa Eric Schmidt, a.d. di Google: “Se tutto ciò a cui tenete sono i soldi, andate all’università. Se tutto ciò a cui tenete è la cultura e la creatività, andate all’università. Se tutto ciò a cui tenete è divertirvi, andate all’università”.
Se, invece, dopo essere andati all’università volete lavorare, andate all’estero, dico io.
Per andare all’università, tuttavia, è necessario qualcosa che diamo per scontato e che in realtà è molto difficile da praticare: imparare a imparare: apprendere e padroneggiare il metodo di combinare insieme le informazioni più disparate e utilizzarle al volo. Studiare insegna che non c’è mai una sola verità, ma che la verità stessa è molteplice e multiforme, ci fa capire che non c’è mai un solo punto di vista, ma ce ne sono molti, forse infiniti, e, soprattutto, che ci dev’essere sempre un’altra possibilità.
Imparare a imparare, significa essere curiosi, non fermarsi alla superficie delle cose, ma andare a fondo. Sapere ci dà l’opportunità di stare in un gruppo e condurlo se è necessario, ma anche lasciarsi condurre da qualcun altro, se ha intuito un’altra possibilità, migliore della nostra.
Ho sempre sostenuto che gli studi universitari non portano vera cultura, ma solo sapere tecnico, scientifico e specializzazione. La vera cultura è altro: è il piacere di scoprire e conoscere le cose più disparate, di appassionarsi a determinati fatti o argomenti, anche se non servono assolutamente a niente o non possono essere messi in pratica, oppure utilizzati nella vita di tutti i giorni. Così, una persona con la quinta elementare può essere più acculturata di una persona con la laurea in fisica nucleare, semplicemente perché ha più curiosità nei confronti della vita, del mondo, della storia e del pensiero e la soddisfa attraverso i libri, le manifestazioni e le rappresentazioni artistiche e in ogni altro forma possibile.
Allo stesso modo, ho sempre creduto che il fatto di aver frequentato l’università ed essersi presi una laurea non sia una garanzia per la persona che l’ha conseguita, sotto tutti i punti di vista, soggettivo, caratteriale, ma soprattutto etico e morale. Anzi, ritenevo e ritengo che la laurea sia un catalizzatore di personalità, nel senso che se un individuo ha delle buone qualità di base, come ad esempio, il senso di giustizia e di equità, la lealtà, la capacità di mediazione e la saggezza, la laurea non farà altro che aumentarle queste qualità. Se invece, è uno stronzo, egoista, opportunista, intollerante, la laurea conseguita non lo aiuterà certo a migliorare, ma non farà che aumentare tali caratteristiche, rendendolo ancora più stronzo, ancora più egoista, ancora più intollerante…
Ho scoperto soltanto da poco che i miei pensieri non erano originali ma erano già stati elaborati quasi cento anni prima da Gaetano Salvemini, il grande meridionalista e socialista, allievo a sua volta di un altro grande meridionalista e socialista, Pasquale Villari.
Ne La sinistra e la questione meridionale ritiene infatti che la cultura sia il “superfluo indispensabile, l’insieme di tutte quelle conoscenze che non servono a nulla, ma di cui non è lecito fare a meno”.
Ecco la capacità di sintesi che mi manca, sentite come scorre senza intoppi questa frase. E' superba ed essenziale, non si può aggiungere altro! Ma Salvemini, evidentemente non ancora soddisfatto, vi aggiunge una citazione – non sono riuscito a scoprire di chi -, secondo la quale, la cultura non è altro “ciò che resta in noi dopo che abbiamo dimenticato tutto quello che avevamo imparato”; quello che rimane, cioè, quando la mente si sgombra di tutte le svariate nozioni, informazioni ed elementi che abbiamo appreso e continuamente apprendiamo nel corso della vita e resta soltanto il solco che hanno impresso nel nostro animo quelle idee, quelle nozioni, resta soltanto la scia che hanno lasciato nelle nostre intelligenze. Ma ci basta incamminarci lungo quel solco, ci basta seguirla quella scia, e torneremo alle idee e alle conoscenze a loro collegate, oppure ad altre, del tutto nuove.
Da tutto questo deriva, secondo Salvemini, il fatto che un contadino che sappia appena leggere e scrivere, possa diventare un uomo di cultura, perché possiede gli strumenti per addentrarsi nel sapere, mentre un laureato rischia seriamente di essere un esimio ignorante, se, pur disponendo degli strumenti per indagare il sapere, si è fermato al tecnicismo scientifico – specialistico che gli ha apportato il suo titolo di studio, senza andare mai oltre.
In verità, dal primo all’ultimo respiro, non smettiamo mai d’imparare.
E rifuggiamo l’ignoranza, perchè nasce da un equivoco di fondo.
L’illusione di sapere.

Preghiera di Natale




“La diciamo una preghiera prima di mangiare?”

“Anche no.”

Sui presenti si leva un silenzio imbarazzato e un velo di esitazione offusca i loro volti.

“Naturalmente rispetto il vostro credo, qualunque esso sia. Quindi, se volete declamare qualche rima... “

“Rima? Preghiere sono, non poesie!” fa qualcuno ben informato.

“Va bene, vada per la preghiera. Ma una poesia non ci stava affatto male, come antipasto dell'antipasto” insisto pensando, chissà perchè, ai Fiori del male, ma è inutile, nessuno mi bada più, si sono tutti lanciati in un accorato Paternostro e si tengono per mano. E che strano, qualcuno tiene la mia sinistra, e qualcun altro la mia destra.

E mi ritrovo incatenato a un cerchio che non oso spezzare.



(Pranzo di Natale 2015, da qualche parte nella nebbia, in un casolare della Pianura Padana)



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sabato 23 gennaio 2016

I falsi miti del Risorgimento




Proviamo a sfatare i falsi miti del Risorgimento, quelli che ci hanno propinato a scuola avvelenando la Storia.



Mito n. 1 “Il Regno delle due Sicilie era una sorta di terra del demonio.

Il Regno delle due Sicilie era florido e potente, con i conti in regola e in avanzo di bilancio. Possedeva i due terzi dell'oro di tutti gli altri stati preunitari, 445,2 milioni di lire, contro i soli 27 milioni del Regno di Sardegna. Tant'è vero che le casse meridionali furono utilizzate per pagare il debito pubblico contratto dai piemontesi per finanziare le loro guerre. Forse questa fu la vera ragione dell'Unità d'Italia.

Quando Francesco II, l'ultimo sovrano meridionale, partì da Gaeta, lasciò tutto il suo patrimonio personale a Napoli e integre le casse dello Stato; quando i Savoia furono cacciati dall'Italia in seguito al referendum per l'abolizione della monarchia, partirono per la Svizzera insieme a diciotto treni colmi di denaro e preziosi. La differenza fra le due casate reali non è, purtroppo, soltanto questione di stile.

Le industrie meridionali occupavano 1.600.000 operai, nel resto d'Italia ve n'erano, in tutto, poco più di un milione; non c'era alcun divario in termini di prodotto interno lordo fra Nord e Sud (Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004) di Vittorio Daniele e Paolo Malanima, il primo ricercatore dell'Università della Calabria di Arcavacata, bellissimo nome di origine greca).

Le flotte mercantili collegavano Napoli con l'America e si spinsero fino in Australia, l'Armata di mare era la prima flotta del Mediterraneo dopo quella inglese, gli Stati Uniti commissionavano navi da guerra ai cantieri navali di Castellammare di Stabia, non vi erano napoletani emigrati in altri Regni, ma il Regno di Napoli era pieno di immigranti dalla Toscana.

All'Esposizione universale di Parigi del 1856, il Regno delle due Sicilie risultò il terzo paese industrializzato al mondo! Al primo posto c'era la Gran Bretagna e al secondo, la Francia.

Soltanto nel 1921 il Mezzogiorno diventò un'area in ritardo di sviluppo, dopo sessanta lunghi anni di sfruttamento (tassazione elevatissima e nessuna spesa pubblica per il Sud).

La questione meridionale prima dell'Unità d'Italia non esisteva, l'ha creata il Nord.



Mito n. 2 “I Borbone erano dei reazionari.

Non è assolutamente vero. Anzi, essi erano pienamente consapevoli di dover evitare la contrapposizione fra le due Nazioni del Regno, quella borghese e quella popolare, ma anche tra quella Napoletana e quella Siciliana (L'arma della memoria, Paolo Mieli). La monarchia sabauda, quella si era “codina e rivoluzionaria”.



Mito n. 3 “I liberali meridionali erano uniti nella fratellanza con quelli settentrionali.

Ma quando mai! Spesso si scontrarono aspramente. Più in generale, l'idea di Italia come nazione era sconosciuta ai più, era soltanto un'utopia, un sogno assurdo e irraggiungibile che agitava le notti insonni di chiassosi e collerici patrioti settentrionali.

E secondo me, l'Unità non era affatto ineluttabile. Fu più un caso fortuito che una reale intenzione.

Secondo molti storiografi, soprattutto stranieri (Dennis Mac Smith e Martin Clark), che sono i più oggettivi e quindi attendibili, il Mezzogiorno d'Italia avrebbe avuto migliori chances se fosse rimasto uno Stato indipendente.



Mito n. 4 “L'idea di Patria era a quei tempi già forte e radicato.

Niente affatto. Pare che, all'opposto, il concetto di Italia venne costruito dopo averla fatta. “Fatta l'Italia, ora bisogna fare gli Italiani”, si disse.

Ma una parte degli Italiani non sapeva cosa fosse l'Italia, “Mio padre era borbonico perchè non credeva, non immaginava davvero l'unità” (Francesco Saverio Nitti, Nord e Sud), l'Italia era come un pianeta sconosciuto in una galassia lontana, mentre un'altra parte non ne voleva sapere, tanto che ci vollero oltre dieci anni di dura occupazione militare per convincerli (100.000 soldati piemontesi e più morti di tutte le battaglie per l'Unità d'Italia messe insieme). “A Italiani (meridionali) che, rimanendo Italiani, non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibusate.” disse con rara onestà intellettuale Massimo d'Azeglio. Questi anni sono passati alla storia come Repressione del Brigantaggio, ma in realtà la loro storia è ancora tutta da scrivere, anche se è difficile. Gli atti relativi alla lotta contro i briganti sono ancora coperti dal segreto di stato e non sono accessibili agli studiosi. Cosa bisogna nascondere dopo oltre 150 anni?



Mito n. 5 “I politici moderati del Nord furono moderati nei confronti del Sud.

Mai accaduto.

I beduini a confronto di questi caffoni (sono) fior di civiltà”, scriveva Luigi Carlo Farini e Marco Minghetti gli faceva eco: “Credo che un po' di metodo soldatesco sia medicina salutare a codesto popolo.

E se questi erano i moderati, non oso immaginare cosa potessero essere gli estremisti. Si salvarono, forse, soltanto i moderati meridionali, che si affrettarono a respingere l'idea che il Sud arretrato fosse da considerarsi territorio di conquista del Nord progredito e a negare che il suo Popolo fosse come un bambino da educare con le cattive.

Moderati che non seppero riconoscere compatrioti nei volti di vecchi, donne e bambini, torturati, violentati e a volte bruciati vivi nei massacri di Montefalcione, Pontelandolfo e Casalduni.



Mito n. 6 “La mafia era preesistente all'Unità d'Italia.

Come dicevo nello sfatare il Mito n. 2, era in atto uno scontro, tutto interno al Regno delle due Sicilie, fra le due Nazioni che lo componevano, un grande conflitto fra Napoli e la Sicilia, quest'ultima autonomista, insofferente e determinata a liberarsi dal giogo napolitano. Non è affatto un caso se la spedizione dei Mille ebbe inizio proprio dall'isola.

Le camicie rosse furono agevolate da una protomafia data per esistente già nel 1834 sotto forma di “unioni o fratellanze, capitanate da possidenti o arcipreti(!)” (Pietro Calà Ulloa, magistrato del Regno delle Due Sicilie, potrebbe essere considerato il primo magistrato antimafia della storia), veri e propri piccoli governi che gestivano i rapporti civili e la giustizia, sostituendosi all'autorità del Re. Ma fu proprio durante l'epopea garibaldina che la mafia assunse quel controllo totale del territorio, che avrebbe mantenuto anche nell'Italia post-unitaria.

Per terminare il discorso sull'astio dei Siciliani verso il Regno delle due Sicilie, aggiungo la notizia riportata da Salvatore Lupo in L'unificazione italiana, secondo cui Giuseppe Beoti, una camicia rossa garibaldina, riferì che alcuni preti e frati promettevano un posto in Paradiso per chiunque avesse combattuto contro i Borboni per la Sicilia. Predicatori di una jihad tutta meridionale?



E per finire - e qui viene da piangere – l'Unità d'Italia fu proclamata nel parlamento di Torino il 17 marzo 1861 in francese, la lingua ufficiale dell'ex Regno Sardo.


martedì 19 gennaio 2016

Quo Vado? Non lo so




Non so quanto c'entri con il cinema. Fa ridere la sinistra che dopo anni di snobismo sale sul carro del vincitore eleggendolo a sociologo d'Italia, quando è solo un grande comico” e un gran furbacchione, aggiungo io, “che è riuscito a prendere il pubblico dei cinepanettoni e quelli che non li andavano a vedere.” Queste sono le parole di Sergio Castellitto, attore di origini molisane, a proposito di Quo Vado, l'ultimo successo di Checco Zalone (Che Cozzalone, in barese), al secolo, Luca Pasquale Medici. “Non penso che il suo successo farà bene al cinema italiano”, conclude.

Ebbene, ha ragione al cento per cento. Quo Vado è il film italiano più visto di sempre, campione di incassi, ha sbancato il botteghino. Ma, La grande bellezza, Nirvana, Mediterraneo, Amarcord, Sciuscià, Ladri di biciclette, Un borghese piccolo, piccolo, Il postino (scusatemi, la lista potrebbe essere molto lunga, ma accidenti sto parlando di Federico Fellini, Gabriele Salvatores, Massimo Troisi, Vittorio De Sica, Paolo Sorrentino), che non hanno avuto incassi stratosferici, ma sono, a differenza di Quo Vado, opere d'arte?

Perchè questo è il cinema. Arte. La settima arte, quella arrivata per ultima, ma che non ha nulla da invidiare alle sue sei sorelle più anziane, anzi, forse ne è il compendio, con la pittura (fotografia e scenografia), il teatro (recitazione), la musica (colonna sonora), la letteratura (sceneggiatura). Arte e non business.

Ha ragione Castellitto, Quo Vado farà molto male al cinema italiano, perchè produttori e registi saranno costretti a inseguirlo, sempre più in basso, pur di fare incasso, verso il baratro del cinema nostrano, diseducando, con prodotti da blockbuster, il naso dei cinefili (se ne esistono ancora) e anestetizzando il loro senso critico.

Spiace dirlo, ma ormai il livello culturale italiano è inversamente proporzionale agli incassi di Quo Vado.


domenica 17 gennaio 2016

Il cattolicesimo ha fatto il suo tempo




Nel Seicento la Chiesa ordinò a Girolamo Borro, uno scienziato dell'epoca che studiava i moti delle stelle applicando le teorie di Copernico, di inserire un paradiso cristiano nel firmamento. Egli rispose che oltre la sfera celeste non v'era nulla di nulla, tranne un piatto di lasagne per l'Inquisizione, sotto la quale sapeva che sarebbe caduto. Non si sbagliava. La sua ironia non fu accolta con sportività dalle alte sfere ecclesiastiche e fu immediatamente imprigionato.

Non criticare mai i preti e i monaci in pubblico, dai l'impressione di essere religioso, devoto e zelante, perchè gli ipocriti hanno sempre successo”. Questi erano i consigli per fare carriera a quell'epoca nei palazzi della Chiesa, secondo Giovanni Ciampoli, che era stato il segretario particolare di Urbano VIII, prima di cadere in disgrazia.

E, restando in tema di ricerca scientifica e progresso, nel cui campo la Chiesa mostrò il lato peggiore di sé – e probabilmente lo fa anche oggi -, non dimentichiamo le persecuzioni alle quali fu assoggettato Galileo Galilei, la cui unica colpa fu di aver confutato la teoria della centralità della terra, dimostrando l'eliocentricità del sistema solare. Abiure, anatemi e minacce si sprecarono e Galileo fu quasi dimenticato, sepolto dalla polvere e dalle ragnatele dell'ingiustizia. Soltanto nel 1964, quando di lì a cinque anni l'uomo avrebbe messo piede sulla Luna, e nel 1979, ben dieci anni dopo che ciò era avvenuto, Galileo fu riabilitato, a opera di Paolo VI nel primo caso e di Giovanni Paolo II, più tardi.

Ma andiamo avanti, il Seicento, come Dio volle, ebbe fine ed entrammo nel Settecento, l'era dei Lumi. Ma di lumi la Chiesa ne spense più di quanti ne accese nelle celebrazioni liturgiche. La Santa sede combattè con asprezza la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Orbene, la Dichiarazione, che elencò per la prima volta i diritti universali, inviolabili e insopprimibili degli uomini, segnò, a mio avviso, il vero passaggio dal Medioevo all'Età moderna. Eppure, ritenere gli uomini tutti uguali e liberi costituisce un atto contrario non solo alla ragione ma anche alla dottrina cattolica, disse Pio VI nel 1791, condannando senz'appello la Dichiarazione con il Quid aliquantum. Quanti si resero conto che così facendo stava implicitamente giustificando la schiavitù, la sopraffazione del proprio simile, la disuguaglianza e l'assolutismo? Forse non se ne rese conto lui stesso. Probabilmente non si era neppure accorto di essere entrato nell'Età moderna e che il mondo stava cambiando.

E che dire di Pio IX, il Papa “riformatore, liberale e democratico”? Neppure lui si diede pena di svecchiare la Chiesa e tendere l'orecchio alle grida di dolore che giungevano da più parti da centinaia di popoli oppressi. Anzi, sostenne l'incompatibilità del cattolicesimo con una civiltà moderna, condannando la libertà di religione (di quelle diverse dal cattolicesimo), la libertà di stampa e di manifestazione del pensiero e l'uguaglianza giuridica di tutti i cittadini indipendentemente dal culto professato. E questo accadeva nel 1861, il giorno dopo la proclamazione dell'Unità d'Italia!

Nel 1885 Leone XIII con l'enciclica Immortale dei condannò l'idea di lasciare la religione, qualunque religione, alla sfera esclusivamente privata del singolo individuo, rendendo cioè ciascuno libero di seguire la propria religione, o anche nessuna, se questo fosse il suo desiderio.

Ma passiamo al Novecento. La seconda guerra mondiale è appena terminata e ha lasciato milioni di morti, feriti e distruzioni, un mondo ferito, ma desideroso di risollevarsi. Siamo nel 1948 e all'Assemblea dell'ONU è in discussione la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. In quell'occasione, il delegato del Brasile presentò una mozione con la quale chiedeva l'inserimento nel testo della Dichiarazione del principio secondo il quale i diritti dell'uomo vengono da Dio che glieli ha donati; come dire, il cadavere della teoria dello jus naturale di secentesca memoria veniva riesumato con il suo tanfo insopportabile di assolutismo, in contrapposizione al diritto comune elaborato dagli uomini per gli uomini. Per fortuna, e ripeto, per fortuna, la mozione fu respinta. Ma per ripicca, Pio XII espresse un giudizio molto negativo sull'intera Dichiarazione.

Neppure nel 1988, in occasione del quarantennale della Dichiarazione universale, la Chiesa espresse una posizione netta a favore dei diritti umani. Giovanni Paolo II, pur riconoscendo che la Carta era una pietra miliare posta sulla strada del genere umano, riteneva, tuttavia, che corrispondesse soltanto in parte a quanto la Chiesa richiedeva come indispensabile assetto del consorzio civile. Neppure allora un papa tollerante, aperto e modernista, come io lo considero, osò infrangere il dogma, oramai ridotto a tabù, a svolazzante foglia di fico della supremazia del diritto naturale su quello artificiale, prodotto dall'uomo. E quindi di una Chiesa unica depositaria del diritto d'ingerenza sulle terrene questioni, unico giudice competente a decidere ciò che è bene e ciò che è male per l'uomo.

Da quanti secoli di oscurantismo veniamo e non sono ancora bastati!

E' ora di riconoscere che papa Pio IX non si era sbagliato e aveva perfettamente ragione: il cattolicesimo è incompatibile con una civiltà moderna. Dunque, non esitiamo a sbarazzarcene.

E ora, scomunicatemi pure.


Il signor Augusto Nigro




La nebbia, ombra della vita, ombra della morte, poroso confine di tutte le cose conosciute e sincere, gli pesava sulle spalle come un pesante mantello. Sopra lo strato di bambagia, il sole solcava l’azzurro di un mattino imperfetto. Il signor Augusto Nigro andava per la sua strada.

E’ un uomo alto e incredibilmente magro, leggermente curvo, ha perennemente un’aria afflitta e compassata. Il suo volto è pallido e scavato, gli occhi neri sono piccoli e infossati, le sue pupille sono come l’acqua scura che ti fissa dal fondo di un pozzo. Anche oggi non fa eccezione; anzi, la sua negra figura s’intona singolarmente col paesaggio tetro, grigiastro, autunnale che lo circonda. Indossa un paltò di foggia antiquata, nero come la notte più nera, pantaloni larghi e comodi, scarpe testa di moro le cui punte il tempo ha curvato all’insù e una cravatta color della pece. Una figura inquietante, scura, che si stagliava nel grigiore delle brume mattutine. Ma, a modo suo, il signor Augusto Nigro era elegante.

Elegante come la morte.

Già, perché il signor Augusto sulla morte fa affari, sulla morte ci campa, e anche bene. E’ un impresario delle pompe funebri.

Augusto Nigro, come dicevamo, andava per la sua strada. La sua rara inquietudine notturna svaniva nell’aria pesante e fosca e lampi di luce grigiastra solcavano il suo volto mal rasato, scacciando le paure che tornavano ad affacciarsi alla finestra della sua vita.

Egli non ha paura della morte; come dicevamo, la morte è la sua compagna di viaggio, la sua socia in affari, la auspica come si auspica un lauto guadagno. No, egli non teme affatto la morte. Il signor Augusto Nigro teme la vita.

Teme la vita con tutte le sue imprevedibili complicazioni, la morte al confronto è così semplice. Cos’è mai la morte, il vuoto, il buio, il nulla? Come si può temere nulla? Se ti chiedono di cosa hai paura, cosa rispondi: ho paura di niente?

Le complicazioni del signor Augusto Nigro hanno una forma ben definita e un nome certo. L’inquietudine del signor Augusto ha forme morbide e tondeggianti e risponde al nome di Adelia Novotis.

E già. Augusto si è perdutamente innamorato della signora Adelia. Ma non ha ancora trovato il coraggio di dichiararsi, perché la signora in questione è felicemente sposata con il borgomastro. Però le ha scritto una serie infinita di bellissime lettere d’amore. Peccato che abbiano fatto tutte la stessa identica fine. Ora dormono beate in un cestino della spazzatura. Ma andiamo a recuperarne una, l’ultima che ha scritto, o ha cestinato, in ordine di tempo.

… Io non esisto. Sono una specie di fantasma nella notte. Almeno tu sai ridere. Io mi sono scordato come si fa. C’è una crepa in ogni cosa. E’ da lì che entra la luce. Adelia, io avevo soltanto una crepa, una miseranda scalfittura sulle pieghe dell’essere, ma tu l’hai trovata la mia crepa e la stai allargando con il tuo sorriso, con la tua voce, con la tua luce. Non posso più fare a meno di te. Non oso continuare la mia vita senza te…

Accidenti! Questo si chiama scrivere. Il signor Nigro è un poeta. E chi l’avrebbe mai detto? Allora Augusto, dai, trova la forza, trova il coraggio di dichiararti, tu che non temi di vivere fra i morti, tu che patteggi con la morte la certezza di un buon profitto. Riprendi la lettera, spiega quei poveri fogli accartocciati e falli avere alla signora Novotis. Vedrai come cadrà ai tuoi piedi.

Augusto si vestì di tutto punto, indossò il paltò, il cappello, i guanti neri e prese il bastone, come quando doveva contrattare un funerale importante e si avviò verso la casa del borgomastro. Non distava che due isolati dalla sua casa – laboratorio tassidermico, eppure quel breve tragitto gli parve disagevole e faticoso quanto attraversare l’oceano. Mille dubbi s’insinuarono nella sua mente. La lettera, nella tasca interna della giacca di foggia antica, gli pesava sul cuore.

Ma finalmente, ecco il portone di casa Novotis. Con mano tremante Augusto suonò il campanello. Chi avrebbe aperto? Il borgomastro, Adelia, oppure uno dei suoi tanti figli? La porta si socchiuse. Il convesso profilo di un corpo femminile si fece strada nella penombra. Augusto sussultò.

“Buongiorno signor Nigro. Cosa desidera?” La donna di servizio lo accolse con gentilezza nel vestibolo.

“Buongiorno. Volevo conferire con la signora Adelia, se possibile.”

Fu fatto accomodare nel tinello. La stanza era in perfetto ordine. Da qualche parte veniva odore di zuppa di porri e patate. Si udì un frusciare di vesti e un ticchettio di calzature femminili. Poi la porta si aprì e comparve la signora Novotis.

Augusto scattò in piedi. Invano cercò parole adatte nella sua testa, quelle che aveva provato e riprovato davanti allo specchio s’incagliavano nella sua bocca senza saliva. Allora si prostrò in un inchino e, senza osare guardarla negli occhi, le porse la lettera.

La signora Novotis la prese e nel prenderla gli sfiorò le dita. Augusto rabbrividì di un piacere segreto, indietreggiando di qualche passo. Adelia inforcò gli occhiali e lesse.

E cadde ai suoi piedi.

Ma non come avrebbe desiderato lui.

“E’ stato un colpo apoplettico” sentenziò il dottore. “Non è raro che accada in soggetti del tutto sani e vigorosi come la povera signora Adelia.”

E già che c’era, il borgomastro commissionò al signor Augusto le esequie della moglie.

La notte sopraggiunse improvvisa, tetra, sepolcrale.

E altrettanto improvviso, tetro e sepolcrale, sopraggiunse il giorno.

Le campane suonarono a morto. Celebravano lo sposalizio di una povera donna con la terra. Il signor Augusto trasalì. Nonostante centinaia di funerali alle sue spalle, era come se fosse la prima volta che le udiva. Quei rintocchi, mesti e desolati, s’incuneavano nel suo cuore, affondavano nelle oscurità della sua anima, pungolavano la fonte delle lacrime. La lettera ad Adelia era ritornata nella tasca interna della sua giacca di foggia antica e gli pesava tristemente sul cuore.

Augusto tornò a casa, scaldò l’acqua e si preparò il tè; la miscela sobria e vigorosa della Polvere da sparo (1) gli graffiò la gola ed egli ne fu rinfrancato. Poi si diresse al laboratorio e chiuse la porta. Ne riemerse soltanto nel cuore della notte, stanco e affamato, ma soddisfatto. Aveva fatto un ottimo lavoro.

Era stato indaffarato per tutto il pomeriggio e buona parte della notte. Aveva lavorato sulla signora Novotis. Non si era risparmiato. Aveva dato fondo a tutta la sua esperienza, a tutte le conoscenze arcane che, dalla notte dei tempi, attraversando l’antico Egitto, si tramandavano di padre in figlio, di generazione in generazione, per ridare la vita ai morti. L’aveva riportata allo stato di albedo, alla purezza primordiale, alla verginità. Alla giovinezza. Le donne hanno l’obbligo morale di farsi belle, anche le meno belle, anche da morte.

Neppure da viva la signora Adelia era stata più bella.

Ed eccola lì Adelia, gli occhi grandi, contornati di bistro, una cascata di capelli neri sul volto di alabastro, l’oro dei monili, il blu dei lapislazzuli. Una piccola Hatshepsut (2). E il signor Augusto Nigro si sentì più ricco e potente di un faraone.

Aveva tentato in tutti i modi di donarle il suo amore, di rompere il muro che la separava da lei, di aprire una breccia per far entrare la luce. Non ci era riuscito e la signora Adelia era morta prima di poter conoscere la sua risposta.

Ma la morte era giunta ancora, questa volta in suo aiuto.

Qualche ora prima delle esequie era deceduta una vecchia megera senza parenti e, in un lampo di genio, quello che ci colpisce soltanto nelle ore più disperate, Augusto aveva rinchiuso il suo corpo disfatto dal tempo e dalle fatiche nella cassa destinata ad Adelia. Nessuno avrebbe mai scoperto il macabro scambio.

Augusto sollevò Adelia e la strinse a sé. I suoi capelli gli solleticavano il naso adunco. Useret-kau nekeret-kau (3). Ma la divina apparizione era priva di forza vitale. Il natron (4) si congelava nelle sue vene al posto del sangue. I seni erano duri e puntuti come piccole piramidi. Il cadavere della signora Novotis gli scivolava dalle braccia ossute e non voleva saperne di ricambiare il suo affetto.

La sua dimora non era fra le braccia di Augusto, la sua dimora era fra le stelle, come Orione nel ventre della notte.

Augusto si affacciò alla finestra. Sirio sorgeva nel grande respiro del cielo.

Passarono gli anni. Molta gente nacque e molta gente morì nel villaggio. Gli affari di Augusto andavano a gonfie vele, come sempre. Il borgomastro perse le elezioni e un altro cittadino prese il suo posto. L’erba cresceva sulla tomba di Adelia.

Augusto tornò dal suo solito funerale del pomeriggio. Mise sul fuoco la teiera e attese che l'acqua bollisse. Versò il tè in due tazze, prese un vassoio ed entrò nel salone. Il fuoco del camino inondava di bagliori rossastri i vecchi arredi e si rifletteva sul cristallo della credenza.

Si accomodò sul divano davanti al fuoco e sorrise forse per la prima volta in vita sua. Le finestre erano oscurate da tendaggi pesanti come drappi funebri. Nessuno avrebbe potuto guardare all’interno della sua casa. Ma se per un caso fortuito e davvero originale, un raro colpo di vento in una vallata in cui l’aria era sempre calma avesse scostato per un attimo le tende e permesso alla luce della luna di penetrare, si sarebbe visto il signor Augusto Nigro e la signora Adelia Novotis conversare amabilmente davanti al caminetto al tepore delle fiamme.



  1. Gunpowder, in inglese. Miscela di tè cinese particolarmente forte, dal sapore intenso e pungente.
  2. E’ stata il quinto faraone della XVIII dinastia, la prima e l’ultima donna nella storia dell’antico Egitto a detenere il titolo reale.
  3. In antico egizio, colma della forza, divina nell’apparizione. Il termine ka stava a indicare la forza vitale, era la parte dell’anima preposta a conservare i ricordi e i sentimenti della vita terrena. Il ka era destinato a riunirsi al corpo dopo la morte, a differenza del ba, che avrebbe trovato dimora fra le stelle.
  4. Carbonato decaidrato di sodio, usato nelle pratiche d’imbalsamazione.

NdA La frase “C’è una crepa in ogni cosa. E’ da lì che entra la luce.” nella lettera del signor Nigro è in realtà da attribuirsi a Leonard Cohen.



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domenica 10 gennaio 2016

Pregiudizi anti-italiani nella letteratura americana


 


 

Riporto alcune significative frasi che si trovano in Soffocare (titolo originale, Choke) romanzo di Chuck Palahniuk.

Che è italiana non lo diresti, a prima vista. Non puzza d’aglio, e non ha quintali di peli sotto le ascelle” (Cap. 12)

 

E Denny mi fa: <<In italiano?>>

<<Già>> gli faccio io. <<Hai presente, no? Mafia, spaghetti…>>” (Cap. 21)

 

E’ francamente impossibile che tutti gli italiani con cui ho parlato siano pazzi” (cap. 36)

 

Non voglio criticare queste frasi, dipingendole di razzismo, ma commentare e valutare l’opera nel suo complesso, si. E si tratta di un lavoro urticante, politicamente scorretto, ben fatto, che rappresenta una società americana fondata sulle dipendenze (più dipendenze hai, dice a un certo punto il protagonista, più hai potere), o meglio, sulla sessodipendenza e fa balenare il dubbio che noi maschietti siamo diventati meri accessori, dei quali le donne potrebbero fare anche a meno.

Ma la letteratura, compresa quella di Palahniuk (di cui ricordiamo mirabili esempi come Fight Club, Cavie, Gang Bang e Senza veli) è espressione della società e in generale, il pregiudizio anti-italiano nella società americana è abbastanza diffuso. E da sempre.

Chi di voi non ha mai sentito il termine dago? O wop? Sono correntemente usati per designare gli italiani. Dago sembra che derivi da they go, se ne vanno (sottinteso, finalmente). Ma anche da until the day goes (fin che il giorno se ne va, vale a dire perdigiorno) e non mancano i più perfidi che sostengono che sia un adattamento del termine dagger, coltello e quindi accoltellatore. Wop era invece l’acronimo di without passport (senza passaporto, quindi immigrato clandestino), che però si pronuncia uapp e suona proprio come guappo in napoletano. Per capire l’entità del fenomeno, aggiungo che in circa un secolo in America arrivarono almeno quattro milioni di italiani senza passaporto, immigrati clandestini.

Una delle freddure più famose era la seguente.

Domanda: Perché ai funerali degli italiani sono soltanto in due a portare la bara?

Risposta: Perché i bidoni della spazzatura hanno soltanto due maniglie!

Perfino nel cinema a stelle e strisce, per lungo tempo il ruolo dominante degli italiani era quella del cattivo. Un detto ricorrente recitava: Hollywood ha fatto fortuna su due figure, l’indiano che urla e l’italiano che spara. Un sondaggio dell’Italic Studies Institute di New York rivelò che il 73% dei film girati dal 1928 in poi davano degli italiani un’immagine negativa e che gli italiani erano rappresentati per il 40% come criminali e per il 33% come rozzi, stupidi e buffoni. E tutto questo senza pensare a bravissimi attori di origine italiana, come Rodolfo Valentino, Frank Sinatra e oggi, Al Pacino, Anne Bancroft, Leonardo Di Caprio, Nicolas Cage, Mira Sorvino, Gary Sinise e Robert De Niro (quest’ultimo ha origini molisane, lo rimarco con orgoglio!).

Io credo di sapere perché ciò accade.

Noi abbiamo avuto Giulio Cesare, Marco Aurelio, Sant’Agostino, Leonardo da Vinci, San Francesco, Michelangelo, Caravaggio, Cristoforo Colombo, Amedeo Modigliani e loro no.

La verità è che siamo sensibili, di buon gusto, raffinati, affascinanti, eleganti e intelligenti e, anche se non siamo efficienti e competitivi, sappiamo vivere.

La verità è che c’invidiano.

Quest’invidia, a volte, si trasformò in vera e propria ammirazione, nel campo della letteratura e del pensiero. Vi fu un’intensa e reciproca stima fra Benjamin Franklin e Gaetano Filangieri, illuminista napoletano; Herman Melville ammirava Leopardi e Edgar Allan Poe Alessandro Manzoni (Manzoni? Come avrà fatto?). Infine, la Divina Commedia fu tradotta nientemeno che da Longfellow.
Ma forse occorre guardare l’America con occhi diversi, come ci ha insegnato a fare John  Steinbeck (fondamentale, a questo proposito, è Grapes of wrath, da noi tradotto con il titolo di Furore, assolutamente da leggere). Forse vedremo un paese senza morale, sempre in vendita come una troia, così cantava Eugenio Finardi, ma anche una terra popolata da gente bislacca e geniale, originale, progressista e ancorata alle peggiori tradizioni al tempo stesso.

mercoledì 6 gennaio 2016

Vademecum per la rinascita


 

Un riepilogo di tutto quanto ho studiato e digerito finora (e non è stato semplice) sulla reincarnazione, secondo le filosofie e le religioni orientali. E’ soltanto il punto di arrivo momentaneo, e per questa ragione, rozzo e approssimativo, del cammino spirituale di un occidentale materialista e anarchico come me:

1)      Siamo entità di puro spirito, filamenti, frammenti di essenza divina. Schegge di luce che si perdono nella notte, diceva Celine. Da sempre esistiamo e per sempre esisteremo. Tutto il resto è apparenza. “Tutte le cose sono vuote apparizioni, non sono nate, non sono distrutte, non sono macchiate, non sono pure. Non ci sono occhi né orecchi, naso, lingua, corpo, mente. Non ci sono forma né suono, odore, gusto, tatto, oggetti, né c'è un regno del vedere. Non vi è conoscenza, né ignoranza, né fine della conoscenza, né fine dell'ignoranza, e così via fino ad arrivare a né vecchiaia né morte, né estinzione di vecchiaia e morte; non c'è sofferenza, karma, estinzione, via; non c'è saggezza né realizzazione.” (Sutra del cuore).

2)      Siamo tuttavia obbligati a vivere molte vite, per apprendere e migliorarci fino a non dover mai più tornare su questa fredda terra.

3)      Attenzione però, tornare a vivere non è un premio, ma una condanna. Siamo costretti a tornare, gioire (poco) e soffrire (molto) ancora e ancora e ancora.

4)      Il ciclo continuo delle vite si chiama samsara, la liberazione dal ciclo di vita – morte – rinascita si chiama nirvana (vedi punto 16).

5)      Fra una vita e l’altra, secondo il Libro tibetano dei morti, non c’è una rinascita immediata, ma un tempo intermedio, una condizione che può durare anche centinaia d’anni, che si chiama bar-do (in antico sanscrito, isola in mezzo). Questa parentesi serve a meditare e riflettere sulla vita appena trascorsa, correggere gli errori e apprezzare le virtù, e sulle ceneri di quella, progettarne una nuova.

6)      La nuova vita non necessariamente è migliore della precedente. A volte per migliorarci siamo chiamati ad apprendere la sofferenza, siamo costretti a vite di stenti e di dolore. Ma niente paura, polvere siamo e polvere torneremo, non siamo perpetui, ma a tempo determinato. E’ l’impermanenza, nulla è permanente, niente dura per sempre. Niente.

7)      Vi sono vari livelli di esistenza, da quelli più bassi (minerale, vegetale, animale), a quelli più elevati (umano), fino a quello degli esseri (bodhisattva) a un passo del nirvana, che non debbono più sottostare al ciclo di nascita – morte - rinascita. E’ la ruota del divenire (phava chakra). Tutto gira, tutto scorre e si torna a nascere.

8)      L’anima (chiamiamola così per il momento) è come un buon vino, ha bisogno di migliaia di anni e di molte vite per affinarsi e accedere a un livello superiore di esistenza.

9)      Questo mondo è come una grande scuola, in cui apprendiamo e spesso, sbagliamo. Se abbiamo imparato la lezione, vivremo la prossima vita in maniera migliore o addirittura a un livello superiore, come essere promossi da una classe all’altra o accedere a istituti di istruzione superiore. Se, invece, non abbiamo appreso la lezione, verremo rimandati indietro a ripetere lo stesso livello o peggio ancora, verremo degradati a livelli più bassi di esistenza. In poche parole, verremo bocciati e costretti a ripetere l’anno.

10)   Ciò spiega perché nel mondo ci sono guerre, carestie, distruzione, odio, accanto a bontà, saggezza, altruismo, coraggio. E questo, dopo tanti anni, mi ha messo il cuore in pace. A me infatti non tornavano i conti quando m’interrogavo sulla profonda ingiustizia del mondo. Quando chiedevo: perché Dio tollera tutte queste nefandezze? Perché continuiamo a fregarci in mille modi, a odiarci, a farci amichevolmente saltare in aria l’un l’altro, senza che Lui alzi un dito? Mi è sempre stato risposto che Dio non s’intromette perché ci ha dato la libertà di decidere secondo coscienza. Ci ha donato il libero arbitrio. Si ma, replicavo io insistendo e molto, se è vero che siamo figli di Dio, un padre non interviene un attimo prima che i figli si facciano male sul serio? E poi, se Lui ci ha fatti a Sua immagine e somiglianza, o mi state raccontando una balla, e quindi non gli somigliamo affatto, oppure mi state dicendo la verità e quindi somigliamo a un Dio che devo cominciare a temere? A questa domanda, però, non ho ancora avuto risposta.

11)   I religiosi orientali considerano vivere la vita umana una promozione di per sé e ci consigliano di essere sempre felici per questo.

12)   Se c’incontriamo in questa vita, è perché non facciamo altro da millenni, magari scambiandoci i ruoli. Posso essere stato il padre di mio padre o il figlio di mio figlio in una vita precedente. Qualunque sia il ruolo, prima o poi ci ritroveremo. Perché possiamo decidere di vivere congiunti attraverso le vite e i secoli. L’immagine che mi viene in mente è quella di persone che si buttano insieme da un aeroplano col paracadute, un lancio collettivo per atterrare nella vita. Skydivers dell’infinito.

13)   Non ci sono giudici e tribunali per condannarci o assolverci dai peccati commessi in vita. Siamo noi i giudici di noi stessi, siamo soltanto noi a valutare e soppesare errori, nefandezze e buone azioni nel tempo di vita intermedia (bar-do) e, sta sempre noi a decidere di rinascere.

14)   Ciò che condiziona la rinascita è quella che io riconosco come una sorta di giustizia immanente, il karma. Ogni nostra più insignificante azione ha riflesso in tutto l’universo, e dopo averla compiuta, niente sarà più lo stesso, come quando si getta un sasso in uno stagno e da quel punto si allargano onde concentriche a perturbare la superficie dell’acqua.

15)   Nella condizione di bar-do il tempo non esiste. Ma di questo avevo già parlato nel mio post Del tempo e di altri miraggi. Il tempo non esiste, diceva Agostino d’Ippona (alias Sant’Agostino), è solo una dimensione dell’anima. Aggiungerò soltanto che, secondo molti filosofi e teologi, il tempo è un’illusione dettata dalla limitatezza del pensiero umano che è strutturato in forma lineare e sequenziale: dietro c’è il passato, ora il presente e davanti il futuro, e si progredisce in linea retta dal passato al presente e dal presente al futuro. L’acqua che tocchi de’ fiumi è l’ultima di quella che andò e la prima di quella che venne, è la geniale spiegazione di Leonardo da Vinci per farci comprendere il flusso del tempo. Ma se il tempo non esiste, se il tempo è soltanto un’illusione, vuol dire che fuori da questo mondo di artifici e raggiri tutto accade contemporaneamente in un eterno presente, non c’è prima, non c’è dopo, tutto accade qui e ora.

16)   Chi si eleva e progredisce nelle esistenze che mena, non è più costretto a rinascere e può raggiungere il nirvana, uno stato di grazia eterno, riunendosi alla sostanza divina di cui è composto. “…la mente non conosce ostacoli; dal momento che la mente non conosce ostacoli non si conosce la paura, si è oltre il pensiero illusorio, e si raggiunge il Nirvana” (Sutra del cuore). Anche gli ebrei antichi avevano qualcosa del genere e lo chiamavano pardish, paradiso.

17)   La punizione è, come a scuola, essere bocciati e dover ripetere l’anno. Un vero inferno, in realtà non esiste. A patto di non considerare un inferno le nostre vite.

18)   Vi sono stati degli esseri talmente saggi, giusti e puri da non essere mai nati, mai morti e mai vissuti, e dunque non hanno dovuto subire il supplizio della ruota (del divenire) e hanno avuto accesso diretto al nirvana. Essi sono stati, come dire, promossi sulla fiducia.

19)   La trasmigrazione delle anime è stata accettata da popoli molto diversi in epoche differenti. Anche nel Cattolicesimo la reincarnazione è stata ammessa per un certo tempo. Nel primo Concilio di Nicea del 325 dopo Cristo, ma soprattutto, nel secondo Concilio di Costantinopoli, tenutosi nel 553, si formò la dottrina ufficiale della Chiesa (1), che ha escluso categoricamente la reincarnazione e ammesso soltanto due vite: la vita terrena prima e quella eterna dopo. Ma Origene di Alessandria sosteneva che "Ogni anima...viene in questo mondo rafforzata dalle vittorie o indebolita dalle sconfitte della sua vita passata." E Sant’Agostino (2) scriveva: "Prima di quella vita, o Dio della mia gioia, io esistevo già in qualche altro luogo o altro corpo". Aggiungo Plotino: "L'attore che muore sulla scena cambia maschera e riappare in un'altra parte, non è morto davvero. Morire è cambiare corpo come gli attori cambiano maschera".
Avete capito tutto? Io sì. In altre parole, se vogliamo rinascere dobbiamo fare i cattivi. Io ho già cominciato.

Buona (ri)vita!

 

(1)   Sarebbe il caso di ricordare che con Costantino il cattolicesimo assurse al rango di religione di stato dell’impero romano, soppiantando il paganesimo. Il Concilio di Costantinopoli gettò le basi di una religione politica, come forma di controllo sociale ed, evidentemente, non si poteva più tollerare tra i fedeli l’idea della rinascita. Ci sarebbe stata quindi una sola vita da giocarsi per guadagnare l’inferno o il paradiso. E per far rigar dritta la gente non c’era minaccia peggiore o premio migliore di questi.

(2)   Confessioni, Agostino d’Ippona, scritto intorno al 400 dopo Cristo. L’opera, tra l’altro, è considerata uno dei massimi capolavori della letteratura cristiana.