Entra ed esce a piacimento dai suoi
personaggi, come un demone dai corpi posseduti. Fa quello che vuole lui, quando
vuole lui. E’ spiazzante.
Sto parlando del romanzo scritto dal più
grande scrittore vivente d’Italia, Raffaele
La Capria. E’ Ferito a morte, premio Strega 1961. Da allora molta strada è
stata percorsa e tanta acqua è passata sotto i ponti, ma quel romanzo, che ha
rappresentato la deflorazione di generazioni di lettori per un nuovo modo di
scrivere e intendere la letteratura, l’avanguardia della neoavanguardia, è
ancora vivido e florido, e non appassito e malaticcio come tanti altri che il
tempo ha ammuffito.
Lo approccio con un senso estremo di
rispetto e timore reverenziale. E subito m’inchino. Sentite questo:
“Un
sorriso umiliato che copre il desiderio di morire... Ogni colpo è una pietra
che cade nel lago azzurro del mattino... A pensare ai miei passi domani, nel
rispettabile squallore di strade sconosciute.”
E quest’altro?
“…quell’unico
occhio avido e scomposto, enorme, che è tutti i loro occhi…”, che mi
riporta al globo oculare sfaccettato, composito, da insetto, simbolo del
buonismo benpensante e della calunnia noncurante che avevo dissezionato nel mio
romanzo La città verticale, nel quale non si può più distinguere
l’occhio buono, quello individuale, che lo compone, da quello collettivo e
ipocrita della società, l’occhio malvagio quanto quello di Sauron nella trilogia di Tolkien.
Se avessi letto prima Ferito a morte,
come avrei costruito più dritta e solida la mia Città! Touchè.
In poche righe si può dire tutto e
questa è materia di scrittore coi controattributi. Lo dicevo o no che
è il più grande scrittore italiano vivente?
E bravo don Raffaè!
Il tempo incerto di Ferito a morte è il tempo
sospeso di una città di mare, che veleggia sulla bellezza, una stagione in cui
è sempre estate in una città che è sempre Napoli; i protagonisti non vogliono crescere,
non vogliono diventare grandi, non desiderano impersonare il futuro, ma consumarsi
sullo sfondo di quel meraviglioso teatro che è la città e il suo golfo, e
infine estinguersi in un presente che somiglia molto all’eternità.
E l’eternità è molto lunga, soprattutto
verso la fine, come dice Woody Allen.
Ma qualcuno prende una decisione,
finalmente: “Gli dirò che parto, che vado
a Milano, non sembra ancora una cosa reale – lontano da tutta questa perdita di
tempo”. E allora si parte, ma per tornare, per dar vita a una serie
infinita di eterni ritorni, altrettanto impossibili delle partenze, come
omerici nostòi. Perché anche chi recide il cordone ombelicale, non si
separa mai dalla Grande Madre Partenope,
e “…accettando l’impossibilità della
mente razionale di uscire dal labirinto meridionale… sei costretto a inventare
le Sabbie mobili la Foresta vergine
e altri miti che aiutano a capire senza vincere…”. Anche chi si sottopone
al sacrificio più crudele della partenza non può vincere, può soltanto capire.
Perché di questo si tratta, di una sconfitta, ma compresa fino in fondo.
In alcuni tratti risuonano, anticipati, gli
echi de La grande bellezza, che di questo si tratta. Bellezza stupidamente
sprecata, buttata via a piene mani. In altre parole, la Grande Occasione Mancata. Quanta bellezza sciupata; se essa è
armonia ed equilibrio, a Napoli non si riesce assolutamente a trovarlo, né
l’una né l’altro; la città oscilla paurosamente fra le vestigia nobili del
passato e la follia che può esplodere da un momento all’altro dal continente
napoletano, in un anelito all’autodistruzione elevato a sistema, un piacere
squisitamente meridionale. “Tutto questo
ben di Dio e nessuno ci bada, sprecato. Mi dà la malinconia lo spreco” fa
dire La Capria a uno dei suoi
personaggi. Una bellezza che cade a pezzi, come quel Palazzo Medina eroso dal mare, ideale sfondo di decadenza e triste
ombra (alias) di quel Palazzo Dogn’Anna (1), la cui fondazione è
giustamente annoverata fra le Leggende napoletane da una giovane Matilde Serao.
Allora, neanche fuggire da Napoli “una
città che ti ferisce a morte o
t’addormenta” è la soluzione. Eppure non puoi farne a meno. E’ una città
che t’invischia nel suo destino, come una compagnia molesta, che non si
scandalizza di nulla e per nulla al mondo, indulgente e comprensiva, “l’enorme straripante indulgenza della Grande Madre Napoli”. La città che suscita
sentimenti contrapposti: o l’ami o la odi, o tutt’e due le cose insieme.
E oltre a non possedere il tempo, Napoli
non possiede neppure la Storia,
anzi, è una “città che sembra esistere
fuori dalla storia, fuori dal mondo, immersa in un tempo proprio”, come se
si fosse persa in un rivolo morto del Grande
Fiume della Storia. E i suoi orologi segnassero le ore sincronizzati su
altri Greenwich. Perennemente appuntati sull’ora di una bella jurnata, luminosa,
sublime, perfezione nel cerchio del mattino. “Da una bella giornata non c’è da aspettarsi più niente” sostiene De
Luca – La Capria voltandosi dall’altra parte e rimettendosi a dormire. Perché
se una Bella Giornata è una
promessa, per entrambi non ve ne sono più, e dormire fino a tardi è un modo per
accorciare le ore che ci separano dalla notte, anche quelle di una bella
jurnata. Io da bambino temevo le belle giornate perché erano quelle in
cui poteva accadere di tutto, potevi incontrare la vita, sbatterci contro,
ferirti e in quel periodo avevo paura degli scontri e cercavo di sfuggirle. Così
amavo le brutte giornate, quelle cariche di elettricità e di pioggia, una
tregua nelle battaglie che la vita mi preparava con i raggi del sole di una Bella Giornata.
Ferito a morte è soltanto il secondo romanzo di Raffaele La Capria, il primo era uscito nel ’51, ben nove anni
prima e il successivo in pieni anni ’70, addirittura dodici anni dopo, tanto da
farlo lamentare di non essere affatto uno scrittore ‘sgobbone’.
Quest’affermazione mi riporta dritta dritta ai monologhi di Gep Gambardella, la cui vena narrativa
era stata interamente prosciugata dalla Grande
Bellezza. Per inciso, Toni Servillo,
che ha magistralmente impersonato in quel film il ruolo di scrittore sciupone,
si è avventurato più volte nelle letture pubbliche delle opere di La Capria, con ciò dimostrando la
musicalità, la teatralità della sua scrittura.
Anch’io ho voglia di partire. E di
tornare. E lasciatemi dirlo con le sue parole, che a sua volta le aveva prese
da un altro scrittore, in un singolare incontro a tre fuori dal tempo (Dahlberg – La Capria – Medici): se a
vent’anni mi percepivo come un estraneo, estraneo a me stesso e a trenta mi
chiedevo chi fossi, a quaranta mi convinsi che non l’avrei saputo mai. E la
rinuncia a sapersi, a conoscersi, a indagare l’io più profondo, sconosciuto
come il più oscuro degli abissi marini, è l’unico approdo possibile. L’unica
scoperta.
Ma quante donne, tutte descritte a
puntino, emergono dal brusio, dal chiacchiericcio ammirato di sottofondo senza
lasciar nulla all’immaginazione, come se ognuna di esse (e lo è) fosse un dono
irripetibile e prezioso. E ognuna di esse è, per qualcuno la Grande Occasione Mancata, ma per
qualcun altro la Grande Occasione
Realizzata. E Carla, la donna vanamente amata da quello che io credo il
protagonista del romanzo, Massimo De Luca (ma in Ferito a morte, nel quale
anche i più miseri plebei assurgono ad eroi, i termini protagonista e
comprimario sono soltanto questione di maggiore sensibilità o di diversa prospettiva),
è esattamente una di queste occasioni perdute e la sua chioma, biondo cimiero,
va e viene tra la folla, inafferrabile come la spigola che Massimo insegue sui
fondali, reale e inesplicabile, come Camilla Lopez in un romanzo di John Fante (2).
Ora che so che le dramatis personae sono
proiettate in un tempo un poco più lontano rispetto a ‘quando’ le collocavo io –
sbagliando, nei dorati sixties, l’italica Età dell’Oro -, essi sono invece i
sopravvissuti a una guerra: “…nello
scatolone di sabbia cacammo sangue più volte e nella neve più volte lo sputammo”
e si contemplano le membra integre ancora increduli di averla scampata al sole degli
acerbi Anni Cinquanta, sento quei
personaggi più dentro la storia e meno a me rivali. Mi fanno quasi tenerezza.
Ma lasciatemi chiudere con le battute
finali di Ferito a morte, una ferita che non potrà mai cicatrizzarsi,
perché questa è Napoli. Una ferita.
“E
là, in fondo alla strada, qualcosa-che-passa-e-sembra,
bionda coda di cavallo oscillante, ha svoltato l’angolo. Cerco lei, cerco Ninì…
e mi pare sempre di camminare dietro qualcuno di cui sento ancora, vicini, i
passi sopra queste pietre.”
(1) Il palazzo fu edificato a Posillipo dal vicerè di
Napoli Ramiro Guzman, duca di Medina, per sua moglie donna Anna Carafa, donde il nome Palazzo Donn’Anna, in Leggende napoletane, Matilde Serao 1880.
(2) Chiedi alla polvere, John Fante.
N.d.A. L’immagine del post è Il
Pesce d’oro, Paul Klee 1925.
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