domenica 3 gennaio 2016

Ferito a morte


 

Entra ed esce a piacimento dai suoi personaggi, come un demone dai corpi posseduti. Fa quello che vuole lui, quando vuole lui. E’ spiazzante.

Sto parlando del romanzo scritto dal più grande scrittore vivente d’Italia, Raffaele La Capria. E’ Ferito a morte, premio Strega 1961. Da allora molta strada è stata percorsa e tanta acqua è passata sotto i ponti, ma quel romanzo, che ha rappresentato la deflorazione di generazioni di lettori per un nuovo modo di scrivere e intendere la letteratura, l’avanguardia della neoavanguardia, è ancora vivido e florido, e non appassito e malaticcio come tanti altri che il tempo ha ammuffito.

Lo approccio con un senso estremo di rispetto e timore reverenziale. E subito m’inchino. Sentite questo:

Un sorriso umiliato che copre il desiderio di morire... Ogni colpo è una pietra che cade nel lago azzurro del mattino... A pensare ai miei passi domani, nel rispettabile squallore di strade sconosciute.

E quest’altro?

…quell’unico occhio avido e scomposto, enorme, che è tutti i loro occhi…”, che mi riporta al globo oculare sfaccettato, composito, da insetto, simbolo del buonismo benpensante e della calunnia noncurante che avevo dissezionato nel mio romanzo La città verticale, nel quale non si può più distinguere l’occhio buono, quello individuale, che lo compone, da quello collettivo e ipocrita della società, l’occhio malvagio quanto quello di Sauron nella trilogia di Tolkien. Se avessi letto prima Ferito a morte, come avrei costruito più dritta e solida la mia Città! Touchè.

In poche righe si può dire tutto e questa è materia di scrittore coi controattributi. Lo dicevo o no che è il più grande scrittore italiano vivente?

E bravo don Raffaè!

Il tempo incerto di Ferito a morte è il tempo sospeso di una città di mare, che veleggia sulla bellezza, una stagione in cui è sempre estate in una città che è sempre Napoli; i protagonisti non vogliono crescere, non vogliono diventare grandi, non desiderano impersonare il futuro, ma consumarsi sullo sfondo di quel meraviglioso teatro che è la città e il suo golfo, e infine estinguersi in un presente che somiglia molto all’eternità.

E l’eternità è molto lunga, soprattutto verso la fine, come dice Woody Allen.

Ma qualcuno prende una decisione, finalmente: “Gli dirò che parto, che vado a Milano, non sembra ancora una cosa reale – lontano da tutta questa perdita di tempo”. E allora si parte, ma per tornare, per dar vita a una serie infinita di eterni ritorni, altrettanto impossibili delle partenze, come omerici nostòi. Perché anche chi recide il cordone ombelicale, non si separa mai dalla Grande Madre Partenope, e “…accettando l’impossibilità della mente razionale di uscire dal labirinto meridionale… sei costretto a inventare le Sabbie mobili la Foresta vergine e altri miti che aiutano a capire senza vincere…”. Anche chi si sottopone al sacrificio più crudele della partenza non può vincere, può soltanto capire. Perché di questo si tratta, di una sconfitta, ma compresa fino in fondo.

In alcuni tratti risuonano, anticipati, gli echi de La grande bellezza, che di questo si tratta. Bellezza stupidamente sprecata, buttata via a piene mani. In altre parole, la Grande Occasione Mancata. Quanta bellezza sciupata; se essa è armonia ed equilibrio, a Napoli non si riesce assolutamente a trovarlo, né l’una né l’altro; la città oscilla paurosamente fra le vestigia nobili del passato e la follia che può esplodere da un momento all’altro dal continente napoletano, in un anelito all’autodistruzione elevato a sistema, un piacere squisitamente meridionale. “Tutto questo ben di Dio e nessuno ci bada, sprecato. Mi dà la malinconia lo spreco” fa dire La Capria a uno dei suoi personaggi. Una bellezza che cade a pezzi, come quel Palazzo Medina eroso dal mare, ideale sfondo di decadenza e triste ombra (alias) di quel Palazzo Dogn’Anna (1), la cui fondazione è giustamente annoverata fra le Leggende napoletane da una giovane Matilde Serao.

Allora, neanche fuggire da Napoli “una città che ti ferisce a morte o t’addormenta” è la soluzione. Eppure non puoi farne a meno. E’ una città che t’invischia nel suo destino, come una compagnia molesta, che non si scandalizza di nulla e per nulla al mondo, indulgente e comprensiva, “l’enorme straripante indulgenza della Grande Madre Napoli”. La città che suscita sentimenti contrapposti: o l’ami o la odi, o tutt’e due le cose insieme.

E oltre a non possedere il tempo, Napoli non possiede neppure la Storia, anzi, è una “città che sembra esistere fuori dalla storia, fuori dal mondo, immersa in un tempo proprio”, come se si fosse persa in un rivolo morto del Grande Fiume della Storia. E i suoi orologi segnassero le ore sincronizzati su altri Greenwich. Perennemente appuntati sull’ora di una bella jurnata, luminosa, sublime, perfezione nel cerchio del mattino. “Da una bella giornata non c’è da aspettarsi più niente” sostiene De Luca – La Capria voltandosi dall’altra parte e rimettendosi a dormire. Perché se una Bella Giornata è una promessa, per entrambi non ve ne sono più, e dormire fino a tardi è un modo per accorciare le ore che ci separano dalla notte, anche quelle di una bella jurnata. Io da bambino temevo le belle giornate perché erano quelle in cui poteva accadere di tutto, potevi incontrare la vita, sbatterci contro, ferirti e in quel periodo avevo paura degli scontri e cercavo di sfuggirle. Così amavo le brutte giornate, quelle cariche di elettricità e di pioggia, una tregua nelle battaglie che la vita mi preparava con i raggi del sole di una Bella Giornata.

Ferito a morte è soltanto il secondo romanzo di Raffaele La Capria, il primo era uscito nel ’51, ben nove anni prima e il successivo in pieni anni ’70, addirittura dodici anni dopo, tanto da farlo lamentare di non essere affatto uno scrittore ‘sgobbone’. Quest’affermazione mi riporta dritta dritta ai monologhi di Gep Gambardella, la cui vena narrativa era stata interamente prosciugata dalla Grande Bellezza. Per inciso, Toni Servillo, che ha magistralmente impersonato in quel film il ruolo di scrittore sciupone, si è avventurato più volte nelle letture pubbliche delle opere di La Capria, con ciò dimostrando la musicalità, la teatralità della sua scrittura.

Anch’io ho voglia di partire. E di tornare. E lasciatemi dirlo con le sue parole, che a sua volta le aveva prese da un altro scrittore, in un singolare incontro a tre fuori dal tempo (Dahlberg – La Capria – Medici): se a vent’anni mi percepivo come un estraneo, estraneo a me stesso e a trenta mi chiedevo chi fossi, a quaranta mi convinsi che non l’avrei saputo mai. E la rinuncia a sapersi, a conoscersi, a indagare l’io più profondo, sconosciuto come il più oscuro degli abissi marini, è l’unico approdo possibile. L’unica scoperta.

Ma quante donne, tutte descritte a puntino, emergono dal brusio, dal chiacchiericcio ammirato di sottofondo senza lasciar nulla all’immaginazione, come se ognuna di esse (e lo è) fosse un dono irripetibile e prezioso. E ognuna di esse è, per qualcuno la Grande Occasione Mancata, ma per qualcun altro la Grande Occasione Realizzata. E Carla, la donna vanamente amata da quello che io credo il protagonista del romanzo, Massimo De Luca (ma in Ferito a morte, nel quale anche i più miseri plebei assurgono ad eroi, i termini protagonista e comprimario sono soltanto questione di maggiore sensibilità o di diversa prospettiva), è esattamente una di queste occasioni perdute e la sua chioma, biondo cimiero, va e viene tra la folla, inafferrabile come la spigola che Massimo insegue sui fondali, reale e inesplicabile, come Camilla Lopez in un romanzo di John Fante (2).

Ora che so che le dramatis personae sono proiettate in un tempo un poco più lontano rispetto a ‘quando’ le collocavo io – sbagliando, nei dorati sixties, l’italica Età dell’Oro -, essi sono invece i sopravvissuti a una guerra: “…nello scatolone di sabbia cacammo sangue più volte e nella neve più volte lo sputammo” e si contemplano le membra integre ancora increduli di averla scampata al sole degli acerbi Anni Cinquanta, sento quei personaggi più dentro la storia e meno a me rivali. Mi fanno quasi tenerezza.

Ma lasciatemi chiudere con le battute finali di Ferito a morte, una ferita che non potrà mai cicatrizzarsi, perché questa è Napoli. Una ferita.

E là, in fondo alla strada, qualcosa-che-passa-e-sembra, bionda coda di cavallo oscillante, ha svoltato l’angolo. Cerco lei, cerco Ninì… e mi pare sempre di camminare dietro qualcuno di cui sento ancora, vicini, i passi sopra queste pietre.

 

(1)   Il palazzo fu edificato a Posillipo dal vicerè di Napoli Ramiro Guzman, duca di Medina, per sua moglie donna Anna Carafa, donde il nome Palazzo Donn’Anna, in Leggende napoletane, Matilde Serao 1880.

(2)   Chiedi alla polvere, John Fante.

N.d.A. L’immagine del post è Il Pesce d’oro, Paul Klee 1925.

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