mercoledì 29 luglio 2015

Il Mambo e le folaghe


 

            Il sole affonda sotto terra, ormai è sera, odo il suo lieve fruscio tra le fronde degli alberi, una gradevole brezza si è levata e scivola giù dai colli a rinfrescare la pianura. Sono di nuovo qui, davanti a un foglio di carta, nemmeno un segno impressovi da me, anzi, uno ce n’è, ma è stato uno sbaglio, un errore, un movimento maldestro ha disegnato uno sbaffo di matita sulla carta.

            Eppure, c’è qualcosa che non va, come un boccone che non va giù, come un groppo alla gola. Un’atmosfera greve incombe sul mondo, come se volesse piovere, un senso di attesa; nel cielo balenano presagi anomali e inquietanti.

Se solo potessi… se solo potessi… Se solo potessi cosa? Non so neppure io cosa vorrei.

Per scrivere non è necessaria l’ispirazione. Per scrivere basta averne voglia, diceva qualcuno che ora mi è ignoto. C’è qualcosa da qualche parte dentro di me, o forse là fuori, nella notte che incombe, nell’aria fresca che preannuncia le stelle. C’è qualcosa che mi impone di restare. E attendere.

Non è ancora giunto il momento di scrivere, so che verrà, ne sono certo, ma non è ancora il tempo.

Ahimè, l’arte non è palese, tutt’altro. Essa è nascosta, oscura, a volte indecifrabile e, soprattutto, non è popolare, non è per tutti. Devo strizzarla fuori dal profondo di me, trasudarla dai tessuti dell’anima, secernerla dalle fibre del cuore.

Ripenso a dov’ero stamattina e la matita comincia a scorrere sul foglio, come un esperimento di psicoscrittura.

Non si muove un filo d’aria, il mare è immobile, forse il tempo si è fermato. Cielo e mare si confondono all’orizzonte e tutte le cose sfumano in un bianco abbacinante, l’acqua assume sembianze oleose e cangianti, un fluido gelatinoso di un mondo alieno, e si richiude dopo il mio passaggio. A che distanza sono dalla costa? Stimo mezzo miglio. Già i pennelli di pietra a protezione della sabbia sono svaniti nella foschia, le voci della spiaggia non si odono più – soltanto il latrare di un cane poco fa, ora, neppure quello - ora emerge soltanto il verde della pineta, ma è un verde smorto e alternante che mi pare soltanto un’eco di un ricordo e non sono sicuro di vederlo davvero.

La terra è svanita.

Per molte miglia sono solo, mi sento davvero solo, non faccio più parte del mondo degli uomini – quelli li ho lasciato sulla spiaggia addormentata prendendo il largo -, non faccio ancora parte di questo mondo marino, opaco, lattescente. Forse, non ne farò mai parte. Così mi accontento di aleggiare in un limbo fra cielo e mare, nel silenzio rotto dal lieve sciabordio dell’acqua che scivola sotto la carena. Batto il pugno sulla fiancata e ne viene un tonfo cupo e solido. Il Mambo sa il fatto suo. Che sensazione rassicurante! Sono sospeso sull’abisso, separato soltanto da mezzo metro di scafo, ma continuo a volare sulla superficie delle acque.

Sento che di questo avevo bisogno, sono sicuro che era quello che volevo, mare e silenzio e il cielo a vegliare sul mio scafo vacillante. Ne sono certo quando mi stendo a riposare un po’ sul fondo della coperta. Di là, dall’altra parte, nessuno può capire quello che provo, da questa parte, le folaghe e i gabbiani in volo sulle acque immobili, i pesci immersi negli abissi, il mistero delle acque senza fine, di questo verde fosforescente e infinito. Non avevo mai visto un mare così – e mi fermo perché non trovo le parole -. Forse…

Non voglio tornare alla terra, voglio restare qui.

Ma è tempo di tornare. Mi avvicino a riva, lentamente, di malavoglia. Gusto ogni secondo di quel tempo che mi lega ancora alle acque.

Ricompare il verde scuro dei pini, essi descrivono il profilo della costa e una lingua sabbiosa si protende accogliente verso di me. Sento di nuovo le voci, mentre mi preparo all’ingresso nel mondo degli uomini, al mio ritorno.

…vociare di bagnanti nel pomeriggio sonnolento.

…il latrare sicuro di un cane.

…lento incedere di anziane coppie, la donna parla al vecchio, il suo interloquire serrato non gli consente di replicare. Chissà quanto è importante quello che gli sta dicendo?

Mi preparo all’approdo, decido di non spiaggiare per non far soffrire la chiglia, quindi scelgo il punto e mi calo dal kayak. Ma, non avevo considerato l’alta marea e mi ritrovo immerso fino al collo. Allora, con una mano tengo la cima del kayak e me lo tiro dietro, con l’altra tengo la pagaia sollevata sopra la mia testa. Mi vengono in mente sequenze da D-Day o attraversamenti di paludi in stile guerra del Vietnam.

Riemergo bagnato fradicio e, che piacevole sorpresa! E’ una spiaggia di nudisti e io sono l’unico vestito da capo a piedi e, bagnato fradicio come sono, devo sembrare più strano io a loro, di quanto uomini, donne e bambini che vogliono prendere il sole nudi come mamma li ha fatti, possano apparire strani a me. In verità, nessuno prova il benchè minimo imbarazzo, me compreso.

La spiaggia è popolata di corpi nudi, alcune signore ancora piacenti chiacchierano incuranti della loro nudità, seni ancor sodi svettano come catene montuose sulle pianure sabbiose. Mi guardano, ma non si danno troppa cura di me, osservano, più che altro, il mio goffo armeggiare intorno al kayak. Infine, si apre un varco fra le nudità e mi lasciano passare fra le scure ombre della pineta.  

Sono, come al solito, un intruso, non sono mai nel posto giusto, mai al mio posto. Se almeno sapessi qual è!

 

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Ecco, ho riempito due fogli fitti fitti quasi senza accorgermene. La prima uscita col kayak nuovo, il Mambo, è andata molto bene. Per la cronaca, sono partito dalla foce dell’Adige, ho risalito la costa e sono arrivato fino alla laguna di Porto Caleri. L’acqua era molto fredda, il vento quasi assente e le onde rade. E’ meno stabile dell’altro, ma non mi sono mai rovesciato, come temevo, s’inclina deciso in virata, ma la ripresa è veloce e la sua chiglia pronunciata tiene bene il mare. E’ un po’ pesantuccio – fa quasi trenta chili -, a tirarselo dietro per la spiaggia è dura, ma ne vale la pena.