domenica 17 dicembre 2017

Vlad Tepès, l'Impalatore



1. I mostri nel romanzo dell'Ottocento
Perchè Jekyll e Hyde (1), Frankenstein e Dracula sono nati nell'Ottocento? Quali pulsioni del subconscio li hanno generati? Quali realtà fenomenica rappresentano?
Icone inquietanti del progresso scientifico ottocentesco, nate dall'esigenza di esorcizzare il senso della complessità di un contesto culturale in mutamento e della sua percezione, scrive Michela Mancini (2). Ma la funzione sociale svolta nel XIX secolo dal racconto di mostri (I delitti della rue Morgue di Edgar Allan Poe, Frankenstein; o, il moderno Prometeo di Mary Shelley), doppi (Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde di Robert Louis Stevenson, Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde), metamorfosi e folli finirà per essere assunta dalla scoperta freudiana dell'inconscio, della psicosi e della sessualità nel Novecento.
Oggi chiudiamo la trilogia con l'ultimo grande romanzo gotico, il Dracula di Abraham Stoker, detto Bram. E, per quanto mi riguarda, possiamo iscriverlo a buon diritto fra i classici, intendo cioè annoverarlo a quella congerie di scrittori senza tempo, contemporanei del futuro, secondo la felice intuizione di Guido Conti, che hanno sempre qualcosa da dire a ogni generazione, che, non avendo esaurito il fiato con quella a cui appartenevano, resteranno sempre validi e attuali per le generazioni a venire.
2. La genesi
La rigenerazione del mito antichissimo del vampiro (sempre vivi nell'Europa orientale i racconti sui wardalak nei Balcani, vrykolakas in Grecia, strigoi in Romania e infine, wampyr in Serbia e Croazia) nella versione moderna di Bram Stoker, è fortemente imparentata con la nascita di Frankenstein. Fu una sfida letteraria a crear racconti tenebrosi di una sera di fine estate del 1816 sul lago di Ginevra fra i coniugi Shelley, il sommo poeta Byron e il suo amico e medico personale, John William Polidori a dare la vita a due mostri: il Frankenstein, appunto, di Mary Shelley e The vampire del Polidori, che piacque molto a Goethe in persona, il quale lo scambiò, a causa delle fattezze eleganti e raffinate, per un'opera dello stesso Byron. Ebbene proprio quest'ultimo racconto ebbe a ispirare verso la fine del secolo lo stesso Stoker nella sua opera sul conte transilvano.
3. Storia e leggende (e anche psicanalisi)
Ma prima ancora di avventurarci nell'analisi letteraria del romanzo, non è sbagliato intraprendere una breve ricerca sulle origini del mito e sulla storia che spesso s'intrecciano a delineare la tetra figura del vampiro.
Contrariamente a quanto si possa pensare, la leggenda è molto antica e non è limitata alle sole popolazioni dell'Europa dell'Est. Figure di demoni che si nutrivano di sangue erano ben presenti già nelle tradizioni dei popoli della Mesopotamia, fra le popolazioni ebraiche e, addirittura, in epoca greca e romana, ma la testimonianza più antica è quella persiana: alcune fonti iconografiche rappresentano creature in atto di bere sangue umano.
La pratica funeraria della Grecia classica di appoggiare un obolo (generalmente una moneta) sulle labbra dei morti perchè potessero pagare il dazio e attraversare lo Stige, può essere considerata una causa lontana per spiegare la più tarda usanza di porre una croce di cera e un pezzo di porcellana con l'iscrizione "Gesù Cristo vince" sulle salme prima del seppellimento per evitare che diventassero vrykolakas, vampiri.
Nel tempo e presso altre popolazioni, vennero in uso pratiche per scongiurare il ritorno dei defunti nel mondo dei vivi, come seppellire i morti a testa in giù, la rottura dei tendini all'altezza del ginocchio o il posizionamento di semi o sabbia sulle tombe, affinchè i defunti fossero occupati tutta la notte a contare i granelli che cadevano all'interno della bara (3).
Una delle prime testimonianze di vampirismo è la vicenda di Jure Grando, un contadino istriano morto nel 1656 che, secondo i racconti locali, tornò misteriosamente in vita e intraprese scorribande per bere sangue umano e importunare sessualmente le donne del suo villaggio. Per fermarlo gli fu piantato un paletto nel cuore, ma poiché questo metodo sembrò non funzionare, fu infine decapitato.
A Venezia nel 2006 è stato ritrovato in una sepoltura risalente al '500 il cadavere di una donna, che presentava un mattone conficcato a forza nella bocca, fino a deformarla, una sorta di contromisura per evitare la rinascita vampiresca.
I vampiri erano generalmente descritti come esseri gonfi, con la carnagione scura, o sanguigna; queste caratteristiche erano spesso attribuite alla nutrizione a base di sangue. La creatura, osservata nella sua tomba, tendeva a perdere sangue dalla bocca e dal naso, mentre denti, capelli e unghie continuavano a crescere anche dopo la morte. Tuttavia, queste sono caratteristiche che probabilmente furono tratte dall'osservazione dei naturali processi tanatologici e di decomposizione dei cadaveri, da ciò può essere nata la leggenda (ad esempio, se per uccidere un vampiro era necessario infilargli un paletto nel cuore, tale misura, con tutta probabilità, era nata dalla constatazione che il paletto produceva lo sgonfiamento del cadavere a causa della fuoriuscita dei gas della putrefazione).
Il modello che ispirò Stoker per plasmare dalle tenebre e dal sangue il conte Dracula è Vladislav III di Valacchia Hagyak, un personaggio storico realmente esistito. Vlad nacque a Sighisoara nel 1431 e ben preso si guadagnò il nomignolo di Tepès (l'Impalatore), poiché era solito far terminare in modo così orribile le vite dei suoi nemici (una stampa dell'epoca lo rappresenta mentre seduto a una tavola riccamente imbandita, banchetta attorniato da sventurati infilzati sui pali). Egli apparteneva alla casata dei Draculesti e per questo motivo è conosciuto come Dracula (4).
Il personaggio tuttavia, a dispetto della sua fama, è considerato un eroe popolare in Romania, per aver protetto la popolazione dai Turchi. Morto in battaglia contro gli Ottomani, fra il 1476 e il 1477, secondo alcuni la sua testa fu tagliata e inviata a Costantinopoli insieme alla sua spada, secondo altri morì a causa di un (non banale) morso di pipistrello (!). Non si conosce il luogo di sepoltura, anche se a partire dall'Ottocento si è diffusa la voce che la salma di Vlad sarebbe stata tumulata nel monastero di Snagov, che sorge su un'isola in mezzo a un lago. La tomba però, secondo studi archeologici condotti nel 1933, sarebbe del tutto vuota e anche questo ritrovamento (o meglio, mancato ritrovamento) ha contribuito ad alimentare la leggenda.
In una interessante analisi del mito, lo psicologo Ernest Jones (5) ha rilevato che i vampiri sono il simbolo di meccanismi di difesa dell'inconscio attivati dalla perdita di una persona cara. Il desiderio di ricongiungimento dei superstiti viene proiettato sul defunto e pertanto, si ritiene che anch'esso desideri la stessa cosa e tenti di tornare, soprattutto dal/dalla consorte. Tuttavia, nei casi in cui il rapporto fra i coniugi era intorbidito in vita dai sensi di colpa, il desiderio del ritorno (e di riavvicinamento, anche sessuale) può essere sostituito da uno stato d'ansia (6), che lo tramuta nel corrispettivo perverso, ovvero nel sadismo.
4. Il romanzo
La costruzione del romanzo è molto attuale, la narrazione non è mai diretta, dalla voce dei protagonisti, ma ci perviene dalle fonti più disparate: lettere, frammenti di diari, articoli di giornale. La rappresentazione da più fonti, eterodiretta, è quanto di più moderno si possa trovare in un romanzo dell'Ottocento. E' storia viva, fresca, che si rinnova ogni giorno con la lettura dalle fonti. Una sceneggiatura in cui tutti hanno voce, tranne il vero protagonista, il vampiro, che impersona i terrori ancestrali, segreti indicibili, cose che devono restare nascoste. E la paura non ha voce.
Sul piano linguistico, Stoker non è mai stato ritenuto un grande scrittore e la sua opera, in genere, e il Dracula, in particolare, forse non può essere considerato un capolavoro della letteratura, ma un capolavoro, in generale, lo è senz'altro. Nel suo caso, la forza del personaggio è stata superiore alla qualità del romanzo stesso, così come, ad esempio, lo Sherlock Holmes di Conan Doyle, in cui la fama del personaggio ha superato quella del suo autore, la cui prosa non era affatto memorabile.
Stoker si attarda e spesso indugia in descrizioni minuziose, abbonda di particolari, a volte inutili e non essenziali all'economia della narrazione, come denunciato anche dalla critica del tempo, ma il reale pregio del suo romanzo , se non è la felicità di linguaggio, è la costruzione su diversi piani di visuale, plurisoggettivi, cinematografici, oserei dire. E in questa edificazione strutturale a più livelli sta anche la vera natura del romanzo.
Nonostante la critica, Stoker fu molto amato dai suoi contemporanei, il suo romanzo ebbe un vasto seguito popolare e fu oggetto dell'apprezzamento di illustri lettori, fra cui il pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti, i poeti Eliot e Tennyson, il grande Oscar Wilde e perfino il primo ministro inglese Gladstone.
Ma lasciamoci condurre nelle atmosfere gotiche e nebbiose scorrendo le righe del romanzo.
Ci sono misteri che gli uomini possono soltanto intuire, che secolo dopo secolo possono solo in parte risolvere. Credetemi, siamo sulla soglia di un mistero... E' tutto così feroce, così misterioso e strano... quell'orrido senso della realtà delle cose, in cui ogni sforzo dell'immaginazione sembra fuori luogo... Vorrei essere lontano, al sicuro. Vorrei non essere mai venuto
La scrittura è come un chiarore argentato nella notte, che si spande sulla superficie di tutte le cose, lieve come un velo di dama filigranato e prezioso. Può nascondere segreti, adombrare misteri, velare i volti dei protagonisti e alterarne le sembianze, ma alla fine ogni segreto dev'essere svelato, ogni mistero rivelato e il terrore messo a nudo.
Quali sono le nostre paure ancestrali, cosa può scatenarle? Riconoscere la natura ferina degli esseri umani, l'adamantina crudeltà ben nascosta nel profondo dell'essere? Un sorriso maligno che deforma la bocca e accende gli occhi dello scintillio di un orrido basilisco? L'odore del sangue, il tanfo della morte, il buio che nasconde il fiato ansante dei predatori?
La paura è nel sobbalzo del cuore, quel gelo insidioso nelle vene, è la morsa d'acciaio che attanaglia le tempie, la mano d'ombra sulla bocca, che pare voglia fermarci il respiro.
...quel gelo che assale al primo albeggiare, molto simile al volgere della marea. Si dice che chi è in fin di vita muore alle prime luci dell'alba o al mutar della marea.... C'è qualcosa in quel vento, che ha suono, apparenza, sapore e odore”, ma quel vento è gelido, addensa le nubi intorno alla luna e nulla si muove, immobile come una nave dipinta su un oceano dipinto (7). Un oceano buio e senza luna. Molte sono le ombre e scarsa è la luce.
Nessun libro dopo il Frankenstein di Mary Shelley, nessun altro libro si avvicina al tuo per originalità o per la capacità di suscitare terrore”, ebbe a scrivere Charlotte Stoker, la madre di Bram, in occasione della pubblicazione del romanzo. E, anche se le parole di una madre possono essere non esattamente imparziali, soprattutto se rivolte all'opera di un figlio, la signora Stoker probabilmente ci prese. La forza del romanzo sta proprio tutta nelle sue parole: l'originalità e la capacità di suscitare terrore può decretare il successo o l'insuccesso di una moderna opera di genere.
5. Vlad l'Impalatore e il sesso
Il personaggio ha il suo indubbio fascino da seduttore. Come non leggere in chiave altamente erotica le vicende di fanciulle bellissime e discinte che abbandonano il collo al morso dell'uomo pipistrello?
Ma il conte Dracula ha sempre incarnato, nel tempo, anche i simboli di una sessualità perversa e forse deviata. Il suo stesso aspetto fisico, la sua persona alta e magra, il viso emaciato e affilato, ha molti punti di contatto con l'immagine ottocentesca del masturbatore, secondo quello che scrive Leonard Wolf, uno dei maggiori studiosi del mito, e però presenta anche il “vago sentore di garofano verde all'occhiello”, il segno distintivo degli omosessuali durante l'Ottocento.
Tuttavia il colpo di grazia lo assesta l'Edgar Allan Poe dei nostri tempi, ovvero il grande Stephen King, nella prosaica visione espressa in Danza macabra: “Dracula (e del resto anche le sue spettrali sorelle) sono morti dalla cintola in giù: fanno l'amore soltanto con la bocca... Il sesso in Dracula si può considerare come la fondamentale scopata con la cerniera lampo chiusa”.
6. Nosferatu a Hollywood (ma non solo)
Il lascito del personaggio di Stoker nel cinema è sconfinato. Basti pensare che la prima pellicola ispirata dal vampiro, Le manoir du diable, fu girata nel 1896 da Meliès (8) e apre una serie di almeno un migliaio di film, di svariato genere, dall'avanguardia dell'espressionismo tedesco del Nosferatu di Murnau (9), ai classici dell'orrore del regista americano Tod Browning: London after midnight del 1927 (10), ma soprattutto, il classico dei classici, il Dracula del 1931, il primo in cui il Non-morto fu impersonato dall'attore ungherese Bela Lugosi, che s'identificò talmente nel personaggio da credere di essere egli stesso una reincarnazione di Dracula e dormire in un letto a forma di bara (11), per passare poi attraverso il porno-gotico e pecoreccio degli anni '60 e '70, come House on bare mountains, in cui il Principe delle tenebre, Frankenstein e l'Uomo lupo sono coinvolti in avventure erotiche, Malenka la vampira, Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete! e Does Dracula suck; e negli anni Novanta e Duemila il melenso e commerciale blockbuster Twilight, il tentativo di umanizzazione di Intervista col vampiro (1994) e il ritorno alle origini del fondamentale Dracula di Francis Ford Coppola del 1992, con un supercast formato da Gary Oldman, Winona Ryder, Keanu Reeves, Sadie Frost, Tom Waits e Anthony Hopkins, in una parabola ascendente in cui il personaggio negativo e terrificante dei primissimi tempi si trasforma gradualmente in una maschera che sebbene ancora sinistra, si rivela quasi affascinante e verso la quale, a causa della sua condizione di dannato, si può provare compassione o addirittura simpatia.

(1) Lo strano caso del dottor Je (dal francese je=io) kyll (dall'inglese kill = uccido) e del signor Hyde (sempre dall'inglese hide = nascondi). Lo strano caso del dottor Iouccido e del signor Nascondi. Inoltre, nell'invenzione del nome dello scienziato è probabile che Stevenson abbia utilizzato la sequenza alfabetica progressiva jkl. Mia teoria.
(2) Vedere il progresso. Mostri, bambole e alieni nel romanzo illustrato dell'Ottocento.
(3) Anche dalle mie parti c'era una credenza simile. Secondo la tradizione, una semplice scopa di saggina posta fuori dalla porta di notte può fermare le janare (streghe), che non possono resistere alla tentazione di contarne i fili, fino a farsi sorprendere dall'alba mentre sono ancora intente alla conta. Tutto questo ricorda una nevrosi ossessiva, l'aritmomania, che consiste nell'impulso irresistibile di contare gli oggetti.
(4) Tuttavia, sembrano entrare in gioco altri significati. L'epiteto dovrebbe provenire da drac, che in romeno non vuol dire drago, ma diavolo e da draculea, che significa figlio del diavolo.
(5) On the nightmare (1931).
(6) Lo stesso meccanismo psicologico descritto anche da Freud, che spiegò in tal modo la paura dell'occulto.
(7) As idle as a painted ship upon a painted ocean, in La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge (1798), citata non casualmente nel romanzo.
(8) Il regista di Dalla terra alla luna.
(9) Nosferatu, oder eine symphonie des grauens (1922).
(10) Degna di nota, l'omonima band californiana di fine anni '90.
(11) I Bauhaus gli dedicarono la famosa Bela Lugosi's Dead. Credo che fu eguagliato soltanto da Frank Langella, ma ben cinquant'anni dopo, con il Dracula di John Badham del 1979.








sabato 2 dicembre 2017

To wish impossible things


Lo sento, è ora, sta arrivando.

Un flusso devastante e inarrestabile di ricordi prende a colpirmi. Senza pietà.

E quegli occhi del colore delle foglie morte, quei capelli biondo cenere, la pelle lattea come il cielo dell'alba si materializzano da tempi che non sono più.

Dove sei?

Tremolanti luci nella notte, fuochi fatui, miraggi e mille altri astuti inganni. Niente più che questo.

C'incontrammo sul finire dell'estate, fummo vinti da una passione autunnale, crepuscolare e perniciosa, ma non superammo l'inverno. Il suo vento gelido ci ha spazzati via insieme ai nostri sogni impossibili, ai desideri esagerati, agli amabili infingimenti, proprio nel breve scorrere dell'istante in cui stavano per realizzarsi.

Destini più maestosi ci attendevano, tanto considerevoli ed essenziali da calpestare i petali del nostro giovane e fragile amore. Il tuo fato, incastonato fra le navate rischiarate appena dal tremolante chiarore delle candele, sorvegliato da simulacri di santi con lo sguardo vitreo, il mio, un fiume che insinua le spire nella foresta, la sua testa di serpente dorato, il suo corso non è ancora stabilito. E forse è proprio questo il mio destino: consumarmi nel silenzio come una candela prima del buio. Brancolo nella solitudine di un giovane dio precipitato sulla terra, dentro un sordo oblio di tempesta, pazzo di dolore e indifferente al tempo, e già l'angoscia è l'eco di qualcosa che non c'è più...

Chissà se pensi ogni tanto a quei giorni, il nostro sangue era pallido come l'acqua, e a quelle notti, quando le nostre anime erano intrappolate tra l'inferno e il paradiso. Chissà se pensi a me, a noi e a quello che avremmo potuto essere.

Fa male, sai, desiderare cose impossibili, inseguire le ombre, amare un fantasma. Come impugnare un coltello dalla parte della lama e stringere forte.

Ho indossato una nuova pelle su cui far scorrere le mie miserie da deserto dell'amore, ma era un lusso che non mi potevo permettere; infatti si è orribilmente sfilacciata. Ho cercato di sotterrarti, di affogare il tuo ricordo sotto le onde del mare, di bruciare il tuo nome e disperderlo nell'aria. Perdonami, non ci sono riuscito. E sono ancora qui, questa notte, ancora una volta, a scrivere di te. Di noi. Di questa pena strana e crudele che ha preso possesso del mio cuore.

Perdonami perchè dovrò inventare le parole che non mi hai detto, i baci che non ti ho dato, le lacrime che non abbiamo pianto, le notti che non ci hanno fatto rabbrividire, la pioggia che non ci ha inzuppato...

Perdonami se sono ancora qui a scriverti, a parlarti nella lingua dei sogni, a stringere fra le braccia un'ombra, più sottile delle altre.

Ma non badare a me, sono soltanto un folle visionario davanti a un pezzo di carta; eppure, è proprio così che si stimolano i peggiori istinti. Davanti a un foglio di carta.

Non so, non so spiegarti. E' che stanotte mi sento assente e, allo stesso tempo, così presente che vorrei sprofondare nell'incoscienza. Perchè fa male. A dire il vero, mi sento così tutte le notti, quando cala il sole, da quella maledetta notte che ti ha portata via.

Qualcosa sta accadendo. Vibrazioni a bassa frequenza, scuotimenti nell'aria, interferenze cognitive. Rumori urticanti. E' pericoloso stimolare i ricordi. Non è mai una buona idea risvegliarli dal buio polveroso dell'oblio. Un muro di polvere s'innalza nell'aria a sbarrare la mia visuale sulla notte. E sul muro qualcosa prende forma, si ricompone lentamente nel pulviscolo del nulla. Ora ti vedo.

E ricordo.

Una promessa è una promessa. Vieni”, avevi detto.

Sono stato io a non seguirti. Sono stato io a non mantenere la promessa. Ti ho persa di vista, eri troppo distante. Non sono riuscito a raggiungerti.

Basta, devo recuperare la connessione con il reale, una parola, un odore, la luce del sole al tramonto, qualcosa, insomma, che mi faccia sentire alive and kicking, vivo e scalciante. Qualcosa che mi riporti giù, che mi scaraventi a terra e mi ancori saldamente al suolo.

Stanotte le tue parole mi hanno scosso dal torpore consueto, sono risalite dal buio con la rapidità di un rigurgito, dal fondo dell'abisso, dalle profondità di un se opaco e distratto. Stanotte ogni cosa è messa a nudo. Senza pietà.

E' devastante.


domenica 26 novembre 2017

Frankenstein, un mito senza tempo


Morirò. Non sentirò più le angosce che mi corrodono. Non sarò più preda dell'ansia inquieta che non mi lascia pace e che non si spegne mai. Chi mi ha creato è morto. Quando non ci sarò più, perfino il ricordo di noi due svanirà. Non vedrò più il sole e le stelle, non sentirò il vento scherzare sulle mie gote. Luce, passioni, sensazioni, sparirà tutto. Nel nulla troverò la mia felicità.

(Dialogo finale di Frankenstein, 1818)

Napoleone era ancora in vita quando fu pubblicata la prima edizione del romanzo, ma dalle ceneri del Settecento si agitavano già gli incubi che avrebbero atterrito il Novecento. Il senso di colpa originale, la responsabilità oggettiva, la colpa insita nella nascita, il destino ineluttabile, l'impotenza di fronte alle tempeste del Fato. Qualche incongruenza nel testo, forse frutto della traduzione non sempre all'altezza (Dalai Editore, 2011) e un linguaggio ottocentesco e aulico, raffinato ma involuto (c'era già l'editing nel XIX secolo?); però i semi dell'angoscia e del turbamento sono stati gettati e prosperano in un terreno fertile.

Mary Shelley (1) tralascia sagacemente particolari macabri, termini medici e procedimenti scientifici, ma ci conduce per mano a visitare il suo personale incubo, un sogno spietato e terrificante partorito in una notte di fine estate sul lago di Ginevra. E se sognare, fantasticare, immaginare può essere spaventoso, scrivere è devastante. Ogni cosa è messa a nudo. Senza pietà.

Dopo Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde, volevo proseguire le mie letture autunnali (sarà il clima post Halloween) con altri classici del terrore, innanzitutto Frankenstein o il moderno Prometeo e accostargli in seguito il Dracula di Bram Stoker. Un trittico di mostruosità gotiche nel nero fulgore del romanzo dell'orrore.

E dopo il motivo del doppio di Jekyll e Hyde, era doveroso affrontare la sfida alla morte con le armi della scienza.

L'uomo che si ribella a Dio per farsi egli stesso dio, usurpando il potere di generare la vita, non è altro che la rievocazione in forma scientifica e tecnologica della ribellione dell'angelo caduto, giunta fino ai nostri giorni. La fiaba nera dell'uomo buono per nascita e natura, che diviene malvagio a causa dell'emarginazione che tributa il mondo a un essere deforme e ributtante, il mostro, il brutto anatroccolo, il diverso, ancora una volta.

Simboli di forte negatività nell'aria, euforie rancorose, brandelli d'orgoglio calpestato e hybris a nastro. La tempesta è imminente e già si affaccia sull'orizzonte frastagliato delle Alpi svizzere. La tragedia familiare che si compie ha un gusto vagamente omerico ed ellenistico (come non accostarvi l'Edipo Re o la Medea di Euripide?), frutto della vendetta degli dei.

La scrittrice compie un discreto scavo psicologico nel buio dell'abisso dei due protagonisti, lo scienziato, Victor Frankenstein, “un pallido studente di arti perverse e vietate” (laddove queste oscure pratiche non erano che studi di anatomia e chirurgia condotti in modo estremo ed esperimenti elettrici applicati alla fisiologia e alla chimica – galvanismo –, le arti di Paracelso, Cornelio Agrippa e Alberto Magno) e la bestia, deforme e ributtante. Ma non parlerei di eroe e di antieroe, di buono e cattivo, di luce e di tenebre. L'uno non può esistere senza l'altro, ognuno deve all'altro la figura tragica che impersona. E, dopotutto, la perizia della Shelley è tutta qui. Con un colpo da maestro compie un ribaltamento di soggetto e di prospettiva: il cosiddetto 'mostro' è più umano di Victor, la sua povera mente deforme è più intrisa di umanità, sensibilità e senso etico di quella del suo artefice che, nella sua debolezza e irresolutezza, ricusa qualsiasi responsabilità in ordine alla sua creatura, abbandonandola al suo destino.

Chi è dunque il vero mostro?

La macchia di Frankenstein è soltanto esteriore. Non ha commesso lui il peccato di essere venuto al mondo, di essere stato ricucito pezzo per pezzo da brandelli della morte e rianimato dalla terra grassa di vermi dei cimiteri. Non è sua la colpa di essere una povera creatura deforme e rivoltante, che il mondo prende a sassate e tenta di sopprimere.

Ti ho forse chiesto io, Creatore, dal mio fango, di farmi uomo? Ti ho forse sollecitato io a promuovermi dalle tenebre? (2).

L'incolpazione di Dio da parte dell'uomo è anche l'atto d'accusa della miserabile creatura contro il suo artefice. E' un destino di abbandono che lo accomuna, nel suo piccolo, alla progenie di Adamo che, a volte, si crede rifiutata, allontanata e messa da parte dal Creatore, forse per il disgusto che prova per la mostruosità dei suoi peccati. E' la sintesi e anche la conclusione dell'aspra lotta, che porterà entrambi all'epilogo fra i ghiacci eterni del grande Nord.

E la favola scientifica ottocentesca può ora precipitare agli inferi e terminare il suo corso nell'oscurità degli abissi, come un fiume nero e impetuoso che scorre urlando sotterraneo e mefitico nei meandri rocciosi del sottosuolo dei nostri migliori incubi.

Oggi che discutiamo di bioetica e clonazione, oggi più che mai, l'ombra di Frankenstein, il moderno Prometeo, è ancora più scura.

(1) Moglie del poeta Percy Bysshe Shelley e letterata anch'essa.

(2) Il paradiso perduto, John Milton (1667).


giovedì 10 agosto 2017

Psichedelia writing



Miiinkia miiinkina minkino manikino manintube di un certo Falloppio whoreless Manitoù manisoù maningiù minkiainkino dobrowhorewresticide bottanabotero cer BOT (CCT) tana Bot ero io non cambia mai nientediniente nemmeno Willyilcoyote...

A volte una botta al cerchio fa bene e anche una alla botte e anche un cerchio al cerchio o un cerchio alla botta o alla bot-tana tuttatana tuttapatata brutto occhio cerchiato di nero lividi-come- gioielli sul tuo corpo... non sono affatto sicuro che sia deltuttolegale.

Dobronovich Novi Sad Bregonzovich novi breg dobrowhorestyle in a forest primary anche se ho già ascoltato il silenzio, visto chiaro nel buio e accarezzato il riflesso del mareee...

Siamo petali “scossi-dal-vento”, siamo fiori recisi dall'eternoeprofondodolore.




Significato e significante. La poesia di Senghor



La poetica bianca e la poetica africana, l'arte occidentale e quella australe. Due mondi, due universi, due blocchi contrapposti e inconciliabili, se li guardassimo sotto la nostra lente di visi pallidi, e la dicotomia, l'opposizione, il mondo dei blocchi. Invece, è possibile (è necessario) leggere le due parti, insieme a molte altre, come componenti del Tutto. E' quello che cerca di spiegare Lèopold Sèdar Senghor, primo presidente del Senegal indipendente, ma anche (e soprattutto) raffinato poeta (1). Di lui avevo parlato ne L'impero del vento, raccontando di come una sua poesia fosse divenuta l'inno ufficiale di una nazione appena germogliata (2).

Ogni forza, ogni energia, ogni cosa è di per sé un nodo di forze più semplici, elementari, basiche, spesso contrapposte. Maschile e femminile, ad esempio, luce e ombra, bene e male. Ma soltanto la loro aspra lotta e poi il loro dialogo e infine, la loro unione porta alla realizzazione di quella particolare forza, energia, oggetto, che è simbolo di una realtà sottostante, del mondo del non visibile, del quale costituisce il segno. “Ogni forma, ogni superficie, ogni linea” sostiene Senghorogni colore e ogni sfumatura, ogni odore e profumo, ogni suono, ogni timbro, ogni cosa ha il suo significato”.

Sono cresciuto alla tua ombra

la dolcezza delle tue mani che bendavano i miei occhi

ed ecco nel cuore dell'estate e del meriggio

ti scopro dall'alto di un colle calcinato

terra promessa

e la tua bellezza mi fulmina in mezzo al cuore

come il lampo di un'aquila

Gazzella dalle giunture celestiali

le perle sono stelle sulla notte della tua pelle

delizia per i giochi della mente

riflessi d'oro sulla tua pelle marezzata

all'ombra della tua chioma

la mia angoscia si rasserena ai soli vicini dei tuoi occhi

(Donna nuda, donna nera)

Non bisogna tenere l'oggetto a distanza per scrutarlo, osservarlo, analizzarlo. Bisogna intuirlo ancor prima di sentirlo, assimilarne le onde invisibili e i contorni, incorporarlo a sé in un estremo atto d'amore. Oltrepassare il segno e il simbolo per afferrarne il senso. Al di là del significante, è necessario sentire il significato.

Ed ero senza parole

di fronte all'enigma del tuo sorriso

un crepuscolo breve scivolò sul tuo viso

un capriccio divino

dall'alto della collina – rifugio di luce

ho visto spegnersi lo splendore del tuo perizoma

e il tuo cimiero come un sole

inabissarsi nell'ombra delle risaie

Piangerò nelle tenebre, nel grembo materno della terra

dormirò nel silenzio delle mie lacrime

fino a che sfiori la mia fronte

l'alba di latte della tua bocca

(Ti ho accompagnata al villaggio)



La tua lettera di tenero pane

dolce come il burro, sapido come il sale

e la luce sul mare troppo verde e blu

la ghirlanda dei battelli bianchi

verso i fiumi del Sud, verso i fiordi del grande Nord.

La tua lettera come un'ala chiara nel turbinio dei gabbiani

E' bello, è triste

C'è Gorèe, dove sanguina il mio cuore

la casa rossa a destra, mattone sul basalto

la casa rossa al centro, piccola fra due abissi d'ombra e luce

la grande casa rossa dove ancora sanguina il mio amore

come un abisso senza fondo

(Sono le cinque)

Le parole di Senghor sono estremi e simboli di un universo esistenziale, ma unitario, una sorta di surrealismo mistico, un'arte non fine a se stessa, ma funzionale, utile, collettiva, da osservare e ammirare, ma da distruggere e abbattere quando non serve più.
Odiavo un po' di più ogni giorno
il viso d'oriente della fidanzata azzurra
questo bacio di notte alla speranza delle stazioni
questa lenta luna di manna nei reami della nostra infanzia
questa luminosa estate senza notte
questo eterno bacio degli sposi fidanzati
Non vedevo che la tua assenza
(Questo lungo viaggio)

Una palma verde vela la febbre dei capelli
color di rame la fronte curva
le palpebre chiuse, coppa duplice e sorgenti sigillate
questa falce sottile di luna
questo labbro più nero e appena tumido
viso di maschera chiuso all'effimero
senza occhi, senza materia
che non imbrattano belletti né rossetti
né rughe né tracce di lacrime o di baci
(Maschera negra a Pablo Picasso)
E anche accorati atti d'accusa, una ribellione d'Africa, sobria, discreta, ma decisiva.
Dimentico le mani bianche che premendo il grilletto
fecero crollare gli imperi
le mani che fustigarono gli schiavi e vi flagellarono
le mani bianche polverose che vi schiaffeggiarono
le mani laccate e incipriate che mi hanno schiaffeggiato
le mani sicure che mi spinsero alla solitudine e all'odio
le mani bianche che abbatterono la foresta
e domani batteranno carne nera
(Neve su Parigi)

Dunque è vero che la Francia non è più la Francia?
E' vero che l'odio dei banchieri ha comperato le sue braccia d'acciaio?
Sangue, sangue nero dei miei fratelli
voi macchiate l'innocenza delle mie lenzuola
voi siete il sudore in cui si bagna la mia angoscia
siete la sofferenza che arrochisce la mia voce
(Tyaroye)

Invano fu stroncato il riso tuo
il fiore più nero della tua carne.
(Assassini)

Ecco il sole
che inturgidisce il petto delle vergini
che fa sorridere i vecchi sulle panchine
che i morti desterebbe sotto una terra madre.
E voi fratelli oscuri, nessuno vi ricorda.
Promisero a cinquecentomila figli vostri la gloria di morire
Fra poco, ringraziano fin d'ora gli oscuri futuri caduti
La nera infamia
nella solitudine della nera terra e della morte
nella vostra solitudine senz'occhi e senza orecchi
senza il calore dei vostri compagni stesi contro di voi
come allora in trincea e un tempo alle riunioni di villaggio
anche se non avete né occhi né orecchi
nel vostro triplo recinto di buio
Accogliete questo suolo rosso
questa terra sotto il sole estivo
arrossata dal sangue delle bianche ostie
(Ai fucilieri senegalesi caduti per la Francia)

E poi inni alle origini primordiali della vita, all'archetipo, al significato unico e profondo di ogni cosa, un invito al ritorno all'essenza primeva.

Mi ha confuso la tua bellezza
queste grandi ragazze d'oro dalle lunghe gambe
di fronte ai tuoi occhi di metallo blu
il tuo sorriso di brina
che leva i suoi occhi di civetta fra l'eclisse del sole.
Non un riso di bimbo in fiore, la sua mano nella mia fresca mano
Non un seno materno, solo gambe di nylon
gambe e seni senza sudore né odore
Non una parola nell'assenza di labbra
solo cuori artificiali pagati con moneta unica
e non un libro in cui leggere la saggezza
La tavolozza del pittore fiorisce di cristalli di corallo
e le acque scure trasportano amori igienici
come i fiumi in piena cadaveri di bambini
Ecco il tempo dei segni e dei conti
Ho visto prepararsi la festa della notte alla fuga del giorno
Tutti gli elementi anfibi raggianti come soli
Lungo i marciapiedi, ruscelli di rum bianco
ruscelli di latte nero nella nebbia azzurra dei sigari.
Ascolto la tua voce maschia di rame
la tua voce vibrante d'oboe
l'angoscia ostruita delle tue lacrime piombare in grossi grumi di sangue
L'idea legata all'atto, l'orecchio al cuore, il segno al senso
Ecco i tuoi fiumi sonori di caimani muschiati e di lamantini dagli occhi di miraggio
E nessun bisogno di inventare le sirene
Ma basta aprire le orecchie a Dio
che con un riso di sassofono creò il cielo e la terra in sei giorni
e il settimo giorno dormì del grande sonno negro.
(A New York)


 
Cullato dall'urlo del vento, la faccia riversa
come un leone notturno su tristi altipiani
Vago intorno a qualche assenza
Tu sola assente, o mia presenza
Tu relitto di sabbia e di tenerezza, fiume di delizie
E il verde che si rifiuta di diventare tenebra
I primi Alisei viravano sibilando sulla loro coda
sulle loro penne, sulle loro ali
Come una falsa gioia
Soukeina di seta nera, sorriso di sole sulle labbra di mare
Che io mi fermi sotto la Via lattea
per ascoltare nel vento fra i palmizi il lamento delle poetess.
(Elegia degli Alisei a mia moglie Colette)
 
La vera cultura è mettere radici e sradicarsi, dice Senghor. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti con le civiltà straniere.
E' possibile rimanere ancorati alle proprie origini e, al tempo stesso, prendere il largo per orizzonti lontani.
Perchè la libertà è deserto (3).



 
(1) “La poesia ha perso uno dei suoi maestri, il Senegal un uomo di stato, l'Africa un visionario e la Francia un amico”, dichiarò alla sua morte Jacques Chirac, all'epoca alla presidenza francese.
(2) In piedi fratelli,
il leone rosso ha ruggito
d’un balzo si è slanciato,
dissipando le tenebre.
Sole sulle nostre paure,
sole sulle nostre speranze.
Fibre del mio verde cuore,
spalla contro spalla,
in piedi fratelli!
Uniamo il mare e le sorgenti,
uniamo le steppe e le foreste.
Salve Madre Africa.
(3) Elegia degli alisei a mia moglie Colette.