giovedì 28 febbraio 2019

Di luce e d'ombra - Mio padre



                                                             Giocando al volano
                                                             Ingenue
                                                             Divaricano le gambe
                                                            
                                                             Tagi



Mio padre non aveva mai visto il mare.

Almeno fino a quando non ebbe compiuto diciott’anni. Era il 1953, l’Italia era da poco uscita da una guerra mondiale e cercava di ricucire le sue ferite. Partì militare lasciandosi dietro fame e lacrime e sbarcò in Sardegna. Ne vide tanto di mare, in un colpo solo. Ma quell’indigestione marina non gli bastò, non si riprese mai dalla malattia del mare. Volgendosi indietro col ricordo ai suoi anni di bambino, la prima immagine che si stagliava su tutti gli altri ricordi credo fosse la terra vista a faccia in giù, bagnata dal sudore e dalle lacrime, mentre era chino sui solchi lasciati dall’aratro. Ho sempre pensato che se non avesse messo su famiglia così presto, si sarebbe imbarcato sulla prima nave che gli fosse capitata a tiro, uno strano destino di contadino – marinaio, e non sarebbe tornato mai più. Per svegliarsi col mare, addormentarsi col mare e magari, morirci pure col mare.

Mio padre non aveva mai visto il mare.

Io si, invece, fin dalla nascita. Avevo aperto gli occhi guardando il mare. Mio padre mi fece nascere in una città di mare. Conservo ancora un vago ricordo delle lunghe passeggiate mano nella mano con lui sulla spiaggia, sul lungomare, per le strade della costa. Ovunque andassimo, uno dei lati di quel rettangolo assurdo e precario che era il paesaggio di quella città era sempre il mare.

Quello fu il suo regalo più bello.

Del resto, ha sempre avuto poco tempo per farmi regali, era sempre fuori a lavorare. In casa c’era solo per mettere insieme il pranzo con la cena, un pasto che prendeva a un’ora assurda, le cinque del pomeriggio, per fare prima e lavorare di più, la sua strana pausa pranzo ormeggiata al pontile di un tempo medio fra i due principali pasti della giornata. Me lo ricordo seduto da solo al tavolo della cucina a ingozzarsi lentamente, mangiava senza gusto, beveva solo per togliersi la sete e poi, si puliva la bocca con il dorso della mano, era il segnale che aveva finito e mamma poteva sparecchiare. Andava via, senza guardarci, senza salutare, la sua schiena sempre più china, gli occhi sempre più stanchi. Il lavoro gli ha mangiato la vita.

L’altro regalo che mi ha fatto mio padre è stato quello di andarsene presto, troppo presto. Con la liquidazione tirammo avanti un bel po’, ma non troppo. Bè, forse il regalo, più che a me, l’ha fatto ai suoi padroni che lo pagarono in nero tutta la vita e risparmiarono perfino sul suo tieffeerre. Non li commossero le lacrime di una vedova e il pianto di tre bambini.

Da allora, ho dovuto sempre cavarmela da solo. Sono cresciuto, troppo in fretta e, quando si cresce troppo in fretta, si viene su male, storti e insani, come una pianta senza sostegni. Ma sono sempre stato curioso di vedere il mondo, così, alla prima occasione me ne sono andato.

Del resto, non potevo restare. Lì dov'ero, dove sono nato e cresciuto non c'era niente. E in un posto in cui non c’è niente puoi solo diventare tossico o pusher, o entrambe le cose. A te la scelta. Io no però, non sono diventato né tossico né spacciatore. Potevo perdermi, ma non l’ho fatto. Non perché volevo diventare un bravo ragazzo, un uomo onesto. Ma per un altro motivo.

Non volevo dargliela vinta.

Avrebbero detto: ecco guarda, hai visto? Cosa potevi aspettarti da lui? Che era un disgraziato si vedeva da quando andava alle elementari. E avrebbero sorriso compiaciuti sui sagrati delle loro chiese, impettiti nei loro abiti della domenica.

No, non potevo dargliela vinta.

        Certo, la sorte ha continuato a non stare dalla mia parte, ma me ne sono fatto una ragione.

E soprattutto, non ho mai alzato la voce. Contro nessuno. Io non parlo mai a voce alta. Se lo faccio, vuol dire che quello che sto dicendo non ha importanza, oppure, che sono quelli che mi ascoltano a non averne.

Da quando sono sbarcato in questa città, niente è stato più lo stesso, neppure io. Questa città mi sta mangiando l’anima. D’accordo, ci sono venuto perché avevo bisogno di lavorare, avevo bisogno di soldi e all’inizio è stato così. Soldi facili, ma solo all’inizio. Dopo, sono finito in un turbinio di lavori, impieghi e incarichi ed è stato come precipitare. Mendicare lavoro, vendersi per lavoro, sputare sulla mia terra per lavoro. Non ho mai fatto lo stesso mestiere per più di un anno.

A volte mi sento solo, ma non annego nel vuoto. Soffro della solitudine di chi pensa. E’ vero, penso molto e, a volte, scrivo quello che penso, ovunque mi trovi. Ho scritto sui diari degli altri, sui tovaglioli al ristorante, sulle analisi del sangue, sulla carta igienica dei bagni pubblici e, perfino sulle federe dei cuscini. Ho il terrore di perdere le idee e non ritrovarle più. Ma scrivere, non vuol dire essere uno scrittore.

E’ solo inchiodare parole alla carta, come farfalle impaurite, terrorizzate dalla fine che stanno per fare. Io credo che le parole, come le farfalle, sono fatte per volare nell’aria, danzare sulla punta della lingua e solleticare le orecchie, non per finire chiuse dentro un libro, come tele dimenticate in una pinacoteca.

Ecco. Ho appena dichiarato il mio amore per le parole. Eppure, a volte, non riesco a farmi capire. Sarà colpa del mio accento. Ho girato molto, su e giù per lo stivale e ho preso strane cadenze e inflessioni esotiche, ho rubato dai vernacoli modi di dire inusitati e bizzarri vocaboli. Possedendo molteplici inflessioni, il mio linguaggio è di tutti i luoghi e di nessun luogo in particolare.

Oggi sono tornato, sono tornato a casa e da qui la città è quasi indistinguibile dalla nebbia che la circonda e dal cielo basso e grigio. E’ incredibile quanto sia terapeutica la distanza. Qui mi pare di respirare di nuovo.

Ma l’oggi si è trasformato in ieri maledettamente presto. Ed eccomi qui. Di nuovo. Provo un vago senso di vertigine e smarrimento, come se mi mancasse l’aria. Per me tornare qui è come precipitare per sempre.

Non mi abituerò mai.

Qui di mare non ce n’è. In compenso, c’è fretta, tanta fretta. E arroganza. E ipocrisia. E muri, tanti muri.

Che mi succede?

Non sono più quello che ero, ma non sono ancora quello che sarò.

Chi sono?

Un processo in atto, un progetto in divenire.

Pensai che, se mai nella vita avessi avuto un figlio, avrei dovuto fargli un regalo come quello che mio padre aveva fatto a me, farlo nascere in riva al mare, per confondere il suo primo tenue vagito con l’alito rude del mare. E sperare che da grande si trovasse una donna di mare, abituata a fare i conti con le partenze, come con le stagioni che cambiano. Le donne di mare sono più donne. Ma qui dov’ero sbarcato, l’unico mare era fatto di nebbia. E al mio ipotetico figlio non avrei potuto regalare nient'altro.