sabato 26 marzo 2016

Il segreto della stanza 42


Portami di sotto, dove tutto è più reale. Portami dentro stanze vuote ad ascoltare i vostri silenzi. Portami di sotto e chiudimi dentro la stanza dove manca l'aria, dove manca l'aria, manca l'aria, manca l'aria...
E poi prendi i miei occhi, ecco i miei neri occhi, poiché dove andremo non serviranno.
Ecco, ci risiamo. Il passo lento e cadenzato si allontana dalla mia porta e il fioco lume non proietta più ombre. L'ora di cena è passata da un pezzo. Bucce marce e pezzi di pane ammuffito li ho raccolti nel piatto. Fra un po' verranno a riprenderseli i rimasugli di quello che non può certo chiamarsi un pasto decente. Il sole dev'essere tramontato col suo solito corredo di incendi e silenzi. Quanto mi mancano i tramonti. E le albe. Sono un cieco nell'ombra, una talpa nella sua tana, un uccello notturno rinchiuso nella gabbia della notte, le cui sbarre sono colonne di luce che feriscono le tenebre.
Rabbrividisco al chiarore gelato di una luce al neon che ronza come un insetto. Tra poco la spegneranno e sarà buio pesto. Allora l'oscurità sarà invadente e pesante quanto una colata di cemento e m'impedirà di respirare, e il silenzio sarà assoluto.
E riconoscerò quell'odore, l'unico che si sente qui sotto. L’odore della terra. Profumo di terra inzuppata, grassa, nera. Radici, terriccio, vermi. Nero baratro nel quale affonderò un giorno, con un abbraccio. La terra mi riempie gli occhi, la bocca, il naso. E devo avere anche il cervello pieno di terriccio, perchè i pensieri mi s'inceppano di frequente. E' difficile pensare al buio, è difficile anche respirare qui sotto, figuriamoci pensare.
Se volessi potrei accendere la torcia che avevo trovato nella mia stanza il primo giorno. Chissà a chi apparteneva? Ma non sono sicuro che funzioni e, anche se si accendesse, quanto durerebbe la sua luce prima di spirare per sempre? Anche se non la uso, la conservo come una reliquia. Qui sotto è la cosa più preziosa e il solo fatto di possederla, di possedere la luce, mi fa sentire ricco.
Quand'ero là fuori, scrivevo. Ma mi pare che siano passati cent'anni. Non so più se esiste ancora un Là Fuori, o se il Qui Dentro ha divorato il mondo, sbranato il sole, dilaniato la primavera e il buio sia ormai l'unica possibilità di esistere. Di continuare a vivere. Non so più come si fa, non so più impugnare una matita e tracciare segni sulla carta. Scrivere è nascondersi. Nascondersi agli occhi del mondo, della folla, della moltitudine. Almeno in questo ci sono riuscito.
Scrivere è pericoloso, le parole sono armi a doppio taglio. Un filo di lama per il significato apparente e formale e l'altro per le verità nascoste. Quelle che fanno male, quelle che possono anche uccidere. Scrivere? Nessuno lo fa più, ormai. Tanto nessuno legge, nessuno più si sobbarca quel rischio. Allora, perchè scrivere?
Devo essere qui da tanto, perchè mi pare ormai soltanto un sogno. Un sogno dal quale non riesco a svegliarmi. All'inizio ho cercato di contare i giorni, memorizzando quante volte si accendeva la luce per la cena. Sono arrivato a contarne fino a centosettanta, poi i giorni sono diventati tanti all'improvviso, e ho smesso.
Non mi ricordo neppure come sono finito qui sotto. Mi sono assopito dall'altra parte e mi sono risvegliato qui dentro una mattina. Una mattina? Ho consultato l'orologio, ma è uno strumento ambiguo, a queste profondità non penetra la luce del sole; tuttavia anche a quel passatempo ho dovuto presto rinunciare. In verità non sono sicuro che sia davvero passata l'ora di cena, potrebbe essere qualsiasi ora del giorno o della notte, ma a che vale saperlo? Non farebbe alcuna differenza.
Per ingannare il tempo ho imparato a contare. Se conto lentamente, fino a 1000 so che è passato un po' più di un quarto d'ora e se arrivo fino a 3.600 è trascorsa un'ora. Oltre non riesco, la mente si stanca e perdo il conto. Così, la mia vita si svolge nell'angusto confine di un'ora. Vivo un'ora alla volta, quando ho voglia di contare. Fra un conteggio e l'altro, la mia esistenza fluttua nell'oscurità senza tempo. E mi sembra di essere morto. Forse la morte è soltanto questo: assenza di luce e di tempo. Niente di cui avere timore. In confronto la vita è così spaventosa.
Qui è tutto così strano, ma col tempo ho fatto l'abitudine a questa stranezza, che mi pare ora la normalità, che ho l'impressione di aver sempre vissuto così, che la mia vita prima e la mia vita adesso, la mia vita fuori e la mia vita dentro siano state e siano ugualmente ambigue e improbabili. Ma c'è qualcosa che non va. Ho la sensazione che mi sfugga non so che.
Ma non sono lucido a sufficienza per comprenderlo. Quando mi sveglio, non sono affatto sicuro di esser desto, e quando mi addormento non so se sono davvero preda del sonno. Forse aleggio fra l'uno e l'altro stato, senza dormire mai e senza essere proprio sveglio. Un dormiveglia nell'incoscienza e nel buio. Ma tutto è così reale, tangibile. I passi che si allontanano nel corridoio, i rumori delle altre stanze, posso sentire perfino respirare dalla stanza che confina con la mia. Dunque non sono solo, anche se non ho mai visto nessuno. In verità, non vedo neanche chi mi serve il frugale banchetto. Odo un picchiettare lieve all'uscio, corro ad aprire, ma non c'è nessuno, sento solo passi allontanarsi in fretta e sul pavimento l'involto del pasto.
E scopro una fetta di pane in più, due cucchiai di minestra oltre il solito. Una mano misericordiosa? Qualcuno conserva ancora in sé uno sprazzo di umanità nel buio di queste segrete?
E' come una città, una tana, un alveare che si sviluppa su piani inclinati. Ogni cosa rotola verso il basso, sempre più a fondo, dove si annidano le miserie della notte e la tenebra senza fine.
Non so che darei per far cessare questa mia esistenza sotterranea.
Una gelida corrente d'aria sibila e s'insinua sotto la fessura della porta, turbina sul fondo della mia stanza, come gli spifferi di una notte d'inverno. E' aria pesante, viziata, piena di umidità, sa di acqua e fango. E' come un segreto vento sotterraneo che visita queste stanze e mi gela i piedi.
Tremo, fin dentro le mie ossa. Non so più neppure che faccia ho, se mi è cresciuta la barba o si sono allungati i capelli, se ho le orbite incavate o le guance paffute. E del colore dei miei occhi non serbo più alcun ricordo. Non ci sono specchi. Ma se anche ve ne fosse uno, la luce è così fioca che dubito avrebbe la forza di riflettermi sulla sua superficie.
Non parlo più. Ho scordato come si fa. Se non c'è nessuno ad ascoltare, parlare è inutile. E anche conversare con se stessi serve soltanto a rinnovare la noia e seccare la gola. E poi, io parlo solo di quello che so, non saprei discorrere delle cose che non conosco. Per questo, da quando sono qui, ho imparato a tacere. I miei silenzi sono profondi quanto la mia ignoranza. I miei silenzi sono più profondi di questo luogo. Ho provato a scoprire la verità, ma le ombre le fanno velo e le tenebre generano mostri. Meglio tacere.
Non credo di aver fatto qualcosa di sbagliato. Ho sempre fatto quello che mi hanno detto di fare. E continuo a farlo. Errori, colpe, peccati, io non ne conosco. Eppure sono qui.
Non so con esattezza, dicevo, come sono finito qui dentro. Non conservo ricordi, ma ho come l'impressione di essere comparso per puro caso nel preciso istante in cui ero atteso. In realtà, non è questo il verbo giusto. Ad attendermi non c'era nessuno. Come dicevo, qui sotto non ho incontrato anima viva. Anche se, da certi lamenti di notte, certi rumori striscianti lungo i corridoi, la pesantezza di passi sopra la mia testa, so di non esser solo. E quelle voci, appena sussurrate, che odo a stento, con quel tono speciale che le donne usano di notte fra loro. Ecco, non so come faccio a esserne sicuro perchè le percepisco appena, ma quelle voci chiamano il mio nome.
E in qualche modo mi risultano familiari. Se chiudo gli occhi mi rivedo nella mia cameretta da bambino, sotto le coperte in una notte di pioggia, e ascoltavo quelle voci, le stesse che sento ora, appena dall'altra parte del muro, a decidere il mio destino, allora come ora.
Ero infelice allora, sono infelice ora. A volte penso che non uscirò mai da questo buco. E se lo penso, il mio pensiero dura quanto l'eternità. In un modo o nell'altro siamo tutti condannati all'infelicità.
Là fuori è tutto vero, qui dentro è tutto falso. Le mani che tastano il mio viso, che sfiorano i miei occhi, che mi pizzicano le guance sono davvero le mie? Ed è mio questo corpo che sfiorano o è soltanto la pia illusione generata da un cervello che si ostina a credere di essere ancora in vita?
Se cerco di richiamare alla memoria le circostanze in cui sono precipitato qui in fondo, la mia mente si rifiuta di tornarvi. Forse è il momento in cui ho cominciato a capire, forse è l'istante in cui ho cominciato a morire e l'agonia di quell'attimo si disperde come un'eco nell'oscurità.
Ma io sono ancora qui, vivo e vegeto, a sperare contro ogni speranza, di tagliare la corda.
Alcuni giorni fa, era notte era giorno, non saprei dire, ho sentito uno scalpiccio, un rumore lieve, come di zolle di terra che si frantumano. Ho tastato il pavimento fino alla sorgente del rumore e ho scoperto un buco nel muro di terriccio. Dal foro, dal contorno irregolare, spirava una corrente d'aria fresca, l'ho sentita con le dita, l'ho annusata, non il gelido fiume d'aria che mi ghiaccia i piedi. E' aria pura. Ormai un lontano ricordo. Poi sotto le dita ho sentito dei filamenti lunghi e morbidi, ve ne erano alcuni sul pavimento e altri ancora dentro il piccolo foro. Li ho annusati ma non sono riuscito a riconoscerne l'odore.
Quando si è accesa la luce, ho scoperto una piccola talpa. Da dov'è venuta? Ho cercato di afferrarla ma lei, sbattendo contro le pareti, ha riguadagnato il suo buco ed è sparita così com'era arrivata. Ho aperto il pugno che stringeva i filamenti e riconoscendo quello che avevo sul palmo della mano ho riconosciuto anche il suo odore. Fili d'erba! La talpa se li è trascinati dietro impigliati alle zampe da qualche prato lassù. Lassù! Allora esiste ancora una terra su cui cresce l'erba, l'acqua che la nutre e un sole che le infonde il suo calore. Dio che buon odore! Mi ero dimenticato come odorasse l'erba. Allora si è riaccesa in me una nuova speranza. Se la talpa è arrivata fin qui, io posso arrivare fino alla sua tana, appena al di sotto della superficie e basterebbe rimuovere le zolle per poter sbucare con la testa nel campo dove crescono quegli steli d'erba che le si sono attaccati alle zampe. Basta solo allargare il buco, scavare con le mani una galleria più ampia, la terra è morbida e friabile, e seguire a ritroso la sua strada.
La luce si è spenta e scavo alla cieca come un pazzo. La terra s'infila sotto le unghie, ma continuo a scavare, di tanto in tanto incontro spuntoni di rocce taglienti che mi lacerano la pelle, il terriccio s'insinua nelle ferite e brucia, ma continuo a scavare. Dopo un'ora sono con le spalle e con la testa dentro il buco.
Ho la terra negli occhi e nelle orecchie. Ma continuo a scavare e a strisciare, come un grasso, lurido lombrico. La galleria è angusta e ogni respiro è una fatica colossale, come se un boa mi avvolgesse dentro le sue spire di terriccio. Non so quanto tempo è trascorso, quando un boato squarcia la notte, la terra trema e mi cade addosso, sommergendomi a ondate rabbiose.
Una sensazione fastidiosa in testa. Apro gli occhi. Devo essere svenuto. Sento di nuovo un contatto sgradevole sulla fronte. Cerco in tasca la torcia e l'accendo. Una mano mi punta in faccia il suo indice accusatore!
Il mio cuore pare volersi estirpare dal petto ed evadere dalla sua sede fisiologica e non si calma neppure quando capisco che quella mano era la mia. Sono caduto sotto la furia della frana e devo essere svenuto assumendo un'insolita postura, puntandomi in faccia il dito, come se mi autoaccusassi della mia fuga. Mi sono preso un bello spavento, lo ammetto, ma sono vivo.
Mi scuoto la terra di dosso e riemergo. Sputo terra, ho sapore di ferro in bocca. Ma per fortuna sono indenne. Provo a muovere qualche passo. L'oppressione delle pareti non mi schiaccia più le costole e posso respirare. Mi trovo in una sorta di radura sotterranea. Una frana ha forse fatto crollare un velo di roccia e aperto un varco. Questa vasta piazza nelle viscere della terra è punteggiata da macchie scure. Sono imbocchi di cunicoli. Talpe e altri misteriosi animali di questo mondo occulto devono aver lavorato per secoli, grattando con le loro zampette la terra di queste gallerie.
E ora che fare?
Ci sono centinaia di tunnel e non sono sicuro che sbuchino tutti in superficie. Se imbocco quello giusto, magari in pochi minuti rivedrò la luce del sole, ma se scelgo quello sbagliato potrei girare per anni sottoterra, senza emergere mai. Sepolto vivo.
Mentre m'interrogo se infilarmi a caso in una galleria, o se non sia meglio tornare indietro, qualcosa guizza all'apertura di un tunnel. E' veloce, ma la mia mano lo è di più. La avvicino agli occhi e dal pugno sbuca un musetto grigio e un paio di baffi. E' un topolino di campagna! E' il segnale che cercavo, vuol dire che siamo vicini alla superficie. Da qualche parte, sopra la mia testa, forse a non più di tre o quattro metri, un popolo d'alberi prospera su una nazione d'erba e foglie morte.
L'ingresso è un po' stretto, ma gratto alacremente le sue pareti e mi par d'essere anch'io una talpa all'opera nel suo elemento. Infilo la testa nel buco. La luce della torcia mi abbandona. Il buio fitto mi preme sugli occhi, fin quasi a farmeli schizzare fuori dalle orbite. Ma mi faccio coraggio e penetro lentamente e non senza apprensione nelle tenebre.
Raschio le strette pareti cercando di dilatarle, scavo e procedo, lentamente, ma procedo. E sono ancora un verme che striscia il ventre sulla fredda terra.
Ma c'è roccia qui, le mani mi fanno male e non riesco più a scavare. Devo indietreggiare e provare da un'altra parte. A volte per andare avanti bisogna tornare indietro.
L'idea è buona, trovo subito un filone di terra morbida, che aggredisco a piene mani. Un diaframma di terra si sbriciola in pochi istanti e mi ritrovo ancora nella galleria principale.
E' la strada giusta, sento un soffio d'aria fresca sul volto e, in fondo in fondo, lontanissimo, così lontano che sembra un sogno, un debole chiarore.
La luce aumenta man mano che avanzo, cresce e si dilata nell'atmosfera angusta e opprimente del cunicolo. Ma ecco, ci siamo, un ultimo colpo e la tana si scoperchia come una tomba.
Sono Fuori e sto respirando. Quest'aria fredda mi lacera la gola, mi brucia i polmoni. E' come nascere un'altra volta. Metto un passo dopo l'altro e comincio a camminare. Ho paura di sbattere, dopo i fatidici due metri della mia stanza, contro il muro di terra. Ma qui non c'è niente. Soltanto aria. Mi gira la testa e ho la nausea, come se mi avventurassi sull'orlo di un precipizio. Ma il fondo è solido e non ci sono voragini in attesa di fagocitarmi. Cammino, sempre più spedito. Mi fanno male le gambe, ma proseguo. Cammino, sempre più in fretta. Mi manca il fiato, non sono più abituato. Ma ora corro, corro sull'erba bagnata, nel prato fangoso, corro su una strada asfaltata.
Vedo in lontananza le luci di una città. Le luci ingrandiscono, crescono, si moltiplicano nutrendosi di oscurità, la tagliano a grandi fette, la dilaniano, la sbranano e la rigurgitano sotto forma di intensi bagliori. Ecco la città, una trappola fatta di luci multicolori, e in fondo alla trappola, la moltitudine senza destino, la folla multiforme, un mostro dalle molte teste pronto a catturarmi.
Volti, espressioni, occhi che mi fissano, teste, braccia e gambe e di colpo piombo dentro una solitudine che non conoscevo, una solitudine affollata; non ho più freddo fra la gente, la massa calda e vociante mi assedia, mi conquista e penetra in me. E la vita riprende a scorrere come il sangue nelle vene. E finalmente sono dentro il mondo, nel flusso inarrestabile della vita.
Mi pare che il fiume di gente scorra troppo veloce, la corrente serpeggia fra gli angoli dei palazzi, le rapide rumoreggiano tumultuose e io sono soltanto un pezzo di legno trasportato dalla corrente. Non posso che assecondarla.
Ma le stelle non corrono più così veloci sopra la mia testa, la corrente sta rallentando, o meglio, mi sono accorto di essere finito in un flusso secondario che si assottiglia sempre più fino a prosciugarsi.
Le ultime lingue d'acqua della fiumana mi depositano ai piedi di due signori ben vestiti che mi acciuffano e mi trascinano via con loro in un basso edificio dalla sagoma irregolare, privo d'insegne e di qualsiasi luce. Insieme imbocchiamo corridoi, scendiamo scale, entriamo in montacarichi cigolanti, e caliamo, sempre più in basso. Finchè udiamo un tonfo sordo. Abbiamo toccato il fondo.
La gabbia di ferro si apre all'improvviso con gran fracasso. Entriamo in un lungo corridoio, lo percorriamo tutto con passo deciso, io e i miei due accompagnatori. Ci fermiamo soltanto davanti a una porta. La riconosco. E' la mia.
E' la stanza 42.

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sabato 19 marzo 2016

Appunti storico-critici su come fu raggiunta la (dis)unità d'Italia


Fino a poco tempo fa tenevo con costanza una sorta di diario sul quale annotavo le mie riflessioni, le mie sensazioni e i pensieri meno limpidi. Quel diario era lo specchio esatto dei tempi che vivevo. Era, insomma, una sorta di breviario estremamente negativo dei miei giorni e delle mie notti, un florilegio dei miei desiderata, per troppo tempo sospeso tra lucidità e follia, di quei tempi da lupi che stavo vivendo, densi di infamie e miseria morale, tempi che in un futuro non troppo lontano vorrò probabilmente dimenticare.

Oggi il diario non c'è più - non valeva la pena raccogliere quei miei pensieri neri, quelle mie frasi disperate e patetiche su una pagina inutile di un altrettanto inutile diario -. ne ha preso il posto una sorta di agenda, una speciale scatola delle idee (Il taccuino, Bernard Quiriny), un posto in cui annotare parole prima che svaniscano e di cui prendermi cura quando resto da solo, un luogo di sosta della memoria, una palestra delle riflessioni (Il diario di appunti, Marguerite Duras).

Ma in quel diario scomparso, in un lontano giorno di marzo, avevo annotato...



M’imbatto a volte in resoconti storici sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia, sono belli da leggere, affascinano e un po' accarezzano l’orgoglio nazionale, nel presente troppo mortificato. Ma soltanto quelli firmati da storici italiani sono così epici. Dagli storiografi stranieri, che secondo me sono quelli più attendibili, emerge tutt’altra realtà. E attenzione, sto parlando di gente del calibro di Dennis Mack Smith e di Arthur Clarke. Da tali studi, che si basano su documenti storici attendibili, pare che l’Unità d’Italia sia stata accidentale, cioè, che sia avvenuta come per caso, mentre si stava facendo qualcos’altro.

Ma com’è possibile?

Se ci pensate bene, se leggete attentamente fra le righe della Storia, quella ufficiale, quella con la esse maiuscola, vi accorgerete che è così.

Garibaldi partì da Quarto per sbarcare in Sicilia e da lì risalire la penisola fino a Roma, liberarla e farne la capitale d’Italia. Ma lo desiderava soltanto lui, idealista fuori dal mondo (“un onesto babbeo” lo definisce Leonardo del Boca in Maledetti Savoia). Infatti, tutto questo, per evidenti ragioni di realpolitik non si poteva fare, senza scatenare una guerra europea, che nessuno aveva interesse a combattere, con Francia, Austria, Russia, Prussia, Inghilterra e la neonata Italia. Allora Vittorio Emanuele, allarmato da Cavour, attraversò di volata le Romagne, le Marche e gli Abruzzi e lo fermò a Caianello. E, voltandosi indietro, si rese conto di essere diventato Re d’Italia, praticamente senza volerlo e soprattutto, senza sapere cosa farsene. Ma qualcosa ci fece e non fu la cosa migliore che poteva.

Chi può più credere, ormai, alla favola che siano bastati 1.000 uomini male armati e messi peggio in arnese, ma con la camicia rossa, a piegare l’esercito più numeroso e meglio organizzato della penisola italica e soprattutto, senza essere stati prima intercettati dalla più potente marina da guerra del Mediterraneo (l'Armata di mare borbonica), dopo quella francese e di Sua Maestà britannica?

La storia dell’Unità d’Italia, al di là della retorica ufficiale appare, in realtà, come un intreccio di servizi segreti (piemontesi, inglesi, francesi), potenze straniere (Francia, Inghilterra), associazioni segrete (carboneria, massoneria, Giovane Italia), fondi neri (il famigerato milione di piastre turche, una cifra spropositata per l’epoca, tirata fuori non si sa da chi, per ungere e corrompere governanti e funzionari borbonici e alti ufficiali dell'esercito e della marina), corruzione (appunto!), malaffare (spoliazione di terre alla Chiesa e ai nobili decaduti, per rivenderle all’asta, anziché assegnarle ai contadini meridionali che da secoli le inzuppavano di sangue e sudore, industrie e fiorenti manifatture del Sud distrutte o costrette a chiudere ed essere sacrificate a quelle del Nord), stragi, di stato (e non), impunite (sempre): Bronte, Pontelandolfo, Casalduni e tante altre, intrallazzi con la criminalità organizzata (con i picciotti mafiosi per preparare dapprima la pseudo – insurrezione e poi lo sbarco in Sicilia).

Ma tutto questo non vi ricorda qualcosa? Qualcosa di familiare, qualcosa che sa maledettamente di deja - vù?

Non vi sbagliate, la recente storia italiana è piena di tutti questi elementi fondativi. Non siamo andati poi così lontano dal Risorgimento. Anzi, l’Italia è stata costruita proprio su queste basi.

L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro?

Neanche per sogno.

L’Italia è stata fondata sulla corruzione, sul malaffare, sulle cento stragi ancora in cerca di un colpevole e di un perché.

I servizi segreti deviati, insieme a quelli stranieri (CIA e KGB in primis) hanno operato senza scrupoli e influenzato pesantemente la politica italiana, potenze straniere come gli Stati Uniti e l’ex URSS hanno fatto deviare più volte il corso della storia, condizionandone gli eventi. Non dimenticate che l’Italia era, durante la guerra fredda, il campo di battaglia fra l’Occidente e il blocco comunista. I fondi neri (per finanziare illecitamente i partiti e per ogni altro genere di impiego delittuoso) ci sono sempre stati (dopo è arrivata anche la depenalizzazione del falso in bilancio, per nasconderli meglio), così come le associazioni segrete e massoniche (loggia P2, Gladio, Gladio rossa, Grande oriente). La corruzione e il malaffare hanno costituito e tutt’ora costituiscono la trama e l’ordito sul quale si muovono interessi di pochi a scapito di molti, lobbies partitico – affaristiche e subdoli personaggi in cerca di notorietà e successo, che imperversano riempiendo le cronache (tangentopoli, il crac del Banco ambrosiano, lo Ior, il crac Parmalat, i furbetti del quartierino, le escort, quelli che ridevano durante il terremoto de l’Aquila, pensando all’affare della ricostruzione), stragi moderne, omicidi eccellenti e sparizioni misteriose continuano a restare impunite o praticamente tali in un lungo e sanguinoso elenco (strage di Piazza Fontana, strage di Piazza della Loggia, strage di Peteano, strage dell’Italicus, strage di Ustica, strage di Bologna, strage di San Benedetto Val di Sambro, incidente aereo di Mattei, omicidio di Pasolini, omicidio di Sindona, omicidio – suicidio di Calvi, rapimento omicidio Moro, sparizione di Emanuela Orlandi) e grazie a Dio, non ci siamo mai fatti mancare gli intrallazzi con la criminalità organizzata (il patto scellerato fra DC e Cosa nostra, la trattativa tra lo Stato e la Cupola all’epoca della deriva stragista mafiosa, le vicende del senatore Dell’Utri, quelle di Mangano, stalliere di Berlusconi, addirittura, i legami, presunti, perché ancora oggetto di indagini, tra la ‘ndrangheta e la Lega Nord).

Il presente affonda pesantemente le radici nel passato, così come il futuro le affonderà nel tempo presente.

Non c’era scampo, quindi? Non c’era davvero alcuna possibilità di poter vivere in un’Italia libera e indipendente, onesta e fondata sul lavoro, come recita la Costituzione? Dove personaggi loschi e delinquenti matricolati stiano davvero nell’unico posto in cui meritano di essere e cioè, in galera e non comodamente assisi in Parlamento (quando ci vanno)?.

E il futuro cosa ci riserverà? Se traiamo auspici dal presente e dal recente passato, probabilmente, anzi, senza probabilmente, ben poche speranze.

Povera Italia! Ancora serva e derisa, ancora divisa (1).

Ancora troppo simile a quella che era sotto gli stivali degli Austriaci.

Ancora uguale a quella cantata nel semisconosciuto Inno nazionale.



  1. Noi fummo da secoli calpesti, derisi
    perchè non siam popoli
    perchè siam divisi
    (Inno, Goffredo Mameli 1847)

domenica 13 marzo 2016

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L'alba si è levata indolente e livida. Stamattina il cielo è una lastra d'acciaio che si chiude sulla baia. Gabbiani stridono in volo sul moto perenne del mare e il loro verso è quasi un'accusa al sole che non c'è. Ho infilato il mio maglione bianco e sono sceso in spiaggia. Il vento è quasi insopportabile e lo sguardo di Dick sembra chiedermi se abbiamo fatto bene a uscire con questo tempo. Raccatto un pezzo di legno portato dal mare e lo tiro lontano. Una felicità inattesa scioglie i suoi dubbi e i suoi muscoli. Scatta come un levriero, anche se non lo è, e in pochi secondi raggiunge il bastone e me lo riconsegna, tutto fiero della sua impresa.

Mi avvicino alle onde attento a non bagnarmi i piedi e nel momento in cui il mare si ritira lasciando una coltre di spuma, mi sporgo e tuffo una mano in acqua e con quella mi bagno la fronte, la bocca e il petto come per invocare una benedizione marina. L'acqua è gelida, affondo la mano nel calore della tasca, ma ci metto un po' a scaldarla.

Il giornale di ieri svolazza nel vento come un aquilone imperfetto. Siamo soli, gli unici idioti a sfidare il vento, e di sicuro ci aspetta un bel raffreddore, ma siamo felici, Dick e io. Felici della reciproca compagnia, di questa spiaggia deserta e di questo vento che mi manda la sabbia negli occhi e gli fa rizzare le orecchie e il pelo come se avesse dei fili attaccati, le cui estremità sono in mano a un burattinaio. E' buffissimo e quando rido lui si volta a guardarmi con un'aria vagamente offesa che mi fa ridere ancora di più.

E queste cosa sono? Dick drizza le orecchie.

Impronte, lievi passi sulla sabbia, footsteps in the sand (1). Di chi saranno? Io e Dick ci guardiamo con la stessa domanda negli occhi. La cosa strana è che le orme cominciano proprio qui, in mezzo alla spiaggia e da qui si dipartono verso le dune erbose, come se colui che le ha impresse fosse spuntato sull'arenile in questo punto preciso.

Dick codaritta pianta il naso nella sabbia, fiuta le impronte e d'improvviso parte. L'odore deve aver catturato la sua curiosità. Non è proprio una corsa in linea retta, zigzaghiamo qua e là a cavallo della lunga scia di orme, a volte torniamo indietro, altre lui si ferma e mi guarda come se non sapesse cosa fare. Ma le orme continuano.

Lo incito a proseguire, mettendo i piedi esattamente dove li ha messi il tizio che ci ha preceduto. Le impronte sono leggere, appena impresse sulla rena compatta, la superficie calpestata è decisamente minore della mia e così scompaiono sotto i miei pesanti passi. Penso che forse stiamo seguendo un bambino, una donna, oppure, un tipo mingherlino. E mi metto a fischiettare quella canzone che fa “...trying to walkin' in my shoes, trying to walkin' in my footsteps” (2).

Forza Dick, di questo passo non lo raggiungeremo mai, coraggio! Avanziamo contro il vento, che fa alzare la sabbia. Tiro su col naso, fa davvero freddo. Ma per quanto ci sforziamo, non si vede un'anima viva e comincio a credere che arriveremo ai confini del mondo senza trovare quello che cerchiamo.

E questo cos'è? Il muso di Dick ha smosso la sabbia e ne è emerso un cartoncino che raccatto. Ma guarda, una vecchia foto in bianco e nero, un po' gualcita, con gli orli bianchi merlettati, come usava tanti anni fa. Un uomo con la divisa mi guarda impettito, in posa. Che sguardo fiero! Sono quasi invidioso di quell'ardimentosa austerità che un'uniforme poteva conferire anche a un uomo qualunque. Altri tempi. Ma che ci fa una foto così antica in mezzo alla sabbia? A chi l'ha rubata il vento? La ripongo nello zaino in attesa della risposta e proseguiamo.

Dick è inquieto, i suoi occhi sono offuscati da una strana aria malinconica. A tratti solleva il muso e annusa l'aria, come se il vento portasse cattive notizie.

Mi fermo, ho visto qualcosa biancheggiare fra i cespugli di malva. Mi faccio strada fra i bassi cespiti e mi avvicino. E' un fazzoletto impigliato in mezzo ai rami. Lo raccolgo. Lo stringo nel palmo, è piacevole al tatto, la seta è morbida, sembra nuovo di manifattura. Lo avvicino al naso e un aroma dolce e ambrosiaco fiotta dentro le mie narici. Che buon odore. Cos'è? Mi pare qualcosa di vagamente familiare e lo faccio annusare anche a Dick. Lui affonda il naso nel fazzoletto e se la cava con uno starnuto che mi strappa una risata. Ma lesto ripianta il muso nella sabbia e continuiamo a seguire le orme. A questo punto, sono quasi certo che chi stiamo seguendo sia una donna, a meno che non si tratti di qualcuno che voglia approfittare del vento per farci uno scherzo.

Però c'è qualcosa che non va.

Dick è sempre più irrequieto, avanza di malavoglia, con la coda fra le gambe, soltanto per farmi piacere. E ogni tanto abbaia senza motivo.

Il cielo, il mare e la sabbia sono pervasi da un uniforme velo grigio, che ci opprime. Tuttavia continuiamo, voglio venire a capo di questo mistero.

Accidenti, sono inciampato. Dick mi guarda preoccupato, ma lo rassicuro. Ho preso un bel colpo sul dito del piede e ora mi fa un po' male. Mi ritorna in mente un verso della canzone che fischiettavo poco prima: ...you'll stumble in my footsteps... (3). Ma, in cosa, cavolo, sono incespicato? Ah ecco. Un sasso. E' una tipica pietra di mare, dalla forma perfetta, levigata dal paziente lavorio delle onde.

Insomma, una gran bella pietra e, con mio ampio stupore, sotto la pietra una busta. La prendo e me la rigiro fra le mani. Sono sbalordito e confuso. E' una lettera!

Oggi il vento fa cose davvero strane. Perfino mettere una busta sotto un sasso affinchè egli stesso non la spazzi via. Apro il plico, ne estraggo un foglio di carta scrocchiante, vergato fitto in inchiostro blu e leggo:


Mia diletta signora,

è purtroppo giunto il giorno della partenza; domani all'alba toglieremo gli ormeggi e questa lettera probabilmente vi raggiungerà quando ormai saremo al largo. Ho ordinato le manovre e impostato la rotta, la navigazione si preannuncia tranquilla. Ora sono chiuso in cabina a scrivervi queste righe e non posso fare a meno d'immaginarvi, in questo momento, distesa a letto accanto a vostro marito. E ciò mi appare profondamente iniquo. Lui, che appena si accorge di voi, che non vi rivolge la parola per giorni interi, che spreca le sue sere a giocare a carte al club, ha il privilegio di dormire al vostro fianco e magari permettersi di russare nella più assoluta indifferenza. E io, che vi amo sopra ogni altra cosa, più della mia stessa vita, non oso neppure incrociare il vostro sguardo, rivolgervi parole degne della vostra bellezza, sfiorarvi la mano.

Ma amare non è guardarsi l'un l'altra, amare è guardare insieme nella stessa direzione, come guardavamo il mare a Flooksburgh e non avevamo il coraggio di dichiararci. Il mare che guardavamo, domani lo lascerò dietro la poppa della nave e probabilmente maledirò le divinità marine perchè mi stanno allontanando da voi.

Thaìs, il vostro odore è ossigeno, il vostro nome è ossigeno. Non posso più fare a meno di voi, mi siete più cara dell'aria che respiro, dell'acqua che mi disseta, della luce che illumina i miei occhi.

Vi ricordate l'altra sera, al chiarore della luna, bionda Febe? Al riparo delle tenebre ascoltavamo quelli che credevamo i suoi gemiti – rammentate ancora la leggenda araba che vi ho narrato? (4) – ma in verità, erano i gemiti dei nostri cuori.

E' soltanto un giorno che non vi vedo e già la vostra assenza è insopportabile, il dolore è un cane che mangia il mio cuore.

Quando tornerò, affronterò vostro marito e gli dirò che vi amo. Poi, accada quel che deve accadere, non me ne curo. Quasi certamente mi sfiderà a duello, ne nascerà uno scandalo, forse vi ripudierà. Ma non abbiate alcun timore, ci sarà sempre per voi un rifugio caldo e sicuro fra le mie braccia.

M'ingegnerò di mettere ali alla mia nave, affinchè non navighi, ma voli sulle onde, così questo viaggio si concluderà in fretta e potrò sperare che quanto ho scritto si avveri molto presto.

Middleton, 12 novembre 1896                                               Sinceramente vostro

                                                                             Philip

Accidenti, questo si chiama scrivere! Questa lettera è un tesoro. La ripiego con cautela, la chiudo nella busta e la metto al sicuro nello zaino, insieme al fazzoletto.

Richiamo Dick, per tutto il tempo in cui leggevo se n'è rimasto accucciato ai miei piedi, strusciandosi contro le mie gambe, come se volesse sincerarsi della mia reale presenza, in qualità di essere in carne e ossa titolare di un corpo fisico, e continuiamo a seguire le impronte.

Non facciamo che pochi passi che avvistiamo qualcosa che rotola sulla rena, sospinta dal vento. Sembra una pallina. Dick scatta e la prende al volo tra le fauci. Per lui è un gioco e soltanto dopo averglielo chiesto con insistenza me la sputa in mano scodinzolando. E' una palla di carta. La pulisco dalla bava di Dick e dai granelli di sabbia e la apro, distendendola ben bene e lisciandola sulla mia gamba.

Ma tu guarda!

E' un ritaglio di giornale. Un antico numero del Warton Morning Post, deve avere più di cent'anni. Naturalmente è molto stropicciato, e umido, per il breve soggiorno nella bocca del cane, ma soprattutto per la vicinanza all'acqua salata. Quante cose strane si trovano oggi sulla spiaggia! C'è chi va in cerca di conchiglie, chi di sassi e chi si accontenta di scorgere strane forme in pezzi di legno sputati dal mare. Io non vado in cerca di niente, eppure sto trovando indizi. Ne potrebbe venir fuori un bel racconto. La carta è assai ingiallita e l'inchiostro molto scolorito, alcuni caratteri sono letteralmente volati via, come spazzati dalla furia del tempo, ma con un po' di sforzo riesco a leggere.

Abbandonate le ricerche della Albemarle.
E' in arrivo un fronte temporalesco dall'Irlanda e si preannuncia mare in tempesta e venti a forza sei. All'alba di stamane sono stati ritrovati al largo alcuni barili con impresso il nome della nave, assi rotte e un pezzo dell'albero maestro. Finora non si è avuta notizia di sopravvissuti (ma si spera che alcuni possano essere stati tratti in salvo da pescherecci di passaggio), e dunque dei cento uomini d'equipaggio neppure l'ombra, come fossero stati inghiottiti dal mare insieme alla nave. Più passa il tempo più s'affievolisce la speranza di ritrovarne qualcuno ancora in vita, magari aggrappato a un rottame galleggiante. A quanto si sa, l'Albemarle ha fatto perdere le sue tracce in vista dell'isola di Man, in condizioni meteorologiche ottimali, mentre navigava con mare calmo e visibilità più che buona. Il Ministero della Marina mercantile ha ordinato l'apertura di un'inchiesta, ma da quanto si è appreso dal nostro corrispondente a Londra, pare che i Lloyds diano ormai per scontato il naufragio del piroscafo e si siano rassegnati a pagare il risarcimento all'armatore.

La storia cresce e si arricchisce passo dopo passo, seguendo queste impronte, ma di chi le ha impresse continua a non scorgersi neppure l'ombra. Anche noi avanziamo passo dopo passo, sperando di scoprire il mistero, o l'inganno, su questo piattume monotono e assurdo, che sembra un po' il fondo del mare. Infatti, come palombari muniti di scafandro, bardati di tutto punto e zavorrati alla bisogna, ci muoviamo lentamente e con goffi gesti controvento.

Oggi il vento sta facendo di questo litorale che conosco come la mia stessa vita un luogo stranissimo, fuori dal mondo, come se fosse su un altro pianeta. Mi par di vivere in un mondo ibrido, dove cielo, terra e mare non hanno confini precisi; allora, in un giorno di vento come questo, sotto un cielo impassibile nel quale nuvole grigie corrono a perdifiato sul mare, può accadere davvero di tutto.

Anche che io confonda il reale con l'immaginato, credendolo più vero della realtà stessa.

Sarà per questo che mi sembra di veder qualcosa, lontano lontano, una macchia grigia all'orizzonte, una figura vagamente umana che si confonde con il profilo della costa, o è soltanto sabbia negli occhi?

Affrettiamo il passo. La figura s'ingrandisce un altro pò.

Ma si, c'è qualcuno di fronte a noi, appena appena riconosco che è una donna, con un lungo vestito bianco e un ombrellino per proteggersi dal sole. Ma che ci fa quella signora così bardata sulla spiaggia con questo vento, mi chiedo. Ma poi mi rendo conto che il suo vestito non ha pieghe, non è scosso dal vento, i suoi capelli sembrano di lava solidificata, l'ombrello non si muove.

La chiamo, fischio, le faccio dei cenni, Dick abbaia, ma la signora non si volta. Ora corriamo, ma per quanto sia lento il suo incedere, dev'essere più veloce della nostra corsa, perchè non riusciamo a raggiungerla. Ma la signora in bianco, dopo aver costeggiato una duna, è svanita dietro il suo profilo. Finalmente arriviamo, ma non c'è anima viva, niente di niente, come se la dama biancovestita fosse stata risucchiata dalle sabbie mobili, o se la sia portata via il vento, e comincio a credere che non mi sono ancora svegliato e sto sognando. Però, nel punto esatto in cui è scomparsa c'è una piccola lapide ingrigita dal tempo. Affiora appena dalla sabbia, è quasi tutta ricoperta dalle erbacce e lavoro un po' per liberarla. E finalmente riesco a leggere.

Questo è il punto esatto del naufragio della Albemarle, 30 miglia a ovest al largo di questa insenatura.
Nessuno sopravvisse.
Viandante che t'imbatti in questo cippo sussurra al vento una preghiera.
Possa il mare donare la pace alle loro anime.

Morecambe Bay, 14 novembre 1896



Io e Dick ci guardiamo. E' ora di tornare a casa.
Ora lo so. Ora ne sono certo. E rabbrividisco. Chissà se Dick pensa la stessa cosa.

Abbiamo inseguito un fantasma.



(1) Impronte di passi sulla sabbia, da Racconti narrati due volte (titolo originale Twice told tales) di Nathaniel Hawthorne.

(2) Si tratta di Walking in my shoes, tratta da Songs of faith and devotion, dei Depeche Mode. In realtà, la canzone fa:
Try walking in my shoes   Prova a camminare nelle mie scarpe

You'll stumble in my footsteps          Inciamperai nei miei passi
If you try walking in my shoes. Se provi a camminare nelle mie scarpe

(3) Inciamperai nei miei passi, vedi nota (2).

(4) Secondo un'antica leggenda araba, nelle notti più silenziose è possibile ascoltare i gemiti della Luna, una creatura fattasi pietra, ma che nel profondo del suo cuore di roccia palpita ancora.

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sabato 12 marzo 2016

Cowboy e indiani


Quand'ero piccolo si giocava a cowboys e indiani, ma per fare i visi pallidi c'era la fila, mentre dalla parte dei pellerossa il vuoto. Perchè i cowboys erano i buoni e gli indiani i cattivi.

Dunque per assegnare i ruoli si veniva inevitabilmente alle mani e paradossalmente i cattivi (quelli che menavano senza pietà e a tradimento) si accaparravano la parte dei buoni e i buoni (quelli che le prendevano) si rassegnavano a fare la parte dei cattivi.

Anche a quell'acerba età c'erano già le logiche denunciate così bene da Bertolt Brecht: “Ci sedemmo dalla parte del torto perchè da quella della ragione non c'era più posto”. E così anch'io e i miei piccoli amici sconfitti ci sedevamo dalla parte degli indiani, perchè quella dei cowboys era già occupata.

Ma stare dalla parte degli indiani non era poi tanto male. Con lo sputo ci attaccavamo spine e foglie di rosa in viso e potevamo ululare e fare i selvaggi quanto ci pareva. I cowboy, prigionieri della parte, non potevano farlo. Li vedevamo, seri e scuri in volto, ciondolare intorno a Fort William (difeso da formidabili mura di cartone) cercando di escogitare astute strategie di guerra. Dopo le battaglie tornavamo all'accampamento; ci dissetavamo, curavamo le ferite, prendevamo moglie. Le nostre squaw avevano i capelli neri e qualcuno se ne innamorava sul serio.

A furia di fare l'indiano, mi affezionai al personaggio e per impersonare la parte del cattivo non era neppure necessario che le prendessi. Mi offrivo volontario. Quando guardavo i western tifavo automaticamente per i pellerossa contro il Settimo Cavalleggeri ed esultavo quando Nuvola Rossa incoccava l'arco e stendeva un bel po' di bianchi, mentre il Generale Custer mi faceva schifo e pietà. Questo mio parteggiare per le fazioni sbagliate creava sconcerto negli adulti, ma all'epoca nessuno di loro aveva visto Soldato blu. Dopo, la poetica del west non sarebbe più stata la stessa.

Sarà forse per questo che ancora oggi prendo regolarmente le parti dei cattivi e dei perdenti, che, spesso, coincidono. Perchè la storia la fanno i vincitori, che si siedono sempre dalla parte della ragione e decidono chi è il buono e chi il cattivo.

E senza menare nessuno. Non ne hanno bisogno.


domenica 6 marzo 2016

Gli scarafaggi sanno volare?


Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.

Questo è il memorabile incipit de La metamorfosi di Franz Kafka. Poche righe, scritte come se si trattasse della normalità, ci precipitano nell'orrore.

Ma, secondo Vladimir Nabokov (1), l'autore di Lolita, Gregor Samsa non si accorse di una cosa, e lo scrittore non ne fa cenno.

Kafka è spesso reticente, non dice, e quello che dice non spiega, nascondendolo sotto uno strato di assurdità e anomalia. Il nostro Franz lavorava per contrazione e decostruzione. La sua era scrittura per sottrazione. Egli ci scaraventa dentro le sue storie e lì ci lascia a marcire, fra i mille dubbi che c'insinua nella mente, ma che non chiarirà.

A partire da un determinato scenario, egli spoglia il testo e lo scarifica fino all'osso, pare quasi impersonare nella letteratura il ruolo dell'aquila che dilania Prometeo incatenato alle rocce del Caucaso (Prometeo, 1918) o l'avvoltoio che assale il viandante (L'avvoltoio, 1920), ma invece di divorare le strutture interne o i piedi della narrazione, egli sottrae pluralità di significati alla scrittura, fino a gettarla sotto una nuova luce, tetra e sinistra, che il più delle volte si rivela insopportabile. Insopportabile perchè mette a nudo, sotto quella luce spietata, il dramma della natura umana alle prese con le angosce della modernità.

Siamo nel pieno degli incubi del Novecento. Kafka scrisse La metamorfosi nel 1912, di lì a poco sarebbero arrivati i massacri della Prima guerra mondiale, i regimi dittatoriali, e poi la Seconda guerra mondiale, i campi di sterminio, i gulag e le foibe, e questa serie nefasta di morte e distruzione non si è interrotta all'ingresso del nuovo millennio, anzi ne ha oltrepassato la soglia ed è proseguita con altre guerre, altri campi di concentramento e altri massacri. Il Secolo Breve, ma anche l'inizio del Secondo Millennio, a quanto è dato vedere, sono la crisi dell'individuo stritolato negli ingranaggi del collettivo, la spersonalizzazione, l'inquietudine, la colpa oggettiva, che scatena la punizione per un delitto che non conosciamo, non comprendiamo o non abbiamo commesso e la deumanizzazione: prendere un uomo e ridurlo a bestia, trasformarlo in qualcos'altro, attraverso l'incubo che diviene reale, l'esperimento del non-uomo nei lager (2). I tempi moderni sono una sorta di incubo, dal quale non riusciamo a svegliarci e l'incubo dal quale non sappiamo o non possiamo uscire, Borges lo chiama inferno.

Ma torniamo alla metamorfosi di Gregor Samsa e proviamo a scoprire anche noi quello che secondo Nabokov, Kafka non ci rivela.

Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta da letto, vicina a scivolar via tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi.

Abbiamo sempre pensato che Samsa si svegliasse trasformato in scarafaggio. E invece, non è così. Kafka non usa parole a caso, la sua descrizione è molto precisa, chirurgica, oserei dire. Sta parlando di una specie di coleottero gigantesco e rivoltante. Ma, ogni coleottero che si rispetti, sotto le elitre, che sono placche cornee del dorso, nasconde le ali.

Gregor Samsa poteva volare!

Poteva spiccare il volo e guardare dall'alto la sua piccola vita di commesso viaggiatore. E a mio parere, la pesantezza del suo stato, la sua penosa situazione, dipendeva strettamente dall'assenza di rivelazione. Gregor Samsa avrebbe potuto incontrare il satori nella sua nuova dimensione di insetto alato. Nel suo caso, paradossalmente, l'incubo si sarebbe trasformato nel sogno della liberazione. A Gregor è stata data una possibilità, un'occasione irripetibile. Ma egli non la coglie. Non solo Samsa non vola via, ma finisce i suoi giorni imprigionato nel suo esoscheletro da insetto.

In generale, nella metamorfosi del commesso viaggiatore, io leggo la metafora dell'ignoranza, dell'incoscienza, intesa come non conoscenza della dimensione umana. Gregor Samsa non sa di poter volare, esattamente come noi non sappiamo di poter vivere.

L'inconsapevolezza della nostra vera natura c'inchioda al destino dell'insetto.



(1) In Lezioni di letteratura.

(2) Sbalorditivo è, a questo proposito, il racconto Di notte che, malgrado sia stato scritto da Kafka nel 1920, pare sinistramente profetico nel descrivere qualcosa di molto simile a campi di concentramento. “...in una regione desolata, un campo all'aperto, un numero sterminato di uomini, un esercito, un popolo, sotto un cielo freddo sopra la terra fredda, buttati là dove prima erano in piedi...”.


sabato 5 marzo 2016

Una situazione imbarazzante

 



Un’altra notte rubata al sonno” pensò Zenobia sbadigliando e invidiò Penny, la cagnetta sdraiata ai suoi piedi. Le accarezzò la testolina morbida e lei guaì nel sonno. Si alzò a prendere un bicchiere d’acqua in cucina. Il monitor del notebook depositava sulla scrivania un arco di luce bluastra. Stava per spegnerlo, quando si accorse che un’icona del sito di incontri on line al quale era collegata, lampeggiava.

Era un messaggio in arrivo!

Ciao Psyche,

ho trovato il tuo profilo molto interessante e vorrei tanto conoscerti.

A presto, spero.

Pompey

Senza indugio, Zenobia cercò la pagina che corrispondeva al mittente e gli comparve subito davanti. I suoi occhi scorsero in velocità i dati personali: altezza un metro e ottanta, occhi neri, capelli neri e ricci, fisico atletico, età trentacinque, single. Certo era un po’ più giovane di quello che si aspettava, ma alla sua età non era il caso di fare troppo la sofisticata. E poi, di coppie con lei matura e lui più giovane se ne vedevano ormai di frequente.

Incuriosita, aprì la cartella che conteneva le foto del profilo di Pompey e saltò sulla sedia. Era un uomo di colore! Guardò le immagini, alquanto delusa. Certo era un bel ragazzo, alto, muscoloso e con certi occhi da far battere forte il cuore. Uno così se lo sarebbe mangiato di baci. Ma era nero. E poi, perché mai si era interessato proprio a lei, con le migliaia di donne della sua età, e magari anche più giovani, disponibili su quel sito? Ma, si era accorto che lei era bianca? Zenobia ci rimuginò su e si ricordò che quando si era iscritta aveva dovuto specificare la sua etnia, quindi sì, Pompey doveva sapere che lei aveva la pelle chiara.

Zenobia non aveva voluto allegare foto al suo profilo, lo aveva ritenuto sconveniente per una signora di mezz’età e poi, riteneva che se qualcuno avesse provato un vero interesse per lei, l’aspetto fisico sarebbe stato secondario – in verità, si sentiva molto insicura di sè e si era riproposta di palesarsi soltanto se si fosse imbattuta in un interlocutore interessato.

D’un tratto sobbalzò sulla sedia. Si era dimenticata che redigendo il suo profilo, alla domanda “Quanti anni hai?” – che impudenti chiedere l’età a una signora! – aveva risposto: trenta! Ecco spiegato l’interesse di Pompey per lei.

E ora, che fare?

Zenobia ci riflettè su. Pensò al suo deserto interiore, alla sua immensa solitudine, a quanto tempo era passato dall'ultima volta che un uomo l'aveva guardata negli occhi e stabilì che si sarebbe venduta anche l’anima per una carezza. Sul profilo del ragazzo dal volto d'ebano lampeggiava una luce verde: significava che era on line. Dunque Pompey esisteva, da qualche parte della città, fra le mura dei palazzi e il buio della notte, invisibile e disperso nei milioni di gigabytes e, questa era la cosa importante, si stava interessando a lei. Il suo cuore prese a battere forte e le si azzerò la salivazione.

Su Zenobia, avanti, clicca sulla lucetta verde!

E come faccio a dirgli che non sono una sua coetanea, che mi sono decurtata d’un solo colpo vent’anni?

Su Zenobia clicca, avanti clicca, maledizione! Qualcosa t’inventerai, ci penserai più tardi. E poi, che vuoi che sia una misera chiacchierata, un’innocente chat nel cuore della notte!

Dai clicca!

Anche Penny guaì nel sonno, come per incitarla. La sua mano scivolò lenta sulla scrivania e si appropriò del mouse, l'indice cliccò sul tasto sinistro e partì la conversazione.

Psyche: Ciao, disturbo?

Nessuna risposta.

Psyche: Ciao Pompey, ci sei?

Pompey probabilmente era uscito e si era dimenticato di chiudere il collegamento. O forse, si era addormentato davanti allo schermo.

Vabbè, ci ho provato, pensò Zenobia.

In quell’istante Pompey si materializzò.

Pompey: Ciao Psyche, nessun disturbo.

Psyche: temevo che fossi impegnato. Ho letto il tuo messaggio ed eccomi qui!

Pompey: bene, è proprio quello che speravo.

La conversazione proseguì lieve e scorrevole. Le ore passavano e Pompey si era rivelato una persona piacevole, colta e discreta. Era americano, aveva viaggiato molto per lavoro, si trovava da qualche mese in città e non conosceva ancora nessuno. Zenobia era felice di aver ascoltato la voce della sua incoscienza, che l’aveva incitata a cliccare sulla lucetta verde. Finchè comparve sullo schermo il seguente messaggio:

Pompey: mi piacerebbe tanto vedere come sei.

Zenobia trasalì, ma non si fece sopraffare dall’ansia.

Psyche: sono normalissima, né bella né brutta, insomma, una donna ordinaria.

Pompey: secondo me, ordinaria non lo sei di sicuro. Insisto per vedere almeno il tuo volto.

Psyche: ma no, non ti perdi niente.

Pompey: Allora, ascolta cosa ti propongo.

Il respiro di Zenobia si fece affannoso, il suo petto si sollevava e abbassava velocemente di fronte al monitor, era in preda al panico, ma si dominò e trovò la forza di rispondere.

Psyche: sentiamo.

Pompey: domani mi mandi la tua foto. Usa la mail del mio profilo.

E adesso?” disse Zenobia, svegliando la cagnetta.

E adesso qualcosa ti devi inventare, le rispose Psyche. Digli che va bene, domani ci penserai.

Che situazione imbarazzante! No, non posso, è meglio chiuderla qui, pensò Zenobia.

Dai Zenobia, dai, quando ti ricapiterà una simile occasione, dai digli di si! insistè Psyche.

Ci mise un pò a battere quelle sei lettere più lo spazio sulla tastiera, ma, tremando e ondeggiando sulla sedia, lo fece.

Psyche: va bene.

Pompey: ne sono felice. Allora ci ritroviamo domani in chat alla stessa ora. Ok?

Psyche: va bene Pompey.

Pompey: ora devo lasciarti. Dolce notte Zenobia.

Psyche: ‘Notte Pompey.

Il suo cuore ebbe un sussulto. Aveva forse trovato l’amore! Bé, se non proprio l’amore, almeno una persona interessante con cui parlare. Spense il notebook e se ne andò a letto.

Quel poco che restava della notte lo passò fra sogni a occhi aperti tra le braccia del misterioso ragazzo di colore, dai quali si risvegliava angosciata per quello che l’aspettava l’indomani. Avrebbe dovuto trovare il modo di risolvere il contrasto fra l’età dichiarata e quella reale, senza perdere Pompey. Ci voleva un miracolo!

Il chiarore che filtrava fra gli scuri indicava che il giorno fatidico era già sorto e gettava una luce sinistra sulle sue ansie, senza che avesse trovato una soluzione.

Povera Zenobia, si disse, in che guaio ti sei cacciata!

Il caffè era più amaro del solito, nonostante i molti cucchiaini di zucchero e lei trasaliva a ogni lampeggiare del suo notebook, al terrore che Pompey avesse scoperto l'inganno. Ma guardando fuori dalla finestra si perse ancora in dolci sogni nei quali lui la stringeva fra le sue braccia possenti, bello e scuro come la notte.

All’ora di pranzo, non aveva ancora capito come uscire da quell’insolita situazione e per distrarsi si mise a guardare le foto che conservava nella sua cartella personale del pc dell'ufficio. Erano istantanee delle vacanze al mare e, fra un’immagine e l’altra, comparve Diana, la figlia della sua migliore amica, Lilia.

Diana aveva trent’anni, i capelli biondi e gli occhi verdi e una strana somiglianza con lei, tanto che le sue amiche sostenevano che avrebbe potuto essere sua madre. Solo alcune rughe e grinze, la scrittura inesorabile del tempo sui volti, potevano far distinguere l’una dall’altra. Zenobia trasalì. La soluzione era davanti ai suoi occhi. Quella foto era una via d’uscita, quei pixel rappresentavano la sua salvezza, la possibilità di proseguire la relazione, se così si poteva chiamare quel rapporto che stava intessendo, con Pompey.

Ma no, non posso mettere di mezzo altre persone, Diana non me lo permetterebbe mai, si disse Zenobia. E poi dovrei renderne conto a Lilia, perderò la sua amicizia!

Non preoccuparti, hai trovato una eccellente soluzione e altre ne troverai. Dai, spediscigli la foto.

Diana le sorrideva dallo schermo, mostrando un corpo seducente e il sole le pioveva sul viso, sui seni e sui fianchi, modellando con delicatezza il suo profilo.

Sembrava proprio che quella frase l’avesse pronunciata lei e non la sua incoscienza.

Zenobia finì per darle retta.

Il tempo non passava mai, tentava di lavorare ma si scopriva ogni volta incagliata nelle sue fantasticherie a occhi aperti, non riusciva a stare al computer, a sopportare le mura dell’ufficio. Ogni pensiero era per Pompey, nella sua testa non c’era posto per altro e invocava che venisse presto il buio, non solo perché a quelle ore di tenebra si sarebbe trovata ancora con lui, ma anche perché era il colore della pelle del suo nuovo dio.

Un'icona sul monitor lampeggiò. Le era arrivata una mail.

Sei bellissima!

Pompey.

E’ fatta, pensò, stasera lo sentirò ancora. Era raggiante e non pensò ad altro che a quello, la sua mente non voleva in alcun modo riflettere sulle implicazioni e le conseguenze, piuttosto imbarazzanti e pericolose, del suo comportamento. Il suo cuore vi opponeva un netto rifiuto e il suo cervello gli dava ascolto, accantonando sistematicamente quei pensieri.

Pompey: Toc, toc!

Zenobia trasalì, era in anticipo.

Psyche: avanti, entra pure, ho lasciato aperto!

Pompey: Grazie! Ti ho pensata per tutto il giorno e non vedevo l’ora di sentirti.

Psyche: anch’io.

Le loro parole scorrevano attraverso le fibre ottiche come scintille di elettricità attraverso i neuroni ed erano parole d’amore, parole di due perfetti sconosciuti che si dichiaravano amore eterno senza essersi mai visti prima! E, orrore, si davano appuntamento per il giorno dopo.

Zenobia piangeva dentro il letto. “Come ho fatto, come ho fatto a mettermi in questa situazione?” gemeva. “Non ho più vent’anni e neppure trenta.” sospirò. “Ma è così bello!”. Affondò la testa nel cuscino.

Quando si svegliò era giorno fatto, si era addormentata come un peso di piombo che precipita in fondo a un pozzo. Stavolta, aveva dormito della grossa, non aveva neppure sentito la sveglia. Era in ritardo!

Che ti succede Zenobia, ti stai assuefacendo alla menzogna e all’inganno? sembrò schernirla una voce da dentro. Ma non era la stessa voce che, fino al giorno prima, l’aveva incitata a proseguire su quel percorso insidioso come un filo sottile teso sul vuoto? Si, era proprio quella voce. Ma come mai, ora, si prendeva gioco di lei?

Non mi prendo gioco di te, Zenobia. Voglio solo che tu sia felice, disse Psyche.

Sbeffeggiandomi e deridendomi? Bel modo di prendersi cura di me.

Ora, però, era giunto il momento di mettersi all’opera. Telefonò a Diana e, con una scusa qualunque, la invitò a pranzo, raccomandandole di non riferire a nessuno del loro incontro, ma facendole intuire che aveva importanti novità da confidarle. Diana accettò con entusiasmo. Era una ragazza molto curiosa.

Zenobia aveva fatto tutto da sola, nessun suggerimento era pervenuto dalla voce dell’incoscienza, che, anzi, se ne stette per tutto il giorno stranamente zitta e quieta. Forse era talmente progredita sulla via dell’inganno, della truffa e del raggiro, da non averne più bisogno, da non sentirla più, come la voce di qualcuno che ci lasciamo dietro perché corriamo più veloci. O semplicemente perché Psyche non aveva più nulla da insegnarle.

Diana era bellissima, a Zenobia parve di guardarsi in uno specchio del tempo, che rifletteva la sua immagine di vent’anni prima. Come erano stranamente somiglianti!

In breve, Zenobia le spiegò quanto le era accaduto.

Diana l'ascoltava con gli occhi sbarrati e una strana espressione sul bel volto.

Ecco, ora ti ho detto tutto” concluse fra le lacrime.

Dovrei essere arrabbiata” disse dopo un po' Diana. “Eppure, per quanto mi sforzi, non riesco a provare irritazione nei tuoi confronti. Certo, quello che hai fatto è riprovevole, quasi non ti riconosco. Però, in fin dei conti, sono felice per te.”

Davvero?” disse Zenobia asciugandosi le lacrime e tirando su col naso “Davvero non sei arrabbiata con me?”

Si, e ho deciso che porterai a termine la tua farsa. E io ti aiuterò” e le sorrise con la più profonda malizia che potevano esprimere i suoi occhi verdi.

Zenobia trasalì. Vi lesse il suo stesso fervore, la sua stessa perversa furbizia. Quegli occhi erano così simili ai suoi. D’un tratto sussultò ancora, un pensiero le attraversò l'anima come un fulmine: E’ Psyche che parla attraverso di lei?

Si accordarono come due complici che preparano un delitto: l’ora, il luogo, cosa avrebbe detto l’una, cosa l’altra, quello che avrebbero indossato. Si misero d’accordo su tutto, sincronizzarono persino gli orologi. Il loro piano era semplice e ben congegnato.

Diana avrebbe dovuto conquistare l'americano e lasciarsi sedurre a sua volta. Ma, sul più bello, avrebbe ceduto il posto a Zenobia, che per l’occasione si sarebbe vestita e truccata in modo da somigliare in tutto e per tutto a Diana, cercando così di spazzarsi di dosso buona parte degli anni che le separavano; a quello scopo, avrebbero sfoggiato perfino la stessa acconciatura. Così, Pompey avrebbe rovesciato la sua passione su Zenobia, mentre Diana scivolava via furtiva e scompariva nella notte.

Zenobia arrivò trafelata all’ingresso del ristorante, ma riprese fiato accorgendosi che era in anticipo. Si rimise in ordine davanti alla vetrina lustra che le rimandava indietro la sua immagine e le luci della notte. E trasalì. Le era sembrato per un attimo di aver visto Diana nei riflessi di quello specchio improvvisato. Rassicurata dal proprio aspetto, entrò e con una scusa si diresse al bagno delle signore.

Zenobia controllò l’orologio. Erano almeno due ore che era rinchiusa nel cesso e non le era arrivata ancora alcuna notizia da parte di Diana. Controllò il cellulare e non seppe resistere alla tentazione di inviarle un sms.

Nessuna risposta. Ne spedì, un altro e poi, un terzo e un quarto e ancora e ancora finchè non ne perse il conto. Ma ancora nessuna risposta. Stava accadendo qualcosa, lo sentiva, le cose non stavano andando per il verso giusto. Forse Diana si trovava in una situazione imbarazzante, poteva essere addirittura in pericolo. Allora decise di andare a controllare. Uscì con cautela dal bagno e vide Diana e Pompey che finivano di cenare. Si diresse allora a un tavolo vicino, ma protetto da alcune piante lussureggianti che prosperavano in vasi disposti l’uno accanto all’altro e, protetta da quella verde cortina, sbirciò dall’altra parte.

Per poco, non cascò dalla sedia. Quei due amoreggiavano come piccioncini. Pompey teneva la mano di Diana e lei si scioglieva nei suoi occhi. Parlavano a bassissima voce, sussurravano e sorridevano. Zenobia non capiva nulla di quanto si dicessero, ma poteva immaginarlo.

Prese il telefono e compose un messaggio con le dita che le tremavano:

Cosa diavolo stai combinando? Non erano questi i patti! Vediamoci in bagno. ORA!!!

Zenobia sentì chiaramente, attraverso le fronde, il segnale acustico del telefono di Diana che la avvisava del messaggio in arrivo. Lei prese la borsetta, ma non l’aprì. Si preparavano a lasciare il locale. Zenobia aspettò che Pompey pagasse il conto e li seguì. O almeno, tentò di farlo, perché una voce alle sue spalle fece: “Ehm… ehm…” Zenobia si voltò. Era il cameriere. Si ricordò soltanto allora che, non solo non aveva bevuto il drink che aveva ordinato quando era arrivata, ma non l’aveva neppure pagato.

Aprì la borsetta, tirò fuori una banconota e la mise in mano all’uomo dal farfallino, affrettandosi a uscire. Ma i due non avevano fatto tanta strada, si erano fermati a scambiarsi effusioni nel parcheggio del ristorante, appoggiati all’automobile di Diana. Lei gli stava avvinghiata come un polpo, e pure la sua mano armeggiava con la portiera e in qualche modo riuscì ad aprirla e a spingerlo dentro. Poi anche lei lo seguì all’interno della vettura e mise in moto.

Anche Zenobia salì sulla sua auto, le passarono proprio davanti mentre avviava il motore. Vide chiaramente Diana alla guida, ma questa non la degnò di un solo sguardo.

La ragazza guidava male, l’autovettura zigzagava a cavallo della linea di mezzeria e Zenobia accelerò per capire cosa stesse accadendo. Dal lunotto appannato vide ombre orribilmente aggrovigliate.

In qualche modo, si diressero verso la periferia e s'infilarono nel parcheggio dello scalo ferroviario. Zenobia li seguì a fari spenti e parcheggiò molto vicino a loro.

L’automobile ondeggiava spaventosamente e più volte sembrò sul punto di rovesciarsi. Attraverso i vetri offuscati Zenobia scorgeva ombre, profili, sagome di corpi scuotersi e agitarsi e montare l’uno sull’altro e poi improvvisi capovolgimenti di fronte. Senza dubbio, i due cuoricini erano stati presi dalla più bruciante e fulminea delle passioni e si consumavano in selvagge effusioni. Ma l’americano sapeva già la verità? si chiedeva. Sapeva che quella donna non era Psyche? E per quale motivo Diana si stava comportando a quel modo? L’aveva completamente dimenticata!

C’era soltanto una spiegazione e quell'evidenza le faceva male da morire. Calde lacrime presero a rigare il suo volto, piangeva così mestamente che ognuno di noi, se fosse stato in zona, si sarebbe affrettato a consolare quella donna. Ma non c’era nessuno nei paraggi, soltanto lei, Pompey e Diana. Se almeno si fosse portata dietro Penny, lei capiva ogni suo stato d’animo, ogni suo cambiamento d’umore, era così sensibile. Ma era sola, anche Psyche l’aveva abbandonata.

La vettura smise di vacillare e cigolare. Non si scorgeva più alcun movimento all’interno dell’abitacolo. Poi, si aprì una portiera e ne scese Pompey, stravolto e barcollante. S’infilò la camicia nei pantaloni, si passò una mano sul volto e si allontanò, guardandosi intorno. Zenobia lo vedeva sparire uscendo dall’alone giallastro dei lampioni e riapparire, sempre più piccolo, rientrandovi, finchè scomparve definitivamente nel buio.

Zenobia si precipitò dentro l’auto. Le sue lacrime erano finite da un pezzo e il suo dolore si era tramutato in rabbia, una rabbia infinita, spasmodica, crescente, che ne aveva preso il posto e stava per esplodere.

Come hai potuto? Come hai potuto farmi una cosa del genere?” urlò Zenobia con tutto il fiato che aveva in corpo. Il suo vestito, rimasto impigliato in una siepe di spine, si era strappato e ora un lembo biancheggiava da qualche parte nella notte.

Diana era adagiata sul sedile, con gli occhi chiusi e non le rispondeva.

Come hai potuto, Diana? Diana!”

La luna sorse con il suo carico d’argento, che profuse a piene mani nell’abitacolo e illuminò il volto di Diana. Era pallidissima, respirava a fatica.

Aveva un segnaccio livido sul collo. Erano le impronte di due mani, due mani grandi e forti. Mani da negro. In quel punto, all’altezza della carotide, la sua gola era come assottigliata e, orribile a vedersi, era ridotta alla larghezza di un polso. Un filo d’aria entrava a fatica nella faringe, quel sottile filo d’aria che Zenobia sentiva sibilare dalla sua bocca.

Ci ho provato… “ rantolava “Ci ho provato a fermarlo, credimi… “ Zenobia le teneva la testa sollevata. “… ma lui era più forte di me…”

Le asciugò il viso e le ravvivò i capelli.

Io non volevo, Zenobia, credimi… Io non volevo più, non era giusto. Pompey era per te… “ e la guardò fissa a occhi sbarrati.

Su, su non è niente… “ fece Zenobia “Stai tranquilla ora… “

La ragazza aveva adagiato il capo sulla sua spalla. Zenobia le accarezzò le gote e i capelli. La luna si nascose dietro una nube e rivolle indietro i suoi filamenti argentei. E sorse un’ombra sul volto di Diana. Zenobia sussultò. Soltanto allora capì che era morta. Fu come stringere fra le braccia il suo stesso cadavere. La scansò inorridita e il suo corpo si ricompose in una posa innaturale sul sedile del guidatore. Zenobia si precipitò fuori nella notte.

Cominciò a piovere. Sembrava un sogno a occhi aperti e anche la notte velata, la luna nascosta e Diana addormentata in un modo così insolito nell’auto parevano stranezze e anomalie che soltanto i sogni possiedono.

Zenobia si stropicciò gli occhi, si pizzicò le mani, si schiaffeggiò le gote, per vedere se c’era modo di svegliarsi. Il vestito le ciondolava lacero dai fianchi come una vecchia bandiera a mezz’asta e cercò di mettersi in ordine. Due dita del piede sinistro sbucavano dalla calza di nylon e si ricordò che aveva anche perso una scarpa. Era stanca e cominciava ad avere freddo. Si sedette sul cofano dell’automobile e chiamò a gran voce Psyche perchè l'aiutasse a uscire da quella situazione imbarazzante.



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Vi è un racconto dal titolo omonimo di Edgar Allan Poe (o Edgar Al Lampone, come dicono i miei figli), con i medesimi nomi dei personaggi, ma la mia storia è del tutto differente.

Personaggi:

Zenobia, il cui nick name in chat è Psyche. (Nel racconto di Allan Poe è Psyche Zenobia). Zenobia era anche il nome della regina di Palmira, la città nel deserto martirizzata da fantocci di uomini nascosti dietro una sigla bislacca e inverosimile, IsIs (due volte Isernia).

Psyche: il nick name di Zenobia, ma anche l'alter ego negativo, la voce dell'incoscienza.

Penny, la cagnetta, il nome occhieggia al dottor Moneypenny di Allan Poe (nel suo racconto la cagnetta si chiama invece Diana).

Diana, la figlia di Lilia, l’amica del cuore di Zenobia (nel racconto di Allan Poe è invece la cagnetta). E' una sorta di doppio di Zenobia, il suo doppelganger. Soltanto per inciso, Diana è anche uno dei cani della spedizione di Intorno alla luna di Jules Verne.

Pompey, lo sconosciuto di colore (In Allan Poe è il servo negro).