sabato 5 marzo 2016

Una situazione imbarazzante

 



Un’altra notte rubata al sonno” pensò Zenobia sbadigliando e invidiò Penny, la cagnetta sdraiata ai suoi piedi. Le accarezzò la testolina morbida e lei guaì nel sonno. Si alzò a prendere un bicchiere d’acqua in cucina. Il monitor del notebook depositava sulla scrivania un arco di luce bluastra. Stava per spegnerlo, quando si accorse che un’icona del sito di incontri on line al quale era collegata, lampeggiava.

Era un messaggio in arrivo!

Ciao Psyche,

ho trovato il tuo profilo molto interessante e vorrei tanto conoscerti.

A presto, spero.

Pompey

Senza indugio, Zenobia cercò la pagina che corrispondeva al mittente e gli comparve subito davanti. I suoi occhi scorsero in velocità i dati personali: altezza un metro e ottanta, occhi neri, capelli neri e ricci, fisico atletico, età trentacinque, single. Certo era un po’ più giovane di quello che si aspettava, ma alla sua età non era il caso di fare troppo la sofisticata. E poi, di coppie con lei matura e lui più giovane se ne vedevano ormai di frequente.

Incuriosita, aprì la cartella che conteneva le foto del profilo di Pompey e saltò sulla sedia. Era un uomo di colore! Guardò le immagini, alquanto delusa. Certo era un bel ragazzo, alto, muscoloso e con certi occhi da far battere forte il cuore. Uno così se lo sarebbe mangiato di baci. Ma era nero. E poi, perché mai si era interessato proprio a lei, con le migliaia di donne della sua età, e magari anche più giovani, disponibili su quel sito? Ma, si era accorto che lei era bianca? Zenobia ci rimuginò su e si ricordò che quando si era iscritta aveva dovuto specificare la sua etnia, quindi sì, Pompey doveva sapere che lei aveva la pelle chiara.

Zenobia non aveva voluto allegare foto al suo profilo, lo aveva ritenuto sconveniente per una signora di mezz’età e poi, riteneva che se qualcuno avesse provato un vero interesse per lei, l’aspetto fisico sarebbe stato secondario – in verità, si sentiva molto insicura di sè e si era riproposta di palesarsi soltanto se si fosse imbattuta in un interlocutore interessato.

D’un tratto sobbalzò sulla sedia. Si era dimenticata che redigendo il suo profilo, alla domanda “Quanti anni hai?” – che impudenti chiedere l’età a una signora! – aveva risposto: trenta! Ecco spiegato l’interesse di Pompey per lei.

E ora, che fare?

Zenobia ci riflettè su. Pensò al suo deserto interiore, alla sua immensa solitudine, a quanto tempo era passato dall'ultima volta che un uomo l'aveva guardata negli occhi e stabilì che si sarebbe venduta anche l’anima per una carezza. Sul profilo del ragazzo dal volto d'ebano lampeggiava una luce verde: significava che era on line. Dunque Pompey esisteva, da qualche parte della città, fra le mura dei palazzi e il buio della notte, invisibile e disperso nei milioni di gigabytes e, questa era la cosa importante, si stava interessando a lei. Il suo cuore prese a battere forte e le si azzerò la salivazione.

Su Zenobia, avanti, clicca sulla lucetta verde!

E come faccio a dirgli che non sono una sua coetanea, che mi sono decurtata d’un solo colpo vent’anni?

Su Zenobia clicca, avanti clicca, maledizione! Qualcosa t’inventerai, ci penserai più tardi. E poi, che vuoi che sia una misera chiacchierata, un’innocente chat nel cuore della notte!

Dai clicca!

Anche Penny guaì nel sonno, come per incitarla. La sua mano scivolò lenta sulla scrivania e si appropriò del mouse, l'indice cliccò sul tasto sinistro e partì la conversazione.

Psyche: Ciao, disturbo?

Nessuna risposta.

Psyche: Ciao Pompey, ci sei?

Pompey probabilmente era uscito e si era dimenticato di chiudere il collegamento. O forse, si era addormentato davanti allo schermo.

Vabbè, ci ho provato, pensò Zenobia.

In quell’istante Pompey si materializzò.

Pompey: Ciao Psyche, nessun disturbo.

Psyche: temevo che fossi impegnato. Ho letto il tuo messaggio ed eccomi qui!

Pompey: bene, è proprio quello che speravo.

La conversazione proseguì lieve e scorrevole. Le ore passavano e Pompey si era rivelato una persona piacevole, colta e discreta. Era americano, aveva viaggiato molto per lavoro, si trovava da qualche mese in città e non conosceva ancora nessuno. Zenobia era felice di aver ascoltato la voce della sua incoscienza, che l’aveva incitata a cliccare sulla lucetta verde. Finchè comparve sullo schermo il seguente messaggio:

Pompey: mi piacerebbe tanto vedere come sei.

Zenobia trasalì, ma non si fece sopraffare dall’ansia.

Psyche: sono normalissima, né bella né brutta, insomma, una donna ordinaria.

Pompey: secondo me, ordinaria non lo sei di sicuro. Insisto per vedere almeno il tuo volto.

Psyche: ma no, non ti perdi niente.

Pompey: Allora, ascolta cosa ti propongo.

Il respiro di Zenobia si fece affannoso, il suo petto si sollevava e abbassava velocemente di fronte al monitor, era in preda al panico, ma si dominò e trovò la forza di rispondere.

Psyche: sentiamo.

Pompey: domani mi mandi la tua foto. Usa la mail del mio profilo.

E adesso?” disse Zenobia, svegliando la cagnetta.

E adesso qualcosa ti devi inventare, le rispose Psyche. Digli che va bene, domani ci penserai.

Che situazione imbarazzante! No, non posso, è meglio chiuderla qui, pensò Zenobia.

Dai Zenobia, dai, quando ti ricapiterà una simile occasione, dai digli di si! insistè Psyche.

Ci mise un pò a battere quelle sei lettere più lo spazio sulla tastiera, ma, tremando e ondeggiando sulla sedia, lo fece.

Psyche: va bene.

Pompey: ne sono felice. Allora ci ritroviamo domani in chat alla stessa ora. Ok?

Psyche: va bene Pompey.

Pompey: ora devo lasciarti. Dolce notte Zenobia.

Psyche: ‘Notte Pompey.

Il suo cuore ebbe un sussulto. Aveva forse trovato l’amore! Bé, se non proprio l’amore, almeno una persona interessante con cui parlare. Spense il notebook e se ne andò a letto.

Quel poco che restava della notte lo passò fra sogni a occhi aperti tra le braccia del misterioso ragazzo di colore, dai quali si risvegliava angosciata per quello che l’aspettava l’indomani. Avrebbe dovuto trovare il modo di risolvere il contrasto fra l’età dichiarata e quella reale, senza perdere Pompey. Ci voleva un miracolo!

Il chiarore che filtrava fra gli scuri indicava che il giorno fatidico era già sorto e gettava una luce sinistra sulle sue ansie, senza che avesse trovato una soluzione.

Povera Zenobia, si disse, in che guaio ti sei cacciata!

Il caffè era più amaro del solito, nonostante i molti cucchiaini di zucchero e lei trasaliva a ogni lampeggiare del suo notebook, al terrore che Pompey avesse scoperto l'inganno. Ma guardando fuori dalla finestra si perse ancora in dolci sogni nei quali lui la stringeva fra le sue braccia possenti, bello e scuro come la notte.

All’ora di pranzo, non aveva ancora capito come uscire da quell’insolita situazione e per distrarsi si mise a guardare le foto che conservava nella sua cartella personale del pc dell'ufficio. Erano istantanee delle vacanze al mare e, fra un’immagine e l’altra, comparve Diana, la figlia della sua migliore amica, Lilia.

Diana aveva trent’anni, i capelli biondi e gli occhi verdi e una strana somiglianza con lei, tanto che le sue amiche sostenevano che avrebbe potuto essere sua madre. Solo alcune rughe e grinze, la scrittura inesorabile del tempo sui volti, potevano far distinguere l’una dall’altra. Zenobia trasalì. La soluzione era davanti ai suoi occhi. Quella foto era una via d’uscita, quei pixel rappresentavano la sua salvezza, la possibilità di proseguire la relazione, se così si poteva chiamare quel rapporto che stava intessendo, con Pompey.

Ma no, non posso mettere di mezzo altre persone, Diana non me lo permetterebbe mai, si disse Zenobia. E poi dovrei renderne conto a Lilia, perderò la sua amicizia!

Non preoccuparti, hai trovato una eccellente soluzione e altre ne troverai. Dai, spediscigli la foto.

Diana le sorrideva dallo schermo, mostrando un corpo seducente e il sole le pioveva sul viso, sui seni e sui fianchi, modellando con delicatezza il suo profilo.

Sembrava proprio che quella frase l’avesse pronunciata lei e non la sua incoscienza.

Zenobia finì per darle retta.

Il tempo non passava mai, tentava di lavorare ma si scopriva ogni volta incagliata nelle sue fantasticherie a occhi aperti, non riusciva a stare al computer, a sopportare le mura dell’ufficio. Ogni pensiero era per Pompey, nella sua testa non c’era posto per altro e invocava che venisse presto il buio, non solo perché a quelle ore di tenebra si sarebbe trovata ancora con lui, ma anche perché era il colore della pelle del suo nuovo dio.

Un'icona sul monitor lampeggiò. Le era arrivata una mail.

Sei bellissima!

Pompey.

E’ fatta, pensò, stasera lo sentirò ancora. Era raggiante e non pensò ad altro che a quello, la sua mente non voleva in alcun modo riflettere sulle implicazioni e le conseguenze, piuttosto imbarazzanti e pericolose, del suo comportamento. Il suo cuore vi opponeva un netto rifiuto e il suo cervello gli dava ascolto, accantonando sistematicamente quei pensieri.

Pompey: Toc, toc!

Zenobia trasalì, era in anticipo.

Psyche: avanti, entra pure, ho lasciato aperto!

Pompey: Grazie! Ti ho pensata per tutto il giorno e non vedevo l’ora di sentirti.

Psyche: anch’io.

Le loro parole scorrevano attraverso le fibre ottiche come scintille di elettricità attraverso i neuroni ed erano parole d’amore, parole di due perfetti sconosciuti che si dichiaravano amore eterno senza essersi mai visti prima! E, orrore, si davano appuntamento per il giorno dopo.

Zenobia piangeva dentro il letto. “Come ho fatto, come ho fatto a mettermi in questa situazione?” gemeva. “Non ho più vent’anni e neppure trenta.” sospirò. “Ma è così bello!”. Affondò la testa nel cuscino.

Quando si svegliò era giorno fatto, si era addormentata come un peso di piombo che precipita in fondo a un pozzo. Stavolta, aveva dormito della grossa, non aveva neppure sentito la sveglia. Era in ritardo!

Che ti succede Zenobia, ti stai assuefacendo alla menzogna e all’inganno? sembrò schernirla una voce da dentro. Ma non era la stessa voce che, fino al giorno prima, l’aveva incitata a proseguire su quel percorso insidioso come un filo sottile teso sul vuoto? Si, era proprio quella voce. Ma come mai, ora, si prendeva gioco di lei?

Non mi prendo gioco di te, Zenobia. Voglio solo che tu sia felice, disse Psyche.

Sbeffeggiandomi e deridendomi? Bel modo di prendersi cura di me.

Ora, però, era giunto il momento di mettersi all’opera. Telefonò a Diana e, con una scusa qualunque, la invitò a pranzo, raccomandandole di non riferire a nessuno del loro incontro, ma facendole intuire che aveva importanti novità da confidarle. Diana accettò con entusiasmo. Era una ragazza molto curiosa.

Zenobia aveva fatto tutto da sola, nessun suggerimento era pervenuto dalla voce dell’incoscienza, che, anzi, se ne stette per tutto il giorno stranamente zitta e quieta. Forse era talmente progredita sulla via dell’inganno, della truffa e del raggiro, da non averne più bisogno, da non sentirla più, come la voce di qualcuno che ci lasciamo dietro perché corriamo più veloci. O semplicemente perché Psyche non aveva più nulla da insegnarle.

Diana era bellissima, a Zenobia parve di guardarsi in uno specchio del tempo, che rifletteva la sua immagine di vent’anni prima. Come erano stranamente somiglianti!

In breve, Zenobia le spiegò quanto le era accaduto.

Diana l'ascoltava con gli occhi sbarrati e una strana espressione sul bel volto.

Ecco, ora ti ho detto tutto” concluse fra le lacrime.

Dovrei essere arrabbiata” disse dopo un po' Diana. “Eppure, per quanto mi sforzi, non riesco a provare irritazione nei tuoi confronti. Certo, quello che hai fatto è riprovevole, quasi non ti riconosco. Però, in fin dei conti, sono felice per te.”

Davvero?” disse Zenobia asciugandosi le lacrime e tirando su col naso “Davvero non sei arrabbiata con me?”

Si, e ho deciso che porterai a termine la tua farsa. E io ti aiuterò” e le sorrise con la più profonda malizia che potevano esprimere i suoi occhi verdi.

Zenobia trasalì. Vi lesse il suo stesso fervore, la sua stessa perversa furbizia. Quegli occhi erano così simili ai suoi. D’un tratto sussultò ancora, un pensiero le attraversò l'anima come un fulmine: E’ Psyche che parla attraverso di lei?

Si accordarono come due complici che preparano un delitto: l’ora, il luogo, cosa avrebbe detto l’una, cosa l’altra, quello che avrebbero indossato. Si misero d’accordo su tutto, sincronizzarono persino gli orologi. Il loro piano era semplice e ben congegnato.

Diana avrebbe dovuto conquistare l'americano e lasciarsi sedurre a sua volta. Ma, sul più bello, avrebbe ceduto il posto a Zenobia, che per l’occasione si sarebbe vestita e truccata in modo da somigliare in tutto e per tutto a Diana, cercando così di spazzarsi di dosso buona parte degli anni che le separavano; a quello scopo, avrebbero sfoggiato perfino la stessa acconciatura. Così, Pompey avrebbe rovesciato la sua passione su Zenobia, mentre Diana scivolava via furtiva e scompariva nella notte.

Zenobia arrivò trafelata all’ingresso del ristorante, ma riprese fiato accorgendosi che era in anticipo. Si rimise in ordine davanti alla vetrina lustra che le rimandava indietro la sua immagine e le luci della notte. E trasalì. Le era sembrato per un attimo di aver visto Diana nei riflessi di quello specchio improvvisato. Rassicurata dal proprio aspetto, entrò e con una scusa si diresse al bagno delle signore.

Zenobia controllò l’orologio. Erano almeno due ore che era rinchiusa nel cesso e non le era arrivata ancora alcuna notizia da parte di Diana. Controllò il cellulare e non seppe resistere alla tentazione di inviarle un sms.

Nessuna risposta. Ne spedì, un altro e poi, un terzo e un quarto e ancora e ancora finchè non ne perse il conto. Ma ancora nessuna risposta. Stava accadendo qualcosa, lo sentiva, le cose non stavano andando per il verso giusto. Forse Diana si trovava in una situazione imbarazzante, poteva essere addirittura in pericolo. Allora decise di andare a controllare. Uscì con cautela dal bagno e vide Diana e Pompey che finivano di cenare. Si diresse allora a un tavolo vicino, ma protetto da alcune piante lussureggianti che prosperavano in vasi disposti l’uno accanto all’altro e, protetta da quella verde cortina, sbirciò dall’altra parte.

Per poco, non cascò dalla sedia. Quei due amoreggiavano come piccioncini. Pompey teneva la mano di Diana e lei si scioglieva nei suoi occhi. Parlavano a bassissima voce, sussurravano e sorridevano. Zenobia non capiva nulla di quanto si dicessero, ma poteva immaginarlo.

Prese il telefono e compose un messaggio con le dita che le tremavano:

Cosa diavolo stai combinando? Non erano questi i patti! Vediamoci in bagno. ORA!!!

Zenobia sentì chiaramente, attraverso le fronde, il segnale acustico del telefono di Diana che la avvisava del messaggio in arrivo. Lei prese la borsetta, ma non l’aprì. Si preparavano a lasciare il locale. Zenobia aspettò che Pompey pagasse il conto e li seguì. O almeno, tentò di farlo, perché una voce alle sue spalle fece: “Ehm… ehm…” Zenobia si voltò. Era il cameriere. Si ricordò soltanto allora che, non solo non aveva bevuto il drink che aveva ordinato quando era arrivata, ma non l’aveva neppure pagato.

Aprì la borsetta, tirò fuori una banconota e la mise in mano all’uomo dal farfallino, affrettandosi a uscire. Ma i due non avevano fatto tanta strada, si erano fermati a scambiarsi effusioni nel parcheggio del ristorante, appoggiati all’automobile di Diana. Lei gli stava avvinghiata come un polpo, e pure la sua mano armeggiava con la portiera e in qualche modo riuscì ad aprirla e a spingerlo dentro. Poi anche lei lo seguì all’interno della vettura e mise in moto.

Anche Zenobia salì sulla sua auto, le passarono proprio davanti mentre avviava il motore. Vide chiaramente Diana alla guida, ma questa non la degnò di un solo sguardo.

La ragazza guidava male, l’autovettura zigzagava a cavallo della linea di mezzeria e Zenobia accelerò per capire cosa stesse accadendo. Dal lunotto appannato vide ombre orribilmente aggrovigliate.

In qualche modo, si diressero verso la periferia e s'infilarono nel parcheggio dello scalo ferroviario. Zenobia li seguì a fari spenti e parcheggiò molto vicino a loro.

L’automobile ondeggiava spaventosamente e più volte sembrò sul punto di rovesciarsi. Attraverso i vetri offuscati Zenobia scorgeva ombre, profili, sagome di corpi scuotersi e agitarsi e montare l’uno sull’altro e poi improvvisi capovolgimenti di fronte. Senza dubbio, i due cuoricini erano stati presi dalla più bruciante e fulminea delle passioni e si consumavano in selvagge effusioni. Ma l’americano sapeva già la verità? si chiedeva. Sapeva che quella donna non era Psyche? E per quale motivo Diana si stava comportando a quel modo? L’aveva completamente dimenticata!

C’era soltanto una spiegazione e quell'evidenza le faceva male da morire. Calde lacrime presero a rigare il suo volto, piangeva così mestamente che ognuno di noi, se fosse stato in zona, si sarebbe affrettato a consolare quella donna. Ma non c’era nessuno nei paraggi, soltanto lei, Pompey e Diana. Se almeno si fosse portata dietro Penny, lei capiva ogni suo stato d’animo, ogni suo cambiamento d’umore, era così sensibile. Ma era sola, anche Psyche l’aveva abbandonata.

La vettura smise di vacillare e cigolare. Non si scorgeva più alcun movimento all’interno dell’abitacolo. Poi, si aprì una portiera e ne scese Pompey, stravolto e barcollante. S’infilò la camicia nei pantaloni, si passò una mano sul volto e si allontanò, guardandosi intorno. Zenobia lo vedeva sparire uscendo dall’alone giallastro dei lampioni e riapparire, sempre più piccolo, rientrandovi, finchè scomparve definitivamente nel buio.

Zenobia si precipitò dentro l’auto. Le sue lacrime erano finite da un pezzo e il suo dolore si era tramutato in rabbia, una rabbia infinita, spasmodica, crescente, che ne aveva preso il posto e stava per esplodere.

Come hai potuto? Come hai potuto farmi una cosa del genere?” urlò Zenobia con tutto il fiato che aveva in corpo. Il suo vestito, rimasto impigliato in una siepe di spine, si era strappato e ora un lembo biancheggiava da qualche parte nella notte.

Diana era adagiata sul sedile, con gli occhi chiusi e non le rispondeva.

Come hai potuto, Diana? Diana!”

La luna sorse con il suo carico d’argento, che profuse a piene mani nell’abitacolo e illuminò il volto di Diana. Era pallidissima, respirava a fatica.

Aveva un segnaccio livido sul collo. Erano le impronte di due mani, due mani grandi e forti. Mani da negro. In quel punto, all’altezza della carotide, la sua gola era come assottigliata e, orribile a vedersi, era ridotta alla larghezza di un polso. Un filo d’aria entrava a fatica nella faringe, quel sottile filo d’aria che Zenobia sentiva sibilare dalla sua bocca.

Ci ho provato… “ rantolava “Ci ho provato a fermarlo, credimi… “ Zenobia le teneva la testa sollevata. “… ma lui era più forte di me…”

Le asciugò il viso e le ravvivò i capelli.

Io non volevo, Zenobia, credimi… Io non volevo più, non era giusto. Pompey era per te… “ e la guardò fissa a occhi sbarrati.

Su, su non è niente… “ fece Zenobia “Stai tranquilla ora… “

La ragazza aveva adagiato il capo sulla sua spalla. Zenobia le accarezzò le gote e i capelli. La luna si nascose dietro una nube e rivolle indietro i suoi filamenti argentei. E sorse un’ombra sul volto di Diana. Zenobia sussultò. Soltanto allora capì che era morta. Fu come stringere fra le braccia il suo stesso cadavere. La scansò inorridita e il suo corpo si ricompose in una posa innaturale sul sedile del guidatore. Zenobia si precipitò fuori nella notte.

Cominciò a piovere. Sembrava un sogno a occhi aperti e anche la notte velata, la luna nascosta e Diana addormentata in un modo così insolito nell’auto parevano stranezze e anomalie che soltanto i sogni possiedono.

Zenobia si stropicciò gli occhi, si pizzicò le mani, si schiaffeggiò le gote, per vedere se c’era modo di svegliarsi. Il vestito le ciondolava lacero dai fianchi come una vecchia bandiera a mezz’asta e cercò di mettersi in ordine. Due dita del piede sinistro sbucavano dalla calza di nylon e si ricordò che aveva anche perso una scarpa. Era stanca e cominciava ad avere freddo. Si sedette sul cofano dell’automobile e chiamò a gran voce Psyche perchè l'aiutasse a uscire da quella situazione imbarazzante.



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Vi è un racconto dal titolo omonimo di Edgar Allan Poe (o Edgar Al Lampone, come dicono i miei figli), con i medesimi nomi dei personaggi, ma la mia storia è del tutto differente.

Personaggi:

Zenobia, il cui nick name in chat è Psyche. (Nel racconto di Allan Poe è Psyche Zenobia). Zenobia era anche il nome della regina di Palmira, la città nel deserto martirizzata da fantocci di uomini nascosti dietro una sigla bislacca e inverosimile, IsIs (due volte Isernia).

Psyche: il nick name di Zenobia, ma anche l'alter ego negativo, la voce dell'incoscienza.

Penny, la cagnetta, il nome occhieggia al dottor Moneypenny di Allan Poe (nel suo racconto la cagnetta si chiama invece Diana).

Diana, la figlia di Lilia, l’amica del cuore di Zenobia (nel racconto di Allan Poe è invece la cagnetta). E' una sorta di doppio di Zenobia, il suo doppelganger. Soltanto per inciso, Diana è anche uno dei cani della spedizione di Intorno alla luna di Jules Verne.

Pompey, lo sconosciuto di colore (In Allan Poe è il servo negro).


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