“Un’altra notte
rubata al sonno” pensò Zenobia sbadigliando e invidiò Penny, la
cagnetta sdraiata ai suoi piedi. Le accarezzò la testolina morbida e
lei guaì nel sonno. Si alzò a prendere un bicchiere d’acqua in
cucina. Il monitor del notebook depositava sulla scrivania un arco di
luce bluastra. Stava per spegnerlo, quando si accorse che un’icona
del sito di incontri on line al quale era collegata, lampeggiava.
Era un messaggio in
arrivo!
Ciao Psyche,
ho
trovato il tuo profilo molto interessante e vorrei tanto conoscerti.
A presto, spero.
Pompey
Senza indugio,
Zenobia cercò la pagina che corrispondeva al mittente e gli comparve
subito davanti. I suoi occhi scorsero in velocità i dati personali:
altezza un metro e ottanta, occhi neri, capelli neri e ricci, fisico
atletico, età trentacinque, single. Certo era un po’ più giovane
di quello che si aspettava, ma alla sua età non era il caso di fare
troppo la sofisticata. E poi, di coppie con lei matura e lui più
giovane se ne vedevano ormai di frequente.
Incuriosita,
aprì la cartella che conteneva le foto del profilo di Pompey e saltò
sulla sedia. Era un uomo di colore! Guardò le immagini, alquanto
delusa. Certo era un bel ragazzo, alto, muscoloso e con certi occhi
da far battere forte il cuore. Uno così se lo sarebbe mangiato di
baci. Ma era nero. E poi, perché mai si era interessato proprio a
lei, con le migliaia di donne della sua età, e magari anche più
giovani, disponibili su quel sito? Ma, si era accorto che lei era
bianca? Zenobia ci rimuginò su e si ricordò che quando si era
iscritta aveva dovuto specificare la sua etnia, quindi sì, Pompey
doveva sapere che lei aveva la pelle chiara.
Zenobia non aveva
voluto allegare foto al suo profilo, lo aveva ritenuto sconveniente
per una signora di mezz’età e poi, riteneva che se qualcuno avesse
provato un vero interesse per lei, l’aspetto fisico sarebbe stato
secondario – in verità, si sentiva molto insicura di sè e si era
riproposta di palesarsi soltanto se si fosse imbattuta in un
interlocutore interessato.
D’un tratto
sobbalzò sulla sedia. Si era dimenticata che redigendo il suo
profilo, alla domanda “Quanti anni hai?” – che impudenti
chiedere l’età a una signora! – aveva risposto: trenta! Ecco
spiegato l’interesse di Pompey per lei.
E ora, che fare?
Zenobia ci riflettè
su. Pensò al suo deserto interiore, alla sua immensa solitudine, a
quanto tempo era passato dall'ultima volta che un uomo l'aveva
guardata negli occhi e stabilì che si sarebbe venduta anche l’anima
per una carezza. Sul profilo del ragazzo dal volto d'ebano
lampeggiava una luce verde: significava che era on line. Dunque
Pompey esisteva, da qualche parte della città, fra le mura dei
palazzi e il buio della notte, invisibile e disperso nei milioni di
gigabytes e, questa era la cosa importante, si stava interessando a
lei. Il suo cuore prese a battere forte e le si azzerò la
salivazione.
Su Zenobia, avanti,
clicca sulla lucetta verde!
E come faccio a
dirgli che non sono una sua coetanea, che mi sono decurtata d’un
solo colpo vent’anni?
Su Zenobia clicca,
avanti clicca, maledizione! Qualcosa t’inventerai, ci penserai più
tardi. E poi, che vuoi che sia una misera chiacchierata, un’innocente
chat nel cuore della notte!
Dai clicca!
Anche Penny guaì
nel sonno, come per incitarla. La sua mano scivolò lenta sulla
scrivania e si appropriò del mouse, l'indice cliccò sul tasto
sinistro e partì la conversazione.
Psyche: Ciao,
disturbo?
Nessuna risposta.
Psyche: Ciao
Pompey, ci sei?
Pompey probabilmente
era uscito e si era dimenticato di chiudere il collegamento. O forse,
si era addormentato davanti allo schermo.
Vabbè, ci ho
provato, pensò Zenobia.
In quell’istante
Pompey si materializzò.
Pompey: Ciao
Psyche, nessun disturbo.
Psyche: temevo
che fossi impegnato. Ho letto il tuo messaggio ed eccomi qui!
Pompey: bene, è
proprio quello che speravo.
La conversazione
proseguì lieve e scorrevole. Le ore passavano e Pompey si era
rivelato una persona piacevole, colta e discreta. Era americano,
aveva viaggiato molto per lavoro, si trovava da qualche mese in città
e non conosceva ancora nessuno. Zenobia era felice di aver ascoltato
la voce della sua incoscienza, che l’aveva incitata a cliccare
sulla lucetta verde. Finchè comparve sullo schermo il seguente
messaggio:
Pompey: mi
piacerebbe tanto vedere come sei.
Zenobia trasalì, ma
non si fece sopraffare dall’ansia.
Psyche: sono
normalissima, né bella né brutta, insomma, una donna ordinaria.
Pompey: secondo
me, ordinaria non lo sei di sicuro. Insisto per vedere almeno il tuo
volto.
Psyche: ma no,
non ti perdi niente.
Pompey: Allora,
ascolta cosa ti propongo.
Il respiro di
Zenobia si fece affannoso, il suo petto si sollevava e abbassava
velocemente di fronte al monitor, era in preda al panico, ma si
dominò e trovò la forza di rispondere.
Psyche: sentiamo.
Pompey: domani mi
mandi la tua foto. Usa la mail del mio profilo.
“E adesso?”
disse Zenobia, svegliando la cagnetta.
E adesso qualcosa ti
devi inventare, le rispose Psyche. Digli che va bene, domani ci
penserai.
Che situazione
imbarazzante! No, non posso, è meglio chiuderla qui, pensò Zenobia.
Dai Zenobia, dai,
quando ti ricapiterà una simile occasione, dai digli di si! insistè
Psyche.
Ci mise un pò a
battere quelle sei lettere più lo spazio sulla tastiera, ma,
tremando e ondeggiando sulla sedia, lo fece.
Psyche: va bene.
Pompey: ne sono
felice. Allora ci ritroviamo domani in chat alla stessa ora. Ok?
Psyche: va bene
Pompey.
Pompey: ora devo
lasciarti. Dolce notte Zenobia.
Psyche: ‘Notte
Pompey.
Il suo cuore ebbe un
sussulto. Aveva forse trovato l’amore! Bé, se non proprio l’amore,
almeno una persona interessante con cui parlare. Spense il notebook e
se ne andò a letto.
Quel poco che
restava della notte lo passò fra sogni a occhi aperti tra le braccia
del misterioso ragazzo di colore, dai quali si risvegliava angosciata
per quello che l’aspettava l’indomani. Avrebbe dovuto trovare il
modo di risolvere il contrasto fra l’età dichiarata e quella
reale, senza perdere Pompey. Ci voleva un miracolo!
Il chiarore che
filtrava fra gli scuri indicava che il giorno fatidico era già sorto
e gettava una luce sinistra sulle sue ansie, senza che avesse trovato
una soluzione.
Povera Zenobia, si
disse, in che guaio ti sei cacciata!
Il caffè era più
amaro del solito, nonostante i molti cucchiaini di zucchero e lei
trasaliva a ogni lampeggiare del suo notebook, al terrore che Pompey
avesse scoperto l'inganno. Ma guardando fuori dalla finestra si perse
ancora in dolci sogni nei quali lui la stringeva fra le sue braccia
possenti, bello e scuro come la notte.
All’ora di pranzo,
non aveva ancora capito come uscire da quell’insolita situazione e
per distrarsi si mise a guardare le foto che conservava nella sua
cartella personale del pc dell'ufficio. Erano istantanee delle
vacanze al mare e, fra un’immagine e l’altra, comparve Diana, la
figlia della sua migliore amica, Lilia.
Diana aveva
trent’anni, i capelli biondi e gli occhi verdi e una strana
somiglianza con lei, tanto che le sue amiche sostenevano che avrebbe
potuto essere sua madre. Solo alcune rughe e grinze, la scrittura
inesorabile del tempo sui volti, potevano far distinguere l’una
dall’altra. Zenobia trasalì. La soluzione era davanti ai suoi
occhi. Quella foto era una via d’uscita, quei pixel rappresentavano
la sua salvezza, la possibilità di proseguire la relazione, se così
si poteva chiamare quel rapporto che stava intessendo, con Pompey.
Ma no, non posso
mettere di mezzo altre persone, Diana non me lo permetterebbe mai, si
disse Zenobia. E poi dovrei renderne conto a Lilia, perderò la sua
amicizia!
Non preoccuparti,
hai trovato una eccellente soluzione e altre ne troverai. Dai,
spediscigli la foto.
Diana le sorrideva
dallo schermo, mostrando un corpo seducente e il sole le pioveva sul
viso, sui seni e sui fianchi, modellando con delicatezza il suo
profilo.
Sembrava proprio che
quella frase l’avesse pronunciata lei e non la sua incoscienza.
Zenobia finì per
darle retta.
Il tempo non
passava mai, tentava di lavorare ma si scopriva ogni volta incagliata
nelle sue fantasticherie a occhi aperti, non riusciva a stare al
computer, a sopportare le mura dell’ufficio. Ogni pensiero era per
Pompey, nella sua testa non c’era posto per altro e invocava che
venisse presto il buio, non solo perché a quelle ore di tenebra si
sarebbe trovata ancora con lui, ma anche perché era il colore della
pelle del suo nuovo dio.
Un'icona
sul monitor lampeggiò. Le era arrivata una mail.
Sei bellissima!
Pompey.
E’ fatta, pensò,
stasera lo sentirò ancora. Era raggiante e non pensò ad altro che a
quello, la sua mente non voleva in alcun modo riflettere sulle
implicazioni e le conseguenze, piuttosto imbarazzanti e pericolose,
del suo comportamento. Il suo cuore vi opponeva un netto rifiuto e il
suo cervello gli dava ascolto, accantonando sistematicamente quei
pensieri.
Pompey: Toc, toc!
Zenobia trasalì,
era in anticipo.
Psyche: avanti,
entra pure, ho lasciato aperto!
Pompey: Grazie!
Ti ho pensata per tutto il giorno e non vedevo l’ora di sentirti.
Psyche: anch’io.
Le loro parole
scorrevano attraverso le fibre ottiche come scintille di elettricità
attraverso i neuroni ed erano parole d’amore, parole di due
perfetti sconosciuti che si dichiaravano amore eterno senza essersi
mai visti prima! E, orrore, si davano appuntamento per il giorno
dopo.
Zenobia piangeva
dentro il letto. “Come ho fatto, come ho fatto a mettermi in questa
situazione?” gemeva. “Non ho più vent’anni e neppure trenta.”
sospirò. “Ma è così bello!”. Affondò la testa nel cuscino.
Quando si svegliò
era giorno fatto, si era addormentata come un peso di piombo che
precipita in fondo a un pozzo. Stavolta, aveva dormito della grossa,
non aveva neppure sentito la sveglia. Era in ritardo!
Che ti succede
Zenobia, ti stai assuefacendo alla menzogna e all’inganno? sembrò
schernirla una voce da dentro. Ma non era la stessa voce che, fino al
giorno prima, l’aveva incitata a proseguire su quel percorso
insidioso come un filo sottile teso sul vuoto? Si, era proprio quella
voce. Ma come mai, ora, si prendeva gioco di lei?
Non mi prendo gioco
di te, Zenobia. Voglio solo che tu sia felice, disse Psyche.
Sbeffeggiandomi e
deridendomi? Bel modo di prendersi cura di me.
Ora, però, era
giunto il momento di mettersi all’opera. Telefonò a Diana e, con
una scusa qualunque, la invitò a pranzo, raccomandandole di non
riferire a nessuno del loro incontro, ma facendole intuire che aveva
importanti novità da confidarle. Diana accettò con entusiasmo. Era
una ragazza molto curiosa.
Zenobia aveva fatto
tutto da sola, nessun suggerimento era pervenuto dalla voce
dell’incoscienza, che, anzi, se ne stette per tutto il giorno
stranamente zitta e quieta. Forse era talmente progredita sulla via
dell’inganno, della truffa e del raggiro, da non averne più
bisogno, da non sentirla più, come la voce di qualcuno che ci
lasciamo dietro perché corriamo più veloci. O semplicemente perché
Psyche non aveva più nulla da insegnarle.
Diana era
bellissima, a Zenobia parve di guardarsi in uno specchio del tempo,
che rifletteva la sua immagine di vent’anni prima. Come erano
stranamente somiglianti!
In breve, Zenobia le
spiegò quanto le era accaduto.
Diana l'ascoltava
con gli occhi sbarrati e una strana espressione sul bel volto.
“Ecco, ora ti ho
detto tutto” concluse fra le lacrime.
“Dovrei essere
arrabbiata” disse dopo un po' Diana. “Eppure, per quanto mi
sforzi, non riesco a provare irritazione nei tuoi confronti. Certo,
quello che hai fatto è riprovevole, quasi non ti riconosco. Però,
in fin dei conti, sono felice per te.”
“Davvero?” disse
Zenobia asciugandosi le lacrime e tirando su col naso “Davvero non
sei arrabbiata con me?”
“Si, e ho deciso
che porterai a termine la tua farsa. E io ti aiuterò” e le sorrise
con la più profonda malizia che potevano esprimere i suoi occhi
verdi.
Zenobia trasalì. Vi
lesse il suo stesso fervore, la sua stessa perversa furbizia. Quegli
occhi erano così simili ai suoi. D’un tratto sussultò ancora, un
pensiero le attraversò l'anima come un fulmine: E’ Psyche che
parla attraverso di lei?
Si accordarono come
due complici che preparano un delitto: l’ora, il luogo, cosa
avrebbe detto l’una, cosa l’altra, quello che avrebbero
indossato. Si misero d’accordo su tutto, sincronizzarono persino
gli orologi. Il loro piano era semplice e ben congegnato.
Diana avrebbe dovuto
conquistare l'americano e lasciarsi sedurre a sua volta. Ma, sul più
bello, avrebbe ceduto il posto a Zenobia, che per l’occasione si
sarebbe vestita e truccata in modo da somigliare in tutto e per tutto
a Diana, cercando così di spazzarsi di dosso buona parte degli anni
che le separavano; a quello scopo, avrebbero sfoggiato perfino la
stessa acconciatura. Così, Pompey avrebbe rovesciato la sua passione
su Zenobia, mentre Diana scivolava via furtiva e scompariva nella
notte.
Zenobia arrivò
trafelata all’ingresso del ristorante, ma riprese fiato
accorgendosi che era in anticipo. Si rimise in ordine davanti alla
vetrina lustra che le rimandava indietro la sua immagine e le luci
della notte. E trasalì. Le era sembrato per un attimo di aver visto
Diana nei riflessi di quello specchio improvvisato. Rassicurata dal
proprio aspetto, entrò e con una scusa si diresse al bagno delle
signore.
Zenobia controllò
l’orologio. Erano almeno due ore che era rinchiusa nel cesso e non
le era arrivata ancora alcuna notizia da parte di Diana. Controllò
il cellulare e non seppe resistere alla tentazione di inviarle un
sms.
Nessuna risposta. Ne
spedì, un altro e poi, un terzo e un quarto e ancora e ancora finchè
non ne perse il conto. Ma ancora nessuna risposta. Stava accadendo
qualcosa, lo sentiva, le cose non stavano andando per il verso
giusto. Forse Diana si trovava in una situazione imbarazzante, poteva
essere addirittura in pericolo. Allora decise di andare a
controllare. Uscì con cautela dal bagno e vide Diana e Pompey che
finivano di cenare. Si diresse allora a un tavolo vicino, ma protetto
da alcune piante lussureggianti che prosperavano in vasi disposti
l’uno accanto all’altro e, protetta da quella verde cortina,
sbirciò dall’altra parte.
Per poco, non cascò
dalla sedia. Quei due amoreggiavano come piccioncini. Pompey teneva
la mano di Diana e lei si scioglieva nei suoi occhi. Parlavano a
bassissima voce, sussurravano e sorridevano. Zenobia non capiva nulla
di quanto si dicessero, ma poteva immaginarlo.
Prese il telefono e
compose un messaggio con le dita che le tremavano:
Cosa diavolo stai
combinando? Non erano questi i patti! Vediamoci in bagno. ORA!!!
Zenobia sentì
chiaramente, attraverso le fronde, il segnale acustico del telefono
di Diana che la avvisava del messaggio in arrivo. Lei prese la
borsetta, ma non l’aprì. Si preparavano a lasciare il locale.
Zenobia aspettò che Pompey pagasse il conto e li seguì. O almeno,
tentò di farlo, perché una voce alle sue spalle fece: “Ehm…
ehm…” Zenobia si voltò. Era il cameriere. Si ricordò soltanto
allora che, non solo non aveva bevuto il drink che aveva ordinato
quando era arrivata, ma non l’aveva neppure pagato.
Aprì la borsetta,
tirò fuori una banconota e la mise in mano all’uomo dal
farfallino, affrettandosi a uscire. Ma i due non avevano fatto tanta
strada, si erano fermati a scambiarsi effusioni nel parcheggio del
ristorante, appoggiati all’automobile di Diana. Lei gli stava
avvinghiata come un polpo, e pure la sua mano armeggiava con la
portiera e in qualche modo riuscì ad aprirla e a spingerlo dentro.
Poi anche lei lo seguì all’interno della vettura e mise in moto.
Anche Zenobia salì
sulla sua auto, le passarono proprio davanti mentre avviava il
motore. Vide chiaramente Diana alla guida, ma questa non la degnò di
un solo sguardo.
La ragazza guidava
male, l’autovettura zigzagava a cavallo della linea di mezzeria e
Zenobia accelerò per capire cosa stesse accadendo. Dal lunotto
appannato vide ombre orribilmente aggrovigliate.
In qualche modo, si
diressero verso la periferia e s'infilarono nel parcheggio dello
scalo ferroviario. Zenobia li seguì a fari spenti e parcheggiò
molto vicino a loro.
L’automobile
ondeggiava spaventosamente e più volte sembrò sul punto di
rovesciarsi. Attraverso i vetri offuscati Zenobia scorgeva ombre,
profili, sagome di corpi scuotersi e agitarsi e montare l’uno
sull’altro e poi improvvisi capovolgimenti di fronte. Senza dubbio,
i due cuoricini erano stati presi dalla più bruciante e fulminea
delle passioni e si consumavano in selvagge effusioni. Ma l’americano
sapeva già la verità? si chiedeva. Sapeva che quella donna non era
Psyche? E per quale motivo Diana si stava comportando a quel modo?
L’aveva completamente dimenticata!
C’era soltanto una
spiegazione e quell'evidenza le faceva male da morire. Calde lacrime
presero a rigare il suo volto, piangeva così mestamente che ognuno
di noi, se fosse stato in zona, si sarebbe affrettato a consolare
quella donna. Ma non c’era nessuno nei paraggi, soltanto lei,
Pompey e Diana. Se almeno si fosse portata dietro Penny, lei capiva
ogni suo stato d’animo, ogni suo cambiamento d’umore, era così
sensibile. Ma era sola, anche Psyche l’aveva abbandonata.
La vettura smise di
vacillare e cigolare. Non si scorgeva più alcun movimento
all’interno dell’abitacolo. Poi, si aprì una portiera e ne scese
Pompey, stravolto e barcollante. S’infilò la camicia nei
pantaloni, si passò una mano sul volto e si allontanò, guardandosi
intorno. Zenobia lo vedeva sparire uscendo dall’alone giallastro
dei lampioni e riapparire, sempre più piccolo, rientrandovi, finchè
scomparve definitivamente nel buio.
Zenobia si precipitò
dentro l’auto. Le sue lacrime erano finite da un pezzo e il suo
dolore si era tramutato in rabbia, una rabbia infinita, spasmodica,
crescente, che ne aveva preso il posto e stava per esplodere.
“Come hai potuto?
Come hai potuto farmi una cosa del genere?” urlò Zenobia con tutto
il fiato che aveva in corpo. Il suo vestito, rimasto impigliato in
una siepe di spine, si era strappato e ora un lembo biancheggiava da
qualche parte nella notte.
Diana era adagiata
sul sedile, con gli occhi chiusi e non le rispondeva.
“Come hai potuto,
Diana? Diana!”
La luna sorse con il
suo carico d’argento, che profuse a piene mani nell’abitacolo e
illuminò il volto di Diana. Era pallidissima, respirava a fatica.
Aveva un segnaccio
livido sul collo. Erano le impronte di due mani, due mani grandi e
forti. Mani da negro. In quel punto, all’altezza della carotide, la
sua gola era come assottigliata e, orribile a vedersi, era ridotta
alla larghezza di un polso. Un filo d’aria entrava a fatica nella
faringe, quel sottile filo d’aria che Zenobia sentiva sibilare
dalla sua bocca.
“Ci ho provato…
“ rantolava “Ci ho provato a fermarlo, credimi… “ Zenobia le
teneva la testa sollevata. “… ma lui era più forte di me…”
Le asciugò il viso
e le ravvivò i capelli.
“Io non volevo,
Zenobia, credimi… Io non volevo più, non era giusto. Pompey era
per te… “ e la guardò fissa a occhi sbarrati.
“Su, su non è
niente… “ fece Zenobia “Stai tranquilla ora… “
La ragazza aveva
adagiato il capo sulla sua spalla. Zenobia le accarezzò le gote e i
capelli. La luna si nascose dietro una nube e rivolle indietro i suoi
filamenti argentei. E sorse un’ombra sul volto di Diana. Zenobia
sussultò. Soltanto allora capì che era morta. Fu come stringere fra
le braccia il suo stesso cadavere. La scansò inorridita e il suo
corpo si ricompose in una posa innaturale sul sedile del guidatore.
Zenobia si precipitò fuori nella notte.
Cominciò a piovere.
Sembrava un sogno a occhi aperti e anche la notte velata, la luna
nascosta e Diana addormentata in un modo così insolito nell’auto
parevano stranezze e anomalie che soltanto i sogni possiedono.
Zenobia si
stropicciò gli occhi, si pizzicò le mani, si schiaffeggiò le gote,
per vedere se c’era modo di svegliarsi. Il vestito le ciondolava
lacero dai fianchi come una vecchia bandiera a mezz’asta e cercò
di mettersi in ordine. Due dita del piede sinistro sbucavano dalla
calza di nylon e si ricordò che aveva anche perso una scarpa. Era
stanca e cominciava ad avere freddo. Si sedette sul cofano
dell’automobile e chiamò a gran voce Psyche perchè l'aiutasse a
uscire da quella situazione imbarazzante.
COPYRIGHT 2014
ANGELO MEDICI
Tutti i
diritti riservati
Riproduzione
vietata
Vi
è un racconto dal titolo omonimo di Edgar Allan Poe (o Edgar
Al Lampone,
come dicono i miei figli), con i medesimi nomi dei personaggi, ma la
mia storia è del tutto differente.
Personaggi:
Zenobia,
il cui nick name in chat è Psyche. (Nel racconto di Allan Poe è
Psyche Zenobia). Zenobia era anche il nome della regina di Palmira,
la città nel deserto martirizzata da fantocci di uomini nascosti
dietro una sigla bislacca e inverosimile, IsIs
(due volte Isernia).
Psyche:
il nick name di Zenobia, ma anche l'alter ego negativo, la voce
dell'incoscienza.
Penny,
la cagnetta, il nome occhieggia al dottor Moneypenny di Allan Poe
(nel suo racconto la cagnetta si chiama invece Diana).
Diana,
la figlia di Lilia, l’amica del cuore di Zenobia (nel racconto di
Allan Poe è invece la cagnetta). E' una sorta di doppio di Zenobia,
il suo doppelganger.
Soltanto per inciso, Diana è anche uno dei cani della spedizione di
Intorno
alla luna
di Jules Verne.
Pompey,
lo sconosciuto di colore (In Allan Poe è il servo negro).
Nessun commento:
Posta un commento