sabato 19 marzo 2016

Appunti storico-critici su come fu raggiunta la (dis)unità d'Italia


Fino a poco tempo fa tenevo con costanza una sorta di diario sul quale annotavo le mie riflessioni, le mie sensazioni e i pensieri meno limpidi. Quel diario era lo specchio esatto dei tempi che vivevo. Era, insomma, una sorta di breviario estremamente negativo dei miei giorni e delle mie notti, un florilegio dei miei desiderata, per troppo tempo sospeso tra lucidità e follia, di quei tempi da lupi che stavo vivendo, densi di infamie e miseria morale, tempi che in un futuro non troppo lontano vorrò probabilmente dimenticare.

Oggi il diario non c'è più - non valeva la pena raccogliere quei miei pensieri neri, quelle mie frasi disperate e patetiche su una pagina inutile di un altrettanto inutile diario -. ne ha preso il posto una sorta di agenda, una speciale scatola delle idee (Il taccuino, Bernard Quiriny), un posto in cui annotare parole prima che svaniscano e di cui prendermi cura quando resto da solo, un luogo di sosta della memoria, una palestra delle riflessioni (Il diario di appunti, Marguerite Duras).

Ma in quel diario scomparso, in un lontano giorno di marzo, avevo annotato...



M’imbatto a volte in resoconti storici sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia, sono belli da leggere, affascinano e un po' accarezzano l’orgoglio nazionale, nel presente troppo mortificato. Ma soltanto quelli firmati da storici italiani sono così epici. Dagli storiografi stranieri, che secondo me sono quelli più attendibili, emerge tutt’altra realtà. E attenzione, sto parlando di gente del calibro di Dennis Mack Smith e di Arthur Clarke. Da tali studi, che si basano su documenti storici attendibili, pare che l’Unità d’Italia sia stata accidentale, cioè, che sia avvenuta come per caso, mentre si stava facendo qualcos’altro.

Ma com’è possibile?

Se ci pensate bene, se leggete attentamente fra le righe della Storia, quella ufficiale, quella con la esse maiuscola, vi accorgerete che è così.

Garibaldi partì da Quarto per sbarcare in Sicilia e da lì risalire la penisola fino a Roma, liberarla e farne la capitale d’Italia. Ma lo desiderava soltanto lui, idealista fuori dal mondo (“un onesto babbeo” lo definisce Leonardo del Boca in Maledetti Savoia). Infatti, tutto questo, per evidenti ragioni di realpolitik non si poteva fare, senza scatenare una guerra europea, che nessuno aveva interesse a combattere, con Francia, Austria, Russia, Prussia, Inghilterra e la neonata Italia. Allora Vittorio Emanuele, allarmato da Cavour, attraversò di volata le Romagne, le Marche e gli Abruzzi e lo fermò a Caianello. E, voltandosi indietro, si rese conto di essere diventato Re d’Italia, praticamente senza volerlo e soprattutto, senza sapere cosa farsene. Ma qualcosa ci fece e non fu la cosa migliore che poteva.

Chi può più credere, ormai, alla favola che siano bastati 1.000 uomini male armati e messi peggio in arnese, ma con la camicia rossa, a piegare l’esercito più numeroso e meglio organizzato della penisola italica e soprattutto, senza essere stati prima intercettati dalla più potente marina da guerra del Mediterraneo (l'Armata di mare borbonica), dopo quella francese e di Sua Maestà britannica?

La storia dell’Unità d’Italia, al di là della retorica ufficiale appare, in realtà, come un intreccio di servizi segreti (piemontesi, inglesi, francesi), potenze straniere (Francia, Inghilterra), associazioni segrete (carboneria, massoneria, Giovane Italia), fondi neri (il famigerato milione di piastre turche, una cifra spropositata per l’epoca, tirata fuori non si sa da chi, per ungere e corrompere governanti e funzionari borbonici e alti ufficiali dell'esercito e della marina), corruzione (appunto!), malaffare (spoliazione di terre alla Chiesa e ai nobili decaduti, per rivenderle all’asta, anziché assegnarle ai contadini meridionali che da secoli le inzuppavano di sangue e sudore, industrie e fiorenti manifatture del Sud distrutte o costrette a chiudere ed essere sacrificate a quelle del Nord), stragi, di stato (e non), impunite (sempre): Bronte, Pontelandolfo, Casalduni e tante altre, intrallazzi con la criminalità organizzata (con i picciotti mafiosi per preparare dapprima la pseudo – insurrezione e poi lo sbarco in Sicilia).

Ma tutto questo non vi ricorda qualcosa? Qualcosa di familiare, qualcosa che sa maledettamente di deja - vù?

Non vi sbagliate, la recente storia italiana è piena di tutti questi elementi fondativi. Non siamo andati poi così lontano dal Risorgimento. Anzi, l’Italia è stata costruita proprio su queste basi.

L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro?

Neanche per sogno.

L’Italia è stata fondata sulla corruzione, sul malaffare, sulle cento stragi ancora in cerca di un colpevole e di un perché.

I servizi segreti deviati, insieme a quelli stranieri (CIA e KGB in primis) hanno operato senza scrupoli e influenzato pesantemente la politica italiana, potenze straniere come gli Stati Uniti e l’ex URSS hanno fatto deviare più volte il corso della storia, condizionandone gli eventi. Non dimenticate che l’Italia era, durante la guerra fredda, il campo di battaglia fra l’Occidente e il blocco comunista. I fondi neri (per finanziare illecitamente i partiti e per ogni altro genere di impiego delittuoso) ci sono sempre stati (dopo è arrivata anche la depenalizzazione del falso in bilancio, per nasconderli meglio), così come le associazioni segrete e massoniche (loggia P2, Gladio, Gladio rossa, Grande oriente). La corruzione e il malaffare hanno costituito e tutt’ora costituiscono la trama e l’ordito sul quale si muovono interessi di pochi a scapito di molti, lobbies partitico – affaristiche e subdoli personaggi in cerca di notorietà e successo, che imperversano riempiendo le cronache (tangentopoli, il crac del Banco ambrosiano, lo Ior, il crac Parmalat, i furbetti del quartierino, le escort, quelli che ridevano durante il terremoto de l’Aquila, pensando all’affare della ricostruzione), stragi moderne, omicidi eccellenti e sparizioni misteriose continuano a restare impunite o praticamente tali in un lungo e sanguinoso elenco (strage di Piazza Fontana, strage di Piazza della Loggia, strage di Peteano, strage dell’Italicus, strage di Ustica, strage di Bologna, strage di San Benedetto Val di Sambro, incidente aereo di Mattei, omicidio di Pasolini, omicidio di Sindona, omicidio – suicidio di Calvi, rapimento omicidio Moro, sparizione di Emanuela Orlandi) e grazie a Dio, non ci siamo mai fatti mancare gli intrallazzi con la criminalità organizzata (il patto scellerato fra DC e Cosa nostra, la trattativa tra lo Stato e la Cupola all’epoca della deriva stragista mafiosa, le vicende del senatore Dell’Utri, quelle di Mangano, stalliere di Berlusconi, addirittura, i legami, presunti, perché ancora oggetto di indagini, tra la ‘ndrangheta e la Lega Nord).

Il presente affonda pesantemente le radici nel passato, così come il futuro le affonderà nel tempo presente.

Non c’era scampo, quindi? Non c’era davvero alcuna possibilità di poter vivere in un’Italia libera e indipendente, onesta e fondata sul lavoro, come recita la Costituzione? Dove personaggi loschi e delinquenti matricolati stiano davvero nell’unico posto in cui meritano di essere e cioè, in galera e non comodamente assisi in Parlamento (quando ci vanno)?.

E il futuro cosa ci riserverà? Se traiamo auspici dal presente e dal recente passato, probabilmente, anzi, senza probabilmente, ben poche speranze.

Povera Italia! Ancora serva e derisa, ancora divisa (1).

Ancora troppo simile a quella che era sotto gli stivali degli Austriaci.

Ancora uguale a quella cantata nel semisconosciuto Inno nazionale.



  1. Noi fummo da secoli calpesti, derisi
    perchè non siam popoli
    perchè siam divisi
    (Inno, Goffredo Mameli 1847)

Nessun commento:

Posta un commento