lunedì 22 settembre 2014

Molise, I want to believe!


 

In Molise abitano 350.000 persone. Di esse, circa 10.000 sono croati, altri 10.000 greco – albanesi, poi un numero imprecisato di rom e sinti e una discreta comunità araba (la moschea e il cimitero islamico sono realtà dagli anni sessanta del secolo scorso).

Gli zingari (mi spiace chiamarli così, perché pare dispregiativo, ma credo che pochi conoscano termini come romanì, sinti e korakhanè) sono arrivati in Molise tra il Quattrocento e il Cinquecento e da allora, viviamo casa a casa in pace con loro, non vi è ricordo del più piccolo screzio tra la loro comunità e quella molisana. Certo, i rom hanno le loro tradizioni e noi le nostre, ma non ho mai riscontrato altrove la tolleranza e il senso di ospitalità che c’è in Molise.

In Molise sono arrivati i Sanniti, si sono trovati bene e sono rimasti. Poi sono arrivati i romani (scrivo romani con la minuscola, perché li odio, hanno sconfitto i nostri combattivi predecessori), si sono trovati bene e sono rimasti, e poi i Normanni, i Longobardi, gli Spagnoli, i Saraceni (gli unici a non essere rimasti, ma avevano altre intenzioni) e così via, fino a oggi.

Conclusione: chi viene in Molise non se ne va più, perché si sta troppo bene. Se solo fossimo meno isolati come territorio e avessimo qualche risorsa in più che non ci costringesse a emigrare, sarebbe proprio un paradiso terrestre. Abbiamo il mare e le montagne, siamo una piccola Svizzera o una Scozia in miniatura (non lo dico a caso, il grande romanziere Piovene aveva scritto che i paesaggi del Molise gli ricordavano la bellezza tragica delle Highlands scozzesi, uno sfondo ideale per il Macbeth), buon cibo e brava gente, lavoratrice e caparbia, che non si lamenta mai, anche se si ricordano di noi solo quando si devono pagare le tasse.

In verità, siamo italiani misconosciuti. Pochi sanno dov’è il Molise. A me è capitato di sentirlo situare tra l’Alto Adige e le Marche e spesso lo confondono, chissà perché, proprio con quest’ultima regione. Segno che i programmi scolastici ministeriali dedicano sempre meno attenzione alla geografia e questo è il risultato. Una volta c’era addirittura un sito creato con lo scopo di mettere in dubbio l’esistenza della regione http://copiaeincolla.wordpress.com/2007/10/19/molise-confronting-the-evidence/. Lo slogan del sito era “Molise, I want to believe”, Molise, voglio crederci (nella tua esistenza), che è praticamente lo stesso motto che si trova sulle t-shirt degli appassionati di ufologia, sotto la faccia improbabile di un alieno schiantatosi a Roswell. Chissà, magari scopriamo che Roswell è unito al Molise da un corridoio spazio – temporale… A parte l’ironia, quel sito coglieva un fondo di verità. La scarsa conoscenza, se non l’indifferenza degli altri italiani nei nostri confronti, se non una vera e propria intolleranza, manifestata dal catalogarci nel multiforme calderone dei terroni sporchi, lamentosi e cattivi, con lo scopo di affibbiarci comunque una categorizzazione che li faccia stare tranquilli. La gente, si sa, si tranquillizza se può ricondurti a qualche categoria prestabilita, è la diversità, l’inclassificabilità, che destabilizza.

Io sono un po’ del Molise e un po’ no. Mia madre certamente lo è, mio padre no. Così nelle mie vene scorre tumultuoso sangue geograficamente misto, molisano, campano, pugliese, sangue pazzo che mi rende così irrequieto e instabile come una piramide a testa in giù in bilico sul proprio vertice. Ma, forse, quel mix ematico è un vantaggio, un dono. Da qualche parte ho letto che l’inquietudine è la materia prima della creatività. Così mi spiego questo post e tutti quelli che ho scritto in precedenza e che scriverò (o, almeno, è quello che spero) e che avrete la pazienza e la bontà di leggere (e anche questo è quello che spero).

Fino ai primi anni settanta del Novecento, il Molise era la regione più povera d’Italia, falcidiata dalle carestie e dalle emorragie delle emigrazioni. Agli inizi del 2000 avevamo fatto passi da gigante, si era sviluppato qualche embrione d’industria e pareva che il turismo stesse per decollare, il PIL cresceva, tanto che eravamo usciti dall’Obiettivo 1 di Agenda 2000 dell’Unione Europea, quello delle Regioni in ritardo di sviluppo e stavamo per entrare nell’Obiettivo 2 dei territori con qualche carenza sociale, economica e infrastrutturale meno grave (per capirci meglio, dirò che in tale Obiettivo vi erano anche alcune zone del Nord Italia). La G.C.S.E. (Grande Crisi Socio – Economica), ahimè, ci ha fatto rimpiombare nel medioevo.

Quando avevo vent’anni e pochi soldi in tasca, le vacanze estive le consumavo, insieme alle scarpe, vagabondando zaino in spalla per paesi e vallate, boschi e montagne. Esploravo il Molise, la mia terra. Vacanze low cost, si direbbe oggi, anzi, without cost, per essere precisi, ma non mi sono mai divertito come allora, quando giravo praticamente senza un soldo in tasca.

A volte, ci capitava di accamparci tenda a tenda, a fianco agli zingari. La sera accendevano il fuoco e noi univamo le nostre chitarre alle loro fisarmoniche, le nostre voci gagè ai loro canti gitani, le nostre mani e i nostri piedi alle loro danze. Si mangiava, si beveva, si cantava e si ballava insieme e nessuno ci ha mai portato via niente. Anzi, ci hanno dato molto, ogni volta. Ci hanno aperto le loro tende e i loro cuori, insegnandoci le loro canzoni, spiegandoci con pazienza le loro tradizioni orali e, quando era ora di salutarci, lo facevamo a malincuore, con il sorriso sulle labbra e un nodo alla gola, sussurrando: “Lacio drom”.

Buon viaggio.
Il miglior augurio che si possa fare a un popolo sempre in cammino.

martedì 16 settembre 2014

Una goccia di vita scappata dal nulla


 


Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla…” E’ il famoso incipit di Lettera a un bambino mai nato, di Oriana Fallaci. Bè, tutti sanno che libro è, davvero non ha bisogno di presentazioni. Era da tanto che volevo leggerlo. Volevo capire, sentire la maternità dalla parte della donna, dalla parte che mi manca, che non conosco, perché sono uomo. Sentire ogni respiro, ogni attimo d’incertezza, ogni frammento di paura che afferra il cuore nel buio della notte. Oggi ho avuto l’occasione di colmare una lacuna. Grazie a te Oriana.

Il tuo è un libro senza tempo, è sempre valido, attraversa gli anni e le generazioni e le domande che ti ponevi sono ancora qui, in cerca di una risposta. “Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?” è la temuta accusa di un figlio scagliata negli anni a venire. La paura di una donna sola è la paura di tutte le donne. Tu la risposta l’avevi trovata, o almeno ti eri ingegnata a cercarla: “Mi dispiacerebbe non essere nata perché nulla è peggiore del nulla… Che m’importa se sei cominciato per caso o per sbaglio, anche il mondo in cui ci troviamo non cominciò per caso e forse per sbaglio?... Tutto avvenne perchè poteva avvenire, quindi doveva avvenire”. Ma le tue risposte non cancellano la paura di una donna, la paura di ogni donna, come dicevo: “Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri”.

Attraverso le tue stupende righe traspaiono le difficoltà di una donna degli anni settanta, nello scoprirsi, in una società intrisa di perbenismo ipocrita e assurda morale cattolica, ‘non legalmente’ incinta, di aspettare un bambino senza essere sposata. Morale cattolica? Come può un prete pretendere di giudicare dell’amore tra un uomo e una donna, in nome di quale Dio e di quale legge morale? Per fortuna, ho smesso da tempo di credere nei preti, ma non in Dio.

Ma ecco comparire uno scatto d’orgoglio nell’essere donna e madre in fieri, quasi un’eroina d’altri tempi, da tragedia greca, contro tutto e contro tutti, una Medea al contrario che ha preso la decisione di tenersi e non gettare via un figlio scomodo, ingombrante, del quale neppure il padre ha voluto saperne.

V’è un che di glorioso nel chiudere dentro il proprio corpo un’altra vita, nel sapersi due anziché uno”.

Sono illuminanti le sue parole, per noi maschietti, ci aiutano a riflettere sullo stretto legame tra madre e figlio, che possiamo solo intuire e mai comprendere, vincolo che noi, uomini e padri, non avremo mai. “Certo siamo una ben strana coppia, io e te. Tutto in te dipende da me e tutto in me dipende da te: se tu ti ammali io mi ammalo, se io muoio tu muori. Però io non posso comunicare con te e tu non puoi comunicare con me… Mai due estranei legati allo stesso destino furono più estranei di noi. Mai due sconosciuti uniti nello stesso corpo furono più sconosciuti, più lontani di noi”.

E’ l’ineluttabilità della vita, la necessarietà della genesi, l’imprescindibilità della creazione. La vita dev’Essere, non può non Essere.

Dopotutto sei tu che hai preso l’iniziativa” dice Oriana rivolta alla creatura che porta in grembo “ed io sbagliavo a credere d’importi una scelta. Tendendoti, non faccio che piegarmi al comando che mi impartisti quando s’accese la tua goccia di vita. Non ho scelto nulla, ho obbedito!”.

E anche molta tenerezza.

Svegliati su. Non vuoi? Allora vieni qui, accanto a me. Appoggia la testina su questo guanciale, così. Dormiamo insieme, abbracciati. Io e te, io e te… Nel nostro letto non entrerà mai nessun altro.

Come se maschio, nella duplice forma di padre/compagno, fosse superfluo, inutile, un’istituzione superata… Il sesso inutile, come il titolo di un’altra sua celebre opera, solo che era riferito alla condizione femminile nel mondo arabo.

Purtroppo, non sei riuscita a tenerlo il tuo bambino, Oriana.

E ora non ci sei più. C’è solo un bicchiere di alcool dentro il quale galleggia qualcosa che non volle diventare un uomo, una donna… Tu sei morto. Ora muoio anch’io. Ma non conta. Perché la vita non muore”.

La vita non muore.

Ho freddo e qui dove sono c’è troppo silenzio, forse provo il tuo stesso lucido dolore mentre scrivo queste righe. Ho terminato il libro da poco, l’ho chiuso e l’ho messo via. La copia era nuova, la sua proprietaria, ch’è madre, non l’ha voluto leggere. L’ho fatto io, al posto suo, che sono uomo e padre e subito m’è venuta la frenesia di scrivere, ma le mie righe, in confronto alle tue, fanno ridere, sono superficiali, sono come pietre piatte che rimbalzano sulla superficie del mare, una, due, tre, tante volte, senza andare a fondo.

E’ stato inusuale per me, che non leggo quasi mai libri scritti da donne, desiderare di leggere il tuo. Quelle che ho letto si contano sulle dita di una mano sola. Margherite Duras, Doris Lessing, Harper Lee, Irene Nemirovsky. E naturalmente, Oriana.

Oriana e basta.

Non riesco ad aggiungere un cognome al tuo nome, come se tu fossi una vecchia, cara amica. Ancora una stranezza, perché, io praticamente non ho amiche e c’è una ragione. Prima o poi, ci ho provato con tutte quelle che avevo. Per quelle sventurate che hanno ceduto al corteggiamento, finito l’amore, non c’è stato più posto per null’altro, nemmeno per l’amicizia. Per quelle che hanno resistito, scoperto l’inganno, svelato l’arcano dell’eterno cacciatore, è svanita anche l’amicizia.
Eri così… Oriana, non trovo aggettivi per descriverti e forse, non ve ne sono. Ma, se avessi avuto in dono la tua amicizia, mi sarebbe bastata.

 

venerdì 12 settembre 2014

La lunga vita di Nonno Nicandro


 

Il mio bisnonno Nicandro Melone nacque nel 1888 e nel 1904, a sedici anni, si recò con i suoi fratelli in Russia, a San Pietroburgo. San Pietroburgo nella Russia imperiale era una città ricca e loro facevano i suonatori ambulanti. C’era una tradizione all’epoca, nelle province del Lazio meridionale e del Molise, una tradizione che somigliava a un rapimento: vi erano dei personaggi che battevano le campagne e i villaggi in cerca di bambini e adolescenti da arruolare nei loro spettacoli di strada, che presentavano nelle ricche capitali del Nord Europa. I bambini erano impiegati come saltimbanchi, suonatori ambulanti, a volte semplici inservienti, la loro vita era molto dura, strappati dalle famiglie soffrivano la fame e il freddo e spesso morivano di stenti. Se qualcuno ricorda ancora il cartone animato giapponese Dolce Remi, in cui il protagonista era un bambino affidato a un suonatore ambulante e cercava di tornare a tutti i costi a casa dalla sua mamma, sappia che la base del cartone è tratta da un’usanza spregevole, ma purtroppo vera, delle poverissime province meridionali italiane.

Non mi stupisco quindi che mio bisnonno abbia preso la via del Nord. Con lui c’era anche sua sorella Margherita, che faceva da modella per i pittori e morì di tisi a San Pietroburgo, ma ho già raccontato la sua storia (vedi il racconto breve Flora http://angelo-medici.blogspot.it/2013/10/floratutto-e-inganno-e-illusione-san.html). Posso immaginare che anche la vita di mio bisnonno, come quella di tanti suoi coetanei dell’epoca fosse particolarmente dura, ma in Russia imparò il mestiere del ciabattino. Particolare importante, perché da allora in poi, la famiglia di mia madre, con alterne fortune, si è sempre occupata di calzature e sono nel campo ormai da quattro generazioni.

Ma Nicandro era inquieto, viveva gli anni di un adolescente che si affaccia sulla soglia della vita e smania per trovare la sua strada, il suo posto nel mondo. Così, dalla Russia tornò in Italia, per ripartire subito dopo per l’America, la terra promessa, il mito. Credo che sbarcò a New York dopo un viaggio massacrante in cuccette di chissà quale infima classe, si sottopose alla selezione sanitaria a Ellis Island come tutti gli immigrati e finalmente, sbarcò sul Nuovo Continente. Ma aver attraversato l’oceano non placò la sua inquietudine. Sentiva che quello non era il suo posto, che quella metropoli già all’epoca caotica e invivibile non faceva per lui e prese un altro piroscafo, stavolta sulla rotta del ritorno.

Aveva visto giusto, tornato in Italia conobbe Elisabetta e la sposò nel 1913. Appena il tempo di celebrare il matrimonio ed ecco la giovane coppia attraversare le Alpi e stabilirsi a Parigi. Presero in affitto una modestissima abitazione in rue de Crimèe, la strada degli emigrati italiani. Il 4 luglio 1914 ebbero un figlio, maschio e lo chiamarono Armando, mio nonno (ho narrato della sua infanzia nel racconto Le janare http://angelo-medici.blogspot.it/2013/10/le-janare.html). Ma l’apparente normalità ebbe breve durata, la voglia di mettere radici finalmente in qualche posto che genera la nascita di un figlio, e che ho conosciuto anch’io, nonostante sia inquieto come il mio avo, fu spezzata dallo scoppio della Prima guerra mondiale. Con l’entrata in guerra dell’Italia, la famigliola rientrò in patria e mio bisnonno fu richiamato. Lo spedirono sul Carso a languire in una trincea, ad affogare il respiro dentro una maschera antigas e rintuzzare gli attacchi austriaci. Nel 1916, mentre era in pattuglia di esplorazione oltre le linee italiane, una pallottola esplosiva, sparata da un cecchino, gli maciullò una gamba. Fu ricoverato in ospedale a Cremona, nelle retrovie, dove rimase per un anno, fino al ritorno a casa nel ’17, ebbe altri due figli, Saverio e Margherita, in ricordo della sorella scomparsa in Russia, e visse facendo il calzolaio. A causa della ferita alla gamba gli affibbiarono il soprannome gl’ ciuopp (lo zoppo), che d’allora qualificò la mia famiglia materna.

Ma erano anni difficili, che videro l’avvento del fascismo, una crisi economica simile a quella dei nostri tempi, generata dal crollo di Wall Street (guarda un po’, le crisi economiche sono sempre colpa degli americani) e una nuova guerra. Non fu richiamato a causa della gamba, ma Armando, mio nonno, si, che intanto aveva avuto un figlio, Nicandro e, più tardi, una figlia, Elisabetta, mia madre. Ma come Dio vuole, ogni cosa finisce e terminò anche la seconda guerra mondiale e lasciò un Paese distrutto, in lacrime, con la pelle segnata da cicatrici e ferite, a volte, non rimarginabili. Ma c’era da ricostruire una Nazione e la mia famiglia non stette tanto a piangersi addosso e si rimboccò le maniche. Così, si rimisero in sesto, ricostruirono la casa e tirarono avanti.

Nel 1954, lui che era sopravvissuto alla disperazione delle trincee e ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, rischiò di andarsene per una banale appendicite. Tornò a casa ancora una volta, ma comprese che era giunto il momento di passare la mano al suo primogenito, mio nonno Armando, che proseguì quel mestiere che veniva da lontano, dai silenzi glaciali della capitale del Nord, nella piccola bottega di calzolaio.

Nonno Nicandro. Ai più potrà sembrare strano questo nome e in effetti non è abbastanza diffuso, se non in alcuni paesi del Molise sud – occidentale e in provincia di Foggia (Sannicandro Garganico). A testimonianza della scarsa diffusione, quando mio zio, che si chiama Nicandro pure lui, emigrò a Torino per lavoro, lo chiamavano “Licandro“, e da qui a licantropo il passo è davvero breve… Nicandro era un ufficiale romano originario dell’Asia, che fu martirizzato per decapitazione, dopo essersi convertito al cattolicesimo e dalle mie parti è molto venerato perché accadde proprio lì. Il nome è formato da due sostantivi in lingua greca: nikè, che significa vittoria (la Nikè di Samotracia, splendida scultura di età ellenistica, che è riprodotta anche sulle Rolls Royce e orrendamente storpiato nella pronuncia anglosassone di un noto brand sportivo) e anèr – andròs, che vuol dire uomo. Il nome significa letteralmente “uomo della vittoria” ed è il corrispettivo greco di Vincenzo, che tra l’altro è mio padre. Quindi, non avevo scelta, schiacciato fra due uomini della vittoria, dovevo vincere, o perire. Non so se ho vinto, giudicheranno i posteri, ma di sicuro non sono perito.

Ecco, ho finito. Ho narrato la vita di un italiano a cavallo di due secoli, un’esistenza, forse, come quella di tanti altri, ma non per me. Per quanto mi riguarda, nonno Nicandro è stato unico, una figura quasi leggendaria, anche se l’ho appena conosciuto. E’ scomparso nel 1974, io avevo solo cinque anni, ma mi ricordo ancora che quando andavo a trovarlo nella sua bottega, lui frugava nel cassetto del suo tavolo di lavoro e tirava sempre fuori una caramella o un cioccolatino per me e per ricompensa chiedeva un bacio. E, se ripenso a quegli odori di cuoio, di mastice e di pece, a quella stanza in penombra, al suo volto rude e pungente quando mi baciava la guancia, non riesco a trattenere le lacrime.

Mi sembrava il minimo dedicargli almeno un post.

martedì 9 settembre 2014

L'uomo con un occhio solo



 

L’uomo bianco arrivò in Africa come un gigante con un occhio solo, dice Laurens Van Der Post (in The dark eye in Africa), volendo indagare le ragioni del disprezzo dell’uomo bianco verso l’africano. E sostiene per questo la metafora del ciclope dall’unico occhio, per spiegare che, in quella sua peculiare cecità, in quella sua limitata visuale, l’uomo bianco possedeva ormai solo una “visione esteriore” del tutto votata all’oggettività e al materialismo e, avendo perduto da tempo la propria anima, non aveva più la “visione interiore”, aveva perso cioè la capacità di scandagliare le profondità abissali degli esseri umani. E le tempeste dell’Himalaya sono niente in confronto a quelle che si scatenano nell’animo degli uomini, diceva Nehru.

Da questa perduta capacità di scrutare “all’interno” degli individui, l’uomo bianco attrasse a se, dall’universo dell’irrazionale e quindi, da galassie d’odio e pregiudizi, la convinzione della predominanza della razza indoeuropea su quella africana, dell’asservimento di quest’ultima alla prima e, quale strumento e metodo efficace per mantenere l’Africa in catene, l’apartheid, ossia la segregazione razziale, la separazione delle razze.

Da che mondo è mondo, dicevano gli Afrikaner (i boeri, ovvero i bianchi del Sudafrica), il cane va col cane, la zebra con la zebra e il leone con il leone e non si è mai visto il cane camminare con il leone. In un solo caso la Natura ha consentito che il nobile cavallo si accompagnasse con l’umile asino e il risultato è sotto gli occhi di tutti: il mulo, quintessenza di ottusità e testardaggine. Quindi, guai a violare la legge di natura: le razze superiori non si mescolano alle razze inferiori.

Tuttavia, il ciclope bianco possedeva la scienza, ma aveva perso la saggezza e sottometteva popoli che avevano la saggezza, ma non ancora la scienza, dimenticando quando nel suo passato, prima della rivoluzione industriale, anch’egli possedeva solo la saggezza. E ignorando la profonda verità nascosta nella saggezza delle antiche civiltà africane le rendeva schiave: “Nit nit ay garabam” (“Il vero rimedio dell’uomo è l’uomo”). E’ il concetto di ubuntu: siamo umani solo attraverso l’umanità degli altri. In altre parole, gli altri siamo noi.

Con queste convinzioni, più nel cuore che nella testa, Nelson Mandela seppe risolvere il rompicapo della segregazione razziale e riunificare nel segno dell’uguaglianza l’Africa nera e l’Africa bianca, facendo del suo nemico mortale, il boero segregazionista e oppressore, il suo migliore amico e alleato. La perfetta sintesi di democrazia, uguaglianza e libertà s’incarnò nel suo governo, il primo del Sudafrica a essere retto da un nero, con un vicepresidente bianco e uno di colore, a simboleggiare le due diverse, ma finalmente unite, anime del Sudafrica.

Ma, prima della sua messa al bando, l’apartheid aveva fatto scorrere per molti anni fiumi di sangue, di dolore e morte, nei quali intinsero le penne generazioni di poeti africani. Eccovi le poesie più belle e struggenti, leggetele e gustatevele perché sono perle nere di disperazione.

 

C’era un fanciullo vestito di nero

che si contava le costole

in fondo a una camera chiusa

sulla dolcezza della sera

C’era un cane grosso come la disperazione

che aveva perso una zampa

sognando i resti che avanzavano

da un pranzo ufficiale

C’era un soldato dal portamento drammatico

che ingoiava le pallottole del suo fucile

per non vedere più ai suoi piedi

donne morire col figlioletto in braccio

C’era una prigione tutta bianca

con una cella tutta nera

dove uomini dimentichi del loro nome

erano rinchiusi e mai processati

C’era una donna dallo sguardo spento

in attesa dei suoi undici figli

sulla strada del cimitero

dove non aveva potuto seppellirli

(Henri Boukoulou, Le strade di Soweto)

 

Ho visto sogni volare a pezzi

ho visto fiori neri falciati al chiaro di luna

Ho visto una madre in lacrime

un mucchio di nuvole cavalcare gli orrori

ho visto onde in pianto infrangersi sul continente

Ho visto una vacca divorare i suoi figli uno a uno

il suo latte, un fiume, si gettava in mari lontani

laggiù all’alba di una notte assolata

Ho visto piccoli angeli neri cadere come pietre

nelle strade di Soweto

di Soweto di Soweto

vittime dell’Apartheid

(Leopold Pindy Mamonsono, Mandela l’Africano)

 

Africa guarda

la tua biancheria nera

che brulica di vermi bianchi

Africa guarda

i tuoi piedi che emanano

miasmi afrikaner

Africa guarda

la fiamma della violenza

che incendia le savane di Città del Capo

Africa guarda

ai tuoi piedi fioriscono

i cadaveri dei tuoi figli nati morti

(Georges Ombindu, Africa, guarda)

 

Non è lui il Cristo?

Il salvatore razzista

che mi ha abbandonato

Contro i venti e le maree

continuerò per la mia strada

(Jean Claude Zounga-Bongolo, Contro i venti e le maree)

 

Basta sputi sulla mia pelle color pietra

Basta ferite sulla mia dura schiena d’ebano

Esplodi fiume contro le milizie dell’assurdo

Brontola temporale all’orecchio dei degenerati dell’apartheid

(Claude Bivoua, Sputi)

 

Colpisci, dai colpisci

Fai vibrare la tua frusta

Falla vibrare

Colpiscimi anche sulla testa!

Fino a togliermi il respiro

Mi piace, colpisci!

Colpisci che mi rendi più duro

Colpiscimi, è il tuo mestiere

Colpiscimi cane rognoso da abbattere!

La tua frusta mi ha reso testardo

La tua frusta mi è diventata abitudine

La tua frusta mi ha tolto la paura della morte

(Peetolo Vicka, Le sofferenze della schiavitù)

 

Notte troppo scura

notte scura troppo pesante

per risalire fuori

da questa caverna

Mi annoio di noia

muoio di fame

Cielo! E’ la fine

Non ne posso più

non ne posso più

ma chi mi sente?

Chi?

Il mio grido lo sentite

uomini della terra?

(Alphonse Dzanga Konga, Caverne “Dal dolore nasce il canto”)

 

O voi

popoli empi

granelli abortiti dalla semenza del Rah Ammon

fratelli minori del mio popolo

popoli del Nord così bravi nell’arte del tradire

l’Africa vi saluta!

Voi avete profanato i culti

falsificato le ombre che vegliavano nella pace delle tombe

truccato mutilato Mosè e il Pentateuco

cambiato nome ai profeti e usurpato il figlio dell’uomo

figlio di Horus

popolo di anticristi

l’Africa vi saluta!

(Bernard Zadi Zaourou, La danza della morte)

 

Inventarono l’apartheid. I grandi padri boeri. Una parola che ne nascondeva altre mille. Una parola sola per dire che i neri non potevano stare con i bianchi, non potevano avere gli stessi diritti, non potevano cogliere le stesse opportunità, una parola terribile per stabilire che i neri, nati liberi in Africa, nei loro villaggi natali e nelle strade delle loro città, nelle regioni che componevano il loro vasto paese, non erano liberi, non erano uomini. Poiché senza libertà non siamo uomini, siamo animali in gabbia.

E’ tutto per oggi. Per fortuna, l’apartheid è solo un brutto ricordo. Ma è meglio non dimenticarcene mai.

mercoledì 3 settembre 2014

21 euro


 

“Ce le hai le magliette del Napoli per bambini?”

Il venditore sgrana gli occhi e si mette subito alla ricerca delle magliette azzurre nella sua stamberga ambulante. E’ un bambino pure lui e non è neanche italiano. Lo capisco perché confonde le casacche partenopee con quelle della Juve, dell’Inter, del Milan. Alla fine, trova le magliette giuste e me le mostra. Sono quelle col numero 17, del capitano del Napoli. Avrei preferito un altro numero, ma ha solo quelle. D’altra parte, Hamsik non mi dispiace, come persona e come calciatore. Intanto, il bambino continua a frugare, mette all’aria mezza baracca, ma non trova altro.

“Mi dispiace” dice solo. Credo che tema che non le compri le sue magliette. Non deve avere più di dieci anni, l’età di mio figlio grande e penso che non dovrebbe stare qui, nella polvere, sotto il sole di agosto, tutto solo in mezzo ai grandi, in una strada trafficata a vendere le magliette dei calciatori. Ha gli occhi scuri, grandi, che si fanno ancora più grandi a ogni domanda, i capelli neri, quasi crespi, la pelle olivastra. E’ molto magro. Mi si stringe il cuore.

“Quant’è?”. Mi verrebbe voglia di comprargli le carte di Yu-Ghi-Oh, o l’ovetto Kinder. Magari gli farebbe piacere un gelato, con questo caldo.

Lui ci pensa un po’, poi, a bassa voce: “Sono 21 euro”.

“Quanti?” faccio, ma ho capito benissimo.

“20 euro”

Sono sicuro che se chiedo ancora, il prezzo si abbasserà di un altro euro. Venti bigliettoni sono tanti per un paio di magliette per bambini, false per giunta, e poi del Napoli. Cercano tutti quelle della Juve, dell’Inter, del Milan. Chi vuoi che compri le magliette del Napoli sotto il sole di agosto da un venditore ambulante improbabile come un bambino?

Io.

Però, venti euro sono parecchi e in altre circostanze contratterei il prezzo. Di solito, si sostiene che la merce è scadente, fallata, per farselo abbassare. Il venditore inizia allora a recitare la sua parte, fa finta di offendersi, giura e spergiura che la sua mercanzia è di prima qualità, il tira e molla va avanti per almeno un quarto d’ora, si discute animatamente, si alzano le voci, i toni si accendono, si arriva quasi alle mani. Ma è tutta una messinscena, sono schemi ben consolidati, usa così dalle mie parti. Non si deve mai pagare il prezzo che chiede il venditore. Il venditore, naturalmente, lo sa e il primo prezzo che spara è salato, salvo poi abbassarlo al termine della trattativa. Il mercanteggiamento va sempre a buon fine, con soddisfazione di entrambe le parti. Ma a volte, l’affare non si conclude e venditore e compratore diventano eterni nemici che si minacciano reciprocamente la morte.

Ecco, in altre circostanze avrei fatto così. Ma oggi no. Come si fa? I suoi occhi sono così grandi ed egli è così piccolo. Non potrei mercanteggiare con lui, sarebbe come mercanteggiare con i miei figli, ai quali sono destinate le due magliette. Non ha importanza il prezzo, non ha importanza la qualità del tessuto, non ha importanza neppure il fatto che aveva solo quelle e mi sono dovuto accontentare.

Non ha importanza.

Tiro fuori la somma richiesta senza battere ciglio. Ma non ha neppure il resto! Questo dev’essere il primo incasso della giornata, e sì che è già mezzogiorno passato. Prende le banconote dalla mia mano e, svelto, s’infila in un bar, uscendone poco dopo con il resto. Me lo conta in mano. E’ esatto.

“Va bene?” fa quasi incredulo mentre ripongo il denaro. Teme forse che io ci ripensi e chieda indietro i soldi, oppure che pretenda un ulteriore sconto.

“Si, va bene. Ciao”

Il suo volto s’illumina in un sorriso splendente, denti candidi sulla sua pelle olivigna, fa male agli occhi il riflesso del sole sul bianco dei suoi denti, sul bianco dei suoi occhi. Fa male lasciarlo lì, tutto solo, sull’asfalto bollente.

Giro i tacchi e schizzo via, nel flusso della gente, nel traffico di una giornata qualunque sotto il sole di un agosto qualunque. E torno a essere un signor nessuno, un volto anonimo in mezzo alla gente, né meglio né peggio dei tanti altri signor nessuno, ognuno nel suo giorno d’agosto qualunque, alla fine delle vacanze, che paiono quasi la fine di un’era, la fine di una vita e l’inizio di un’altra.

 

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