venerdì 18 aprile 2014

Meditate gente, meditate


Vi ragguaglio sulla mia prima meditazione.

Mi sono accomodato (si fa per dire, perché non è punto comoda la postura), nella posizione del loto, ho chiuso gli occhi e sono andato. Sono riuscito a concentrarmi abbastanza rapidamente e sono partito.

E’ stato un vero e proprio viaggio fuori dal tempo.

 Sono salito verso l’alto, lentamente. Vedevo il mio corpo immerso nella meditazione, un fior di loto che fluttuava nello stagno immobile del tempo e intanto m’innalzavo in volo verticale, attraverso il solaio di casa, attraverso il tetto, fino a librarmi sulla città. Ma l’ascensione non si arrestava, volavo sempre più in alto, sopra le nubi. Ero altissimo, riuscivo a vedere perfino la curvatura terrestre e oltre il blu dell’atmosfera, il buio profondo dello spazio siderale. Avevo l’impressione che, durante l’ascensione, una qualche forma di energia tenesse ancorata la mia anima al corpo immobile nella meditazione, laggiù in basso, come il filo di un palloncino colorato. Forse è l’energia vitale, quella che ci tiene legati al corpo e ci lascia se le Moire Cloto, Lachesi e Atropo tagliano il filo quando è giunto il tempo dell’addio e il pallone è finalmente libero di volare.

Ma continuavo a salire e ad allontanarmi dalla terra. La scorgevo sempre più sferica e lontana, azzurra e verde, bellissima e splendente contro lo sfondo nero dello spazio. Poi è diventata solo un puntino luminoso che ruotava insieme ad altri otto intorno al sole, quindi, l’intero sistema solare è divenuto anch’esso un puntino luminoso in una zona periferica e remota della galassia. Infine anche la Via Lattea è diventata solo un puntino nel buio dell’universo. E all’improvviso è svanito tutto, quasi se la realtà che conosciamo, che siamo avvezzi a percepire, a toccare, a respirare si fosse liquefatta come neve al sole.

Ero solo in uno spazio enorme, senza fine, vuoto, buio e freddo. Non avendo più un corpo, mi percepivo come una sorta di occhio che tutto scorge, avevo infatti coscienza di tutto. Nulla mi sfuggiva, il passato, il presente, il futuro, tutto era mio. Con uno sguardo potevo abbracciare ere ed eoni. I secoli erano inezie.

Sentivo che il tempo, che non mi era mai appartenuto, era ora indissolubilmente mio. Potevo rallentarne e accelerarne il corso a mio piacimento e anche arrestarlo del tutto. Il tempo, semplicemente, non esisteva.

Ero un essere senziente, fatto solo di consapevolezza ed energia. Non percepivo più il cordone che mi legava al corpo e cominciai a sentirmi molto solo in quel vuoto senza dimensioni.

Solo più tardi mi sono accorto di non esser solo. Ho cominciato a vedere intorno a me dei puntini luminescenti, prima pochi, poi sempre più numerosi e lo spazio si è completamente riempito di queste luci tremolanti. Mi sembrava d’essere in un campo stellare e mi avvedevo che ero diventato anch’io un punto luminoso, una stella nel cielo.

E allora ho capito.

Ho intuito che c’erano altri esseri insieme a me, fatti solo di luce, della stessa luce di cui ero composto anch’io. Eravamo frammenti di luce che si riuniscono alla luce, frammenti del Se che ritorna al Se.

In quel momento, una voce ha sussurrato al mio orecchio e per la prima volta nella mia vita, ho capito. Finalmente, è stato tutto molto chiaro e luminoso. Un istante d’infinita chiarezza. E l’equivoco di fondo, che siamo esseri distinti, separati, autonomi, che siamo atomi, è stato spazzato via, strappato completamente, dalla verità.

“Noi siamo parte del tutto” sussurrava la voce “E torniamo al tutto”.

Dopo la rivelazione, ero appagato e soddisfatto e sarei voluto restare per sempre in quell’abisso senza tempo. Ma ho cominciato a sentirmi sempre più pesante e ho capito ch’era giunta l’ora di tornare. Ho ritrovato il filo che mi legava al corpo e mi è bastato seguirlo. Man mano che scendevo, si faceva sempre più robusto. Così sono precipitato sulla terra e sono ripiombato nel mio corpo. Nello stesso istante ho aperto gli occhi.

Ho controllato l’orologio e mi sono accorto con sorpresa che erano passati 40 minuti! Mi avevano detto che, di solito, la prima meditazione non dura più di cinque, dieci minuti.

Al “risveglio” ho avuto freddo. Ho avuto freddo per tutta la giornata e non sono riuscito a scaldarmi. Avevo sentito dire che durante la meditazione la temperatura corporea si abbassa di qualche grado ed è normale, quindi, provare freddo. Ma ero felice, appagato, con le pupille dilatate e le endorfine al massimo. Vi giuro che è stato meglio del sesso.

Ma la prossima volta mi porto una coperta.

giovedì 10 aprile 2014

Italiani brava gente?


Gli italiani sono singoli geni che formano, tutti insieme, un popolo politicamente disordinato e immaturo. Una collettività talmente sorprendente da rendere problematico un giudizio complessivo.

Questa è l’analisi, lucida e feroce, di un Alberto Lattuada di alcuni anni fa. Sorprendente non è tanto la spietatezza del giudizio, quanto il fatto che, a distanza di anni, il parere resta di un’attualità e di una validità, che risultano spiacevoli. E noi italiani così siamo. Un mix fatale e irrimediabile di genio e sregolatezza, intuito e bassezza, miserie e ricchezza. Passiamo dal genio di Leonardo alle atrocità geniali di Totò Riina, dalle miserie del dopoguerra, al boom economico, alle miserie della Grande Crisi, fino alla scempiaggine, talmente ingente da apparire quasi paradigmatica, del naufragio della Costa Concordia – paragonabile a una bella donna selvaggiamente oltraggiata dall’ignavia e dall’incapacità di un uomo che non la meritava, il suo comandante – e al suo salvataggio, giustamente glorioso e tecnologicamente salvifico, quasi fosse la metafora di un’Italia capace di riscattarsi, di un’Italia in grado di salvare sé stessa dal naufragio.

L’Italia è un paese grande, ma non è e, temo, non sarà mai, un grande paese. Resteremo per sempre confinati, reclusi in una terra di grande bellezza, quasi sconvolgente, oserei dire, che non sappiamo apprezzare e tutelare, una provincia del moderno Sacro Romano Impero, rigeneratosi, come una fenice recalcitrante dinanzi alla morte, nell’Unione Europea. Provinciali siamo e provinciali resteremo, nel profondo dell’anima.

E poi, non siamo e ripeto, non siamo capaci di rispettare le leggi neppure per un maledetto secondo delle nostre vite sregolate. Qualsiasi sfigato sbirro di periferia è sicuro di scovare irregolarità e scoprire delittuosità, più o meno gravi, solo a sollevare un lembo di quel misero tappeto sotto il quale nascondiamo le nostre atrocità più perverse, frutto delle nostre indolenze e perversioni e banalità e furbizie, che chiamiamo terra italiana.

L’Italia è una repubblica (?) democratica (?) fondata sull’illecito, mi verrebbe da dire, parafrasando il Calvino di Apologo sull’onestà, articolo lucidissimo e profetico apparso su La Repubblica del 15 marzo 1980, che aveva scritto senza sapere nulla di Ustica, della strage di Bologna, di Gladio, della loggia P2 e di tante altre nefandezze, ancora di là da venire.

I nostri governanti non ne vengono a capo. Nessuno rispetta le regole, a cominciare da loro. Le leggi sono oscure e si prestano a interpretazioni contrastanti. Inutile stupirsi, sono il frutto di un compromesso politico (in questo sì, siamo maestri, abbiamo inventato le larghe intese, le convergenze parallele, i patti di desistenza, le maggioranze a geometria variabile), in base al quale, non si può far dire alla legge ciò che deve dire, cosa è vietato e cosa non lo è, ma farlo intuire, trasparire appena dalla selva dei commi e dei paragrafi, come fossero messaggi subliminali destinati a pochi eletti. Allora, se la legge non è chiara, i cittadini non la rispettano (mancava loro solo un’altra giustificazione) e i nostri governanti, che cosa fanno? Non semplificano la scrittura della norma, rendendola comprensibile a tutti, non abbandonano lo stile dogmatico – leguleo della nostra beneamata Repubblica, anzi, se ne guardano bene. Inaspriscono le pene, come a dire al cittadino: la legge non è chiara? Non m’interessa, ma sappi che se non la rispetti, ti sbatto dentro e butto via la chiave.

Italiani brava gente?

Sfatiamo questo mito.

Si parla della bontà e dell’umanità dei soldati italiani, che si distinsero nelle guerre italiane e si distinguono ancor oggi per questo motivo nelle missioni all’estero.

Ma, sarà vero? Vediamo.

Sapete perché ci odiano tanto in Slovenia e in Croazia? Ve lo dico io. Perché i soldati italiani a caccia di partigiani titini avevano il vizietto di rinchiudere gli abitanti dei villaggi che conquistavano nelle loro case e poi appiccavano il fuoco. Con la gente dentro.

Fumo di slavo, che vuoi che sia?

Inaudito! Invece, no. I militari italiani avevano fatto la stessa cosa in Libia e in Eritrea, al tempo delle guerre coloniali.

Che vuoi che sia? Fumo di negro.

Ma quello che fecero in Africa, l’avevano imparato a fare nel Meridione, all’epoca della campagna per l’Unità d’Italia. I bersaglieri, per rappresaglia a seguito di un’imboscata subita a opera di un gruppo di briganti, durante la quale i briganti catturarono e uccisero 44 soldati (non notate la straordinaria analogia con le rappresaglie naziste alla fine della seconda guerra mondiale, a seguito delle azioni partigiane?), occuparono due paesi in provincia di Benevento, Pontelandolfo e Casalduni e per rappresaglia, diedero fuoco alle case con gli occupanti dentro, non senza prima aver stuprato le donne e infilzato con la baionetta i neonati.

Fumo di terrone. Che vuoi che sia?

Morirono a migliaia, ma nessuno lo sa, o vuole ricordare. Le vittime furono più di novecento, ma nessuno lo sa con sicurezza, nonostante siano passati più di 150 anni, gli archivi sono ancora segreti. Venti per ogni soldato caduto nell’imboscata. Nella strage delle Fosse Ardeatine il rapporto fu – solo – di dieci italiani per ogni soldato tedesco, come ci ricorda il bravissimo Pino Aprile nel suo Terroni! Ma i bersaglieri erano a scuola d’Africa, dovevano pur esercitarsi con qualcuno se dovevano sottomettere l’Etiopia e l’Eritrea, o no? Un ragazzo di Pontelandolfo al quale era stato ucciso il padre e violentata e orribilmente uccisa la madre, riuscì a salvarsi dal rogo e fuggì all’estero, si arruolò nell’esercito austriaco e colse l’amara vendetta di trucidare a fucilate e a colpi di baionetta decine e decine di soldati del neonato Esercito Italiano durante la battaglia di Custoza.

Italiani brava gente?

Meglio tacere.

mercoledì 2 aprile 2014

Un anno di blog


Oggi il mio blog compie gli anni. Un solo, ma ha raggiunto, grazie a voi lettori, risultati importanti.

Quando ho iniziato a pubblicare sul blog, temevo di non aver nulla da dire, che mi sarebbero mancati gli argomenti, che si sarebbe esaurita la verve creativa, già difficile da cercare, come una vena d’oro nascosta da un Dio geloso nel cuore inaccessibile della terra. Invece, non è accaduto.

A volte immagino il mio blog come un giornale. Un periodico che pubblica le mie insignificanti e banali vicissitudini. Insignificanti e banali, ma indiscutibilmente mie. E, per procedere con i parallelismi con la carta stampata, il blog è come un quotidiano. Il quotidiano di me stesso.

Un giornale è come un romanzo a puntate che racconta la vita, sostiene un bravo giornalista come Beppe Severgnini. E un buon giornalista è, in fondo, anche un bravo scrittore. Ad esempio, Dino Buzzati faceva entrambi i mestieri in maniera superlativa, ma forse, anzi senza forse, semplificare giornalismo e letteratura a mestiere è indegno e anche riduttivo. Letteratura e giornalismo sono professioni, professioni di vita e di fede. In ogni modo, vi era chi sosteneva che la narrativa di Buzzati, rispetto alla sua scrittura giornalistica, era “lo stesso guanto, ma rovesciato” (Eugenio Montale). Ovvero, il dritto è la realtà, è materia di carta stampata, il rovescio, la sua rappresentazione letteraria, è, viceversa, materia di romanzo. Non vi è chi non veda che ho accordato a me stesso, ingiustamente, il permesso d’interpretare Montale. In ogni caso, fortunato il giornale che poteva permettersi di indossarlo quel guanto, ospitando gli articoli di Buzzati.

Un blog è molto simile a un giornale. Il mio, naturalmente, non ha alcuna pretesa di rappresentare la realtà, la cronaca, la storia. Di realtà e cronaca ritrae solo la mia. Per mia fortuna, non faccio il giornalista e posso scegliere di cosa parlare. Dunque, scrivo di quello che mi colpisce, che mi intriga, che mi affascina e sconvolge, nel bene e nel male. Lo scrittore è come una spugna di mare. Assorbe parole, vicende, sentimenti. Sente la storia, il mondo, la vita. E lentamente, goccia a goccia, la spugna si svuota sul foglio e lo bagna dei suoi umori, rende alle fibre della carta ciò di cui si è impadronita dalle fibre del reale. E così, anche lo scrittore attinge al mondo e al termine del processo creativo, restituisce al mondo. E lo scrittore cede il passo al blogger, e viceversa. Almeno, nel mio caso funziona così. Credo, però, che non basta saper scrivere per essere un bravo giornalista, non sempre vale l’equazione scrittore = giornalista. Scrivere sui giornali non è come scrivere un libro. Occorrono altre doti, la testardaggine, la curiosità al limite del morboso, un fiuto investigativo da far invidia a Scotland Yard e, per ultimo, ma non meno importante, l’essere rompicoglioni assillanti, perché è solo martellando con la costanza di una goccia sulla stalagmite che si ottengono le notizie.

Stalagmite. Questa parola mi fa venire in mente gli Stalag (abbreviazione di Stammlager), i campi di concentramento tedeschi per i prigionieri di guerra e il più famoso di tutti, lo Stalag 17, dall’omonimo film del 1953 di Billy Wilder. Una curiosa assonanza che non c’entra nulla.

O forse sì.

Tanti scrittori e tanti giornalisti subirono e subiscono ancora oggi la segregazione di altri lager e trattamenti disumani. In questo caso l’equazione funziona in entrambi i versi.

Ma torniamo al blog.

Nel suo primo anno di vita, ho pubblicato quarantasei post, mi avete letto più di cinquemila volte, da Italia, Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Olanda, Romania, Serbia, Regno Unito, Polonia. Ora, mi chiedo riflettendo sulle statistiche, chi mi legge mai nei Paesi Bassi, o in Russia e Polonia? Mah!

Il blog ha accompagnato la mia produzione letteraria. Ho scritto dal nulla un nuovo romanzo, ne ho riscritto un altro (che spero veda la luce entro l’anno), scritto qualche brano di un terzo e, infine, ho pubblicato il mio primo libro.

Non potevo sperare in meglio.
Grazie a tutti.