sabato 4 maggio 2019

Di luce e d'ombra - Impressioni di giugno





In città il tempo che passa, le stagioni che cambiano si avvertono soltanto da lontano, fluide e leggere come vaghe impressioni. Impressioni di giugno: aria trasparente e tiepida al tramonto, notti calde e serene, inondate di luna piena, la sua luce una crema argentea che ricopre la superficie di ogni cosa. Le scrissi su un foglio ma, nel momento stesso in cui l’ebbi fatto provai ribrezzo e nausea e strappai la carta, ne lacerai le fibre con lenta, voluta crudeltà. Se tendevo l’orecchio mi pareva quasi di sentir gemere la carta, sentir piangere delicate lacrime di cellulosa.

La notte stendeva il suo velo sull’immensa pianura, come un mare immobile nel tempo. Ogni cosa era ricoperta dalle tenebre, ogni cosa era immutabile.

Tesi meglio le orecchie. Qualcuno piangeva davvero. Non era la carta e non ero neppure io. Il pianto, ma più che un pianto pareva un mugugno flebile e soffocato, veniva dalla stanza di là. Mi alzai a vedere. Christopher piangeva con la bocca contro il cuscino, singhiozzava a tratti, ma lo faceva in stato di sonno profondo, era completamente addormentato. Gli accarezzai la fronte.

Su, su, non è niente”

Non si svegliava, lo scossi.

Su, su, è soltanto un brutto sogno”

Lo scossi più forte.

Su, su”. Gli accarezzai i capelli. E finalmente si ridestò.

Aprì gli occhi e mi fissò. Volsi subito lo sguardo altrove. Per un attimo avevo avuto l’impressione, molto sgradevole, che Christopher avesse finto di dormire per dissimulare il pianto e poter sostenere poi di avere singhiozzato durante il sonno.

Si, si… un brutto sogno, brutto…” farfugliò.

In quel momento fui sicuro di aver violato la sua intimità, il suo diritto di provare dolore, il suo diritto di piangere, da solo, come un uomo.

Ma lui si mise a sedere sul letto, mi guardò finalmente e la mia presenza divenne all’improvviso meno estranea e l’ombra che proiettavo sulle pareti si fece più morbida e si fuse con la sua. Sembrava l’ombra del fratello maggiore che si prende cura del fratello più piccolo.

Mi interessa poco di molti, ma molto di pochi” disse “E tra i pochi ci siete tu e Lea. Adesso non metterti a ridere, non prendermi per sciocco” Sospirò. “Lo so bene che Lea è una lurida troia, una bagascia rivoltante, una puttana da bassifondi. Ma lei è la sola donna che amo, l’unica che ho sempre amato, l’unica che amerò. Per sempre.”

Questo disse Christopher e piangeva mentre lo diceva e singhiozzava mentre lo diceva e io volevo credergli, lo giuro, avrei tanto voluto credergli. Ma si dava il caso che Lea iniziasse a piacere anche a me e che mi piacesse molto.

Non ti merita Christopher” aggiunsi dopo aver rimuginato un po’ “Lea non ti merita, non è degna del tuo amore sacro e puro, luminoso e ardente.”

Non dissi altro, non potevo aggiunger altro. Cosa avrebbe detto Christopher se gli avessi rivelato di me e di Lea nella latrina e di quello che provavo per lei?

Era qualcosa di indefinito, d’indecifrabile, inspiegabile. Qualcosa di oscuro. Cosa avrebbe pensato delle umiliazioni che le avevo fatto subire, solo per sentirmi meno sciocco, nella mia pelle d’uomo, più forte nel mio fusto vegetale, protetto dalla mia scorza dura, dalla mia crosta, invincibile, nella mia corazza imperforabile?

Mi interessa poco di molti e molto di pochi, avrebbe detto Christopher. Non mi importa, avrebbe detto, io so amare soltanto lei.




sabato 13 aprile 2019

Di luce e d'ombra - L'altra metà



Sexy sbocciò tenera sotto le dita, sul punto "g" di non ritorno. Sexy fiorì il suo fiore delicato. Magnolia. La migliore delle intenzioni scivolava furtiva fra le sue gambe e rotolava oltre l’estasi. E lei latrava come una cagna in calore, vomitando l’anima, in quella latrina che di sicuro aveva visto tempi migliori.
Lo stesso pavimento grigio, le stesse mura scrostate, sempre uguali, invase da scritte oscene tracciate con il gusto del nulla nella testa e il vuoto nel cuore. Quel pavimento, quelle mura, quella finestra sbarrata su un cielo grigio monotono, piatto, invernale, perfino gli stessi ragni in agguato e le stesse mosche invischiate nelle loro ragnatele, che fluttuavano negli angoli del soffitto, come brandelli di pelle morta, muti spettatori che avevano assistito alle nostre migliori esibizioni e lei aveva pianto commossa anche se non era il caso e le lacrime si erano subito congiunte ad altro sul cemento freddo e lurido del lupanare improvvisato, del nostro bordello da due soldi.
Ma l’esibizione era stata bruscamente interrotta da colpi sordi alla porta, da voci stentoree, dalla richiesta di spiegazioni. Le spiegazioni, quelle, tardavano sempre a venire, al contrario di noi che arrivavamo, venivamo subito e andavamo via, frammenti qualsiasi di dna, filamenti impazziti e contorti, aggrovigliati alle nostre vite e alle nostre storie inutili, indifferenti a noi, inutili per tutti gli altri.
Amavo le sue costole inferriate di una gabbia dorata e i suoi fianchi, misteriose insenature da esplorare. Osservavo il disegno dalle linee arcuate e armoniche e con sottili guizzi di pennello gocciolava il colore sulle sue labbra. Lei deglutiva niente affatto convinta, certa che sarebbe stato meglio non incontrare il mio sguardo, non aver mai incontrato il mio sguardo in quel giorno di vento. Era il momento in cui si chiedeva il motivo del dover cercare la metà di sé in altri corpi ottusi.
Quale merito aveva nella vita? Il suo problema più grande era come occupare il tempo, come tenersi a galla, annaspare fra i soldi, cercando di non affogare. Una vita che non si era meritata si srotolava lenta tra agi non guadagnati e ricchezze inusitate, che le erano cadute sul capo con la casualità di una sentenza emessa da un giudice cieco e folle.




sabato 30 marzo 2019

Di luce e d'ombra - Fango e polvere





Si può girare a vuoto per una vita intera?

Erano mesi che giravo a vuoto, mesi che parevano anni. Una vita intera spesa a girare a vuoto, come la ruota di un ingranaggio costruito male, che non s’incastra con nessuno, che arrugginisce nell’inutilità. D’accordo, lo ammetto, non mi piaceva il mio lavoro, non mi è mai piaciuto prendere ordini e soprattutto, eseguirli, ma c’è qualcuno a questo mondo a cui piace? Se c’è portatemelo davanti: o è un santo, o è un masochista.

La vita mi sembrava grigia e marrone, un composto di fango e polvere, che gocciolava dal cielo, trasudava dalle mura della città, un precipitato lordo e greve, opprimente quanto un sudario, che invischiava la mia vita. Una vita intrappolata in un tempo fangoso, colava ovunque, s’infiltrava dentro gli occhi, impedendomi di vedere, s’insinuava nelle orecchie, impedendomi di sentire, penetrava nella mia bocca, impedendomi di parlare e perfino di respirare.

Giravo per fabbriche e uffici, per centri direzionali dai nomi altisonanti e improbabili, per strade di zone industriali, tristi e fasulle, con i loro bei capannoni grigi che si perdevano nel vuoto. Strade i cui nomi evocavano il lavoro. Via dell’Artigianato, viale delle Industrie, via della Produzione. In alcune remote lande dell’Australia e del Nord America mettono sempre l’acqua nella toponomastica, ma di acqua neppure una goccia.

Evaporata al sole.

Dopo una serie infinita di no, cominciai a pensare che anche da noi stava prendendo piede quella visionaria usanza. Mettere il lavoro dove non c’è n’è, ma soltanto nei nomi delle strade. E il lavoro?

Evaporato al sole.

Non c’è dunque più lavoro in Italia? Il lavoro si era come volatilizzato dalla faccia della terra. Dov’era andato a finire? Da quali braccia proletarie e vigorose era stato stritolato? In quale lontano continente un qualsiasi operaio poteva guardarmi un attimo, beffardo e sornione, prima di avviarsi lento a timbrare il cartellino?

Conoscevo certi padri che sorridevano ancora, ma si capiva che avrebbero fatto qualsiasi cosa per poter mandare i figli a scuola, avrebbero ucciso altri lavoratori pur di prenderne il posto e poter dare risposte alle domande che risplendevano negli occhi delle loro creature.

Dietro ogni porta chiusa c’era un no, dentro ogni fabbrica erano al completo. Ma io sbirciavo all’interno delle catene di produzione e vedevo quattro gatti operai che oziavano di qua e di là, gli sguardi assenti, le teste a ciondolare come vuote, lavoratori stanchi e tristi, stanchi di nessuna fatica. Già, non è il lavoro ad affaticare le membra, è la noia a sfiancare, è l’ozio a uccidere.

Ma che razza di gente siamo noi italiani, capaci di passare dal genio di Leonardo al ghigno di Totò Riina. Siamo individui mediocri, figli sporchi e cialtroni di un’Italia sciatta e senza speranza, non rispettiamo niente e nessuno, neanche noi stessi. Siamo quelli che gettano le cartacce a terra, invece di usare i cestini. Per scoprire dove siamo andati, basta seguire la scia di rifiuti che ci siamo lasciati dietro. Ma sento che abbiamo perso qualcosa in questa crisi, se il lavoro non c’è più, è segno che abbiamo perso la voglia di rischiare, di metterci in gioco, e il lavoro langue, i soldi scarseggiano e le idee pure. Abbiamo perso la capacità di sognare.

Non c’era nessuno che mi voleva, nessuno che avesse bisogno di me. Ora come non mai, avrei accettato qualsiasi lavoro, avrei fatto qualunque cosa, pur di non sentirmi vuoto e inutile.

Chi siamo noi che nessuno vuole? Mi chiedevo. Scarti, rifiuti non riciclabili, sottoproduzioni di bassa qualità di una società andata a male? Chi siamo noi, frammenti sbagliati di un puzzle che non s’incastrano con niente?

Ero stato a chiedere lavoro in tutti i posti della città nei quali si poteva cercare un impiego più o meno onesto e non mi era andata bene. Cominciai a pensare di stare sul cazzo al buon Dio Onnipotente e a cercare di ricordare cosa potessi avere fatto per farmi voltare le spalle così. Ma mi venne subito da sorridere, solo nell'anno passato, c’era l’imbarazzo della scelta.

Io non so stare al mondo, è vero, ma neppure il mondo sa stare a me.

Mi buttai a sedere, senza nemmeno fare caso a dove atterrasse il mio didietro. Era un posto buio, un incavo d’ombre, una gemma nera fra i palazzi grigi, l’androne di un edificio tozzo e contorto. Appoggiai la schiena contro il legno massiccio, confortante del portone d’ingresso e subito sentii un’ondata di calore penetrare nel midollo dalle fibre del legno morto, mentre le gambe mi si congelavano sulla lastra di marmo dell’ultimo gradino, gelido come una pietra tombale. Accesi una sigaretta, incurante degli sguardi degli inquilini e della gente che passava a poca distanza dal mio corpo abbandonato. Di loro vedevo solo piedi e gambe, estremità dal piglio burbero e severo infilate in scarponi militari, o membra femminili inserite in frivole e provocanti calzature dal tacco a spillo, o formali e impettite scarpe nere allacciate, in cui flottavano estremità frettolose di uomini d’affari.

Se solo mi fossero stati a sentire! Avrei voluto parlare a tutti quei piedi, a tutte quelle scarpe indaffarate, che di sicuro erano collegate a delle orecchie e a un cervello pensante. Ma nessuno mi ascoltava, nessuno voleva sentire le mie parole.

Se non mi ascoltate, presto non avrò più nulla da dirvi, li ammonii mentalmente e il mio sguardo assunse una vaga espressione da Tutankhamon morente, ma nessuno fece caso alla mia maledizione.

Di me non fregava un cazzo a nessuno.

Mi sentivo un buono a nulla, buttato così a sedere sui gradini nell’ombra del palazzo, nella mia profonda pozza di solitudine.

L’amarezza mi cadde addosso da ogni parte, come una pioggia fredda e malefica. Per la prima volta nella mia vita, non sapevo che fare.

Guardavo i barboni chiedere l’elemosina sui sagrati delle mille, troppe chiese della città e provavo una sincera invidia nei loro confronti.

Loro almeno uno scopo nella vita ce l'avevano. Far sentire meglio altri che, pur menando misere e trascurabili esistenze, non sarebbero mai stati miseri e trascurabili quanto loro. I barboni andavano troppo piano, erano come immobili dentro il flusso della vita. Come le lumache, non esistevano.

Mi piace guardare la gente che non ha più speranza, che non ha niente, che non sa più niente, con l’eterna sigaretta incollata alle labbra e gli occhi vuoti. Penso che sto cominciando a somigliar loro.

Le regole dell’alveare parlano chiaro: se non hai un lavoro, non sei rispettabile. Se non hai un soldo, non sei niente.

Ero e mi sentivo un mediocre, l’uomo qualunque, non avevo nessun talento, rasentavo la media in tutto quello che facevo. Anche a scuola. Anzi, ero spesso sotto la media. Ne sapevano qualcosa i miei genitori, quanto li ho fatti dannare, poveretti, sia leggera la terra sotto cui riposano.

Non andavo bene a scuola, soprattutto in matematica, scienze e lingua straniera, che odiavo. Quel poco d’inglese che so l’ho imparato da adolescente brufoloso e seguace di Onan, guardando e riguardando Debbie does Detroit (1) in lingua originale. La consumai quella cassetta mandando avanti e indietro il nastro per stopparlo sulle scene clou o per godermele al rallentatore. Era un porno degli anni ottanta girato con estro quasi documentaristico, in un tripudio di dettagli anatomici e inquadrature che sezionavano corpi come bisturi, nel quale attori e attrici dalle capigliature cotonate tipiche di quegli anni consumavano amplessi sotto le luci fredde e aberranti di uno studio televisivo, scarno e banale quanto una camera autoptica. Il vuaccaesse l’avevo fregato a mio zio, che ne possedeva una collezione infinita. Così, le prime parole di una lingua straniera che appresi furono bitch, pussy, suck, shit.

Mi sentivo incastrato in un frammento di tempo, prigioniero di un presente grigio, pesante, immobile come l’eternità. La mia vita era una bolla d’aria congelata, instabile nel vento, ma eterna e immutabile.

Un dolore sordo mi squassò il petto. Ero giunto ben oltre la soglia dei sogni. Ero un uomo disperato, finito, ero un essere mai nato, condannato a non morire mai, il solo che godesse il privilegio di calpestare la terra nuda senza proiettarvi la sua ombra. Mi sentii gli occhi bruciare e soltanto allora mi accorsi che stavo piangendo.

Ma le mie lacrime erano tardive e inutili quanto una scatola di preservativi.

Vuota.

Oppure piena.

Di preservativi scaduti.

Fate un po’ voi.

Ripensai a quando un impiego ce l’avevo. All’inizio non me la passavo male, facevo qualche lavoretto qua e là, finchè non m’avevano assunto in fabbrica, a tempo indeterminato. Era la prima volta che non mi sentivo a termine, in scadenza come un barattolo di pelati. Io lavoravo e basta, facevo quello che mi dicevano di fare e, a volte, anche quello che non mi dicevano di fare, ma che intuivo doveva essere fatto, come sostituire un compagno in sciopero, fare doppio turno al prezzo di uno e stare in piedi con la febbre. Così, lavoravo dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, turno dopo turno, straordinario su straordinario, faticavo come un asino dodici ore al giorno, cinque giorni la settimana e il sabato sera mi stordivo nel buio popolato da corpi sudati di una discoteca di periferia, oppure soffocavo fra le tette finte di una lap dancer. Ma quella non era vita. Era solo un esistere giorno per giorno. Non ero vivo, non ero morto.

Non ero niente.

Poi, ho perso il lavoro, l’unico lavoro a tempo pieno e indeterminato di tutta la mia vita, quel lavoro coccolato, vezzeggiato come un figlio, per il quale mi ero dannato l’anima e la salute. Mi ha annunciato la sua morte una lettera di licenziamento. Motivo? Esubero per riduzione produttiva. Così, ho saputo che era arrivata la crisi, quella grande, quella nera, quella globale.

Mi fece bene piangere. Mi sentii stranamente vivo; più vivo, caldo, palpitante adesso che ero in lacrime, accasciato sul marciapiede come un cumulo di rifiuti, di quando lavoravo come una piccola ruota dentata in un gigantesco, spaventoso ingranaggio. Adesso che l’ingranaggio si era inceppato, che ero un improduttivo avanzo sociale, un parassita a carico del sistema previdenziale, mi sentivo vivo.

Inequivocabilmente vivo.

Ed era già qualcosa.



(1) Debbie si fa Detroit.


sabato 16 marzo 2019

Di luce e d'ombra - Una ragazza di campagna




Era distesa all’ombra. Luci colorate tremolavano sul suo vestito bianco. Il suo sguardo assente vagava lontano, oltre profilo dell’orizzonte, spezzato dal crepuscolo. Le sue mani distese, giacevano come abbandonate sul suo grembo, le sue preziose mani, dita affusolate, unghie perfette, venate di azzurro e di verde su candido alabastro.

Il sole era tramontato da poco. Una vaga luce rossastra resisteva sulla linea dell’orizzonte e pervadeva la sommità degli oggetti, i profili e le forme di sfumature cremisi, porpora, sanguigne. Si era nel punto del giorno in cui la luce si congiunge alle tenebre e si arrende, vinta.

Sedeva in silenzio, in un tenue abbandono, simile al sonno, avvolta dalla morbida linea d’ombra che avanzava a mano a mano che scendeva la sera. Era immobile come una statua marmorea in un mausoleo orlato di tenebre, sola come un’ombra in una casa disabitata.

I suoi occhi tremolavano. La luce del sole morente conferiva loro sfumature blu cobalto, indaco, pervinca e quasi viola. Erano occhi grandi, immensi, infiniti. Si sarebbe detto che piangesse per quanto erano intensi e vividi. Si sarebbe detto che le sue mani tremassero per quanto erano bianche e delicate.

Il chiarore soffuso della sera si attenuava e si andava smorzando in una brillantezza diffusa, crepuscolare, lattiginosa. Bianco sporco, come neve, ammantava la superficie di ogni cosa. Bianco sporco, come il suo vestito, avvolgeva ogni cosa, tono su tono, sfumatura dopo sfumatura.

La sua bellezza era in bilico, tremolava sul far della notte, come un fuoco d'artificio che si spegne e svanisce nel buio. Io la guardavo e mi sentivo un ladro. La sua bellezza non era per me, non mi apparteneva. Stavo commettendo un furto.

Era una ragazza di campagna. Semplice e rigorosa. Era una ragazza qualsiasi, come ce ne sono tante altre in giro per il mondo. Basta solo saper guardare. Era una ragazza fuori dal comune, per certi versi, anche se ce ne sono tante così.

Si faceva vanto dei suoi occhi chiari. Le illuminavano il viso quando passeggiava per i campi a piedi nudi. I suoi piedi nudi, impolverati, sporchi, infangati quando al ritorno varcava la soglia di casa, di una casa sempre pulita e luminosa.

Si faceva vanto delle sue mani. Un biancore tenue sembrava sprigionarvisi quando incrociava le braccia sul seno, come in attesa, oppure portava le mani ai fianchi, sorridendo senza motivo. C’era chi diceva che non vi fossero al mondo mani più belle.

Era una ragazza di campagna, con l’unico cruccio di non essere una ragazza di città. Quante cose avrebbe potuto fare se fosse stata una ragazza di città, quanti bei posti alla moda avrebbe potuto frequentare, quanti bei vestiti avrebbe potuto indossare, quante belle scarpe avrebbe potuto calzare, quanti occhi avrebbe fatto incantare, quanti volti avrebbe fatto girare. Gli sguardi sarebbero andati dall’immenso dei suoi occhi alla dolce convessità dei suoi seni, mele d’oro mature e dai suoi seni ai fianchi sinuosi e dai fianchi sinuosi alle sue gambe di gazzella, per tornare all’immenso dei suoi occhi, nei quali mondi, sistemi solari e universi interi avrebbero potuto trovare la loro fine.

Era distesa all’ombra quando la vidi per la prima volta. I fuochi d’artificio si aprivano come fiori di fuoco nell’aria pura, limpida della sera e sporcavano di macchie rosse, gialle, verdi, azzurre il suo vestito bianco. Era molto bella, su questo Christopher non si sbagliava. La sua bellezza gareggiava con quella della luna, con quella della notte, con il canto malinconico della brezza sull'erba. Non mi stupiva che il mio amico se ne fosse innamorato.

In verità, non era la prima volta che la vedevo. Il suo volto mi era familiare e, al tempo stesso, ignoto. L’avevo già incontrata molte altre volte, l’avevo vista passeggiare nei campi di grano, sfiorare le spighe dorate con le mani pallide, come gabbiani che planassero su una spiaggia dorata, l’avevo scorta come un’ombra, accoccolata nell’ombra della sua casa, in un giorno di sole accecante, spietato. L’avevo incontrata migliaia e migliaia di altre volte, nella vita reale o forse soltanto nei sogni dell’alba. Forse era una vita intera che non facevamo che incontrarci, forse, ci eravamo incontrati in tutte le nostre vite precedenti e avremo continuato a farlo in tutte quelle future. Come la notte e il giorno, il bianco e il nero, l‘acqua e il vino, l’inizio e la fine. Se lei era la vela, io ero l’ancora che frenava la mia stessa nave. Se lei era aquilone, io ero il filo che la imprigionava alla terra.

Ci sono ragazze che sanno di cioccolato e cannella, ci sono ragazze che sanno di fragole con la panna, ci sono ragazze che dovrebbero essere dichiarate patrimonio dell’umanità. E Lea era una di esse.

Era bella, era ricca, Lea possedeva tutto ciò che una donna può desiderare; possedeva tutto ciò che un uomo può desiderare ed erano in tanti a farlo. Ma era superba, sprezzante, inavvicinabile. A volte, s’inalberava senza motivo e strepitava contro il malcapitato di turno. Si divertiva in particolar modo a maltrattare Christopher e mi parve che ne provasse grande piacere. Il suo era l’atteggiamento dei bambini viziati, che sono cresciuti nell’illusione che tutto è loro dovuto e non è che una grande menzogna. Era l’atteggiamento di chi non conosce la vita, di chi non ha ferite sul cuore e calli sulle mani.

La odiai dal primo momento in cui la vidi. Detestavo i suoi modi superbi, ricercati, biasimavo l’atteggiamento che si permetteva con Christopher, invidiavo la vita comoda, sfarzosa e piena, che non si era guadagnata.

Ma mi si spezzava il fiato in gola quando, per qualche istante, i nostri occhi s’incrociavano.


sabato 9 marzo 2019

Di luce e d'ombra - Tempo di presentazioni




Era un giorno d’inverno e la nebbia colava densa dal cielo, dai tetti sui muri delle case e filtrava attraverso i vestiti, impregnando di un umido gelo le ossa come spugne bucherellate. Era un giorno da bar, da starsene al coperto, da lasciar scorrere tutto intero davanti a un bicchiere. Di birra, di vino, di rum, poco importa. La sola cosa importante era non starsene a penzolare fuori per le strade, come fantasmi. La sola cosa importante era aspettare che scendesse la notte. E io così facevo quel giorno. Aspettavo la notte. Non avevo più nulla, avevo perso il lavoro, ma non ero disperato. Contavo solo di dare una svolta alla mia vita. Per tutto il tempo l’avevo inseguita e finalmente mi si parava davanti come un libro aperto, un libro ancora da scrivere, con le pagine bianche come la nebbia, che avrei imbrattato vivendo, con il mio sangue nero al posto dell’inchiostro.

Seduto accanto a me, davanti al bancone del bar, un ragazzo con la sigaretta in bocca, davanti a un bicchiere di birra.

Ordinai la stessa cosa.

Lo osservai. Mi incuriosiva il modo elegante e ricercato di tenere la sigaretta tra l’indice ed il medio protesi verso l’alto. Mi incuriosiva il suo sguardo perso dentro il bicchiere schiumoso.

Come ti chiami?” chiesi.

Christopher” rispose tra gli svolazzi di fumo.

Dì un nome che valga la pena di sentire”

Egli rise, per nulla indispettito dal mio sarcasmo, e aspirò un’altra boccata di fumo.

Mi dispiace, ho solo questo nome”

Aveva gli occhi grandi e umidi, come quelli di un bue. Il suo era uno sguardo dolce, mite, bonario. Risi anch’io. Ordinai un secondo giro, il terzo lo offrì lui, il quarto ancora io e il quinto lo offrì il barista. Poi persi il conto.

E anche l’equilibrio.

E anche la memoria.

Ricordo solo che uscimmo dal bar abbracciati, ubriachi fradici, sbattendo contro le persone per strada e i lampioni.

Ci ritrovammo sul far della sera, seduti sull’argine del fiume, nell’aura di luce proiettata da un lampione, a contemplare le nostre ombre.

Da quel giorno diventammo amici.

Mi raccontò che gli piaceva una certa ragazza, un tipo sfuggente e originale, che lo faceva impazzire, lo faceva soffrire per quanto si negasse. Sosteneva di essere spasmodicamente alla ricerca di un nuovo equilibrio nel loro gioco delle parti, il loro pericoloso passatempo reciproco delle attrazioni e delle repulsioni, del mostrarsi e dello svanire, del colpire, affondare ed estrarre, dell’inseguito farsi inseguitore e viceversa, ma di faticare a trovarlo.

Diceva che lei lo faceva letteralmente uscire di senno. Aggiunse che aveva l’impressione che lei provasse piacere nel vederlo soffrire a causa sua. Gli chiesi se ne fosse innamorato.

Non rispose subito. Abbassò gli occhi come se si vergognasse, ritirò il suo sguardo umido dietro il velo delle ciglia, come le lumache ritirano le loro antenne al contatto di corpi estranei e minacciosi e rientrano con i loro corpi viscidi nelle case che sono condannate a portarsi sulla groppa, neanche avessero stipulato un mutuo per tutta la loro lenta vita fuori dai ritmi del mondo. Andare a zero virgola zero quarantotto chilometri all’ora è come non muoversi affatto.

E’ come non esistere.

Chissà, pensai, se per le chiocciole un giorno è lungo quanto un secolo; per noi ventiquattr’ore possono durare quanto una vita, o essere più brevi di una fumata di sigaretta e pensavo che se ci fosse un essere superiore a noi, come noi lo siamo rispetto alle lumache, quanto schifo dovremo fare a quell’entità che ci guarda dall’alto in basso e ci vede strisciare le nostre vite schifose su questo mondo infame, strisciare sulla pancia nuda contro la terra fredda e tagliente proprio come giganteschi e insensati gasteropodi. E se poi a quell’essere, superato il naturale ribrezzo, venisse voglia di toccarci con mano, noi ritireremmo i nostri sensori, le nostre antenne interiori, come fanno le lumache spaventate?

E forse Lea, così si chiamava quella creatura selvaggia e misteriosa, era uno di quegli esseri superiori, che vivono su altri mondi, pianeti separati e distanti, ma che ogni tanto piombano in questo per ricordarci quanto siamo inferiori. O forse orbitava indecisa nello spazio indefinito fra il nostro universo incompiuto, minore e corrotto e il suo, incuriosita dal nostro povero pianeta imperfetto quanto perfetto era invece il suo Iperione assoluto, totale e imprescindibile, puro e splendente come un cristallo, nel cielo di Urano.

E così, dopo aver bevuto come disperati fino a che il grigio chiaro del giorno divenne il grigio scuro della sera e il barista ci buttò fuori, seduti sulla terra gonfia di fiume, all’ora in cui la gente torna a casa dal lavoro, dà un’occhiata alle vetrine, o semplicemente sta fuori per sentirsi viva in mezzo ad altri esseri umani, venni a sapere di lei, venni a sapere che la bellezza e la perfezione non sono miraggi inafferrabili, non sono doni primordiali di altri mondi e di quando in quando, qualcuno di questi esseri celesti precipita sulla terra.

Mi dimenticavo. Rispose di si alla domanda. Quando rialzò lo sguardo, mi accorsi dai suoi occhi che aveva pianto. Si era asciugato subito le lacrime, ma queste avevano lasciato lunghe scie sulle sue guance, come le limacce. Era innamorato di Lea.

Mi venne voglia di conoscere quella donna che traeva così gran diletto nel far soffrire un uomo buono e cordiale, come mi pareva, almeno alle prime impressioni, Christopher.

Ma subito cominciai a chiedermi come facessero sesso le lumache, se vi fossero tra di esse esemplari che praticassero un qualche vizietto, di tanto in tanto, non so, il bondage, il pissing o il bukkake, ad esempio, o se il loro rituale di accoppiamento fosse sempre lo stesso, invariabile e costante fin da quando erano comparse sulla faccia della terra, tedioso quanto la posizione del missionario e come potesse essere considerato dalla loro lumachesca società un esemplare della specie che introducesse qualche variante.

E mentre la mia attenzione era rivolta alle deviazioni sessuali delle chiocciole, udii Christopher chiedermi se per caso potevo aiutarlo a conquistare Lea. Ero proprio in tromba per via delle lumache e dovetti farmi ripetere la domanda. Ma non me lo feci ripetere per la terza volta. Ero a tal punto incuriosito da quella donna, a sentir lui fuori dal comune, che accettai e gli promisi tutto il mio impegno e la mia esperienza per aiutarlo a farla sua.

Ma tornato a casa, accesi il computer e avviai la ricerca sul web, volevo soddisfare la mia curiosità sui gasteropodi. Trovai un articolo interessante nel quale si affermava che le lumache sono ermafroditi insufficienti, cioè, pur possedendo sia gli organi genitali maschili, che quelli femminili, per potersi riprodurre necessitano dell’intervento di un altro simile.

E perché?, mi chiesi, per masturbarsi l’un l’altro, o praticare del sesso orale a vicenda?

No, spiegava con serietà l’articolo, niente di tutto questo, i due partner si accoppiano reciprocamente e ne restano vicendevolmente fecondati. Così, ognuno di essi, pensai, è al tempo stesso padre e madre dei suoi figli. E non è finita! Durante il rapporto s’infilzano l’un l’altra con lo stiletto calcareo che hanno in dotazione, procurandosi un intenso dolore. E nessuno studioso è finora riuscito a spiegarsi il perché.

Ne fui stupito.

Le più fascinose, strampalate e strabilianti supposizioni che potesse mai produrre la mia pur fervida immaginazione, in confronto non erano che pagine ingiallite di un insipido romanzetto erotico di fine ottocento. Questa le superava tutte. Altro che anomalie sessuali, deviazioni comportamentali, morbosità d’interesse psichiatrico, il sesso praticato dalle lumache era tutto depravazione, perversioni e vizi. Un capolavoro di lascivia. Le chiocciole sapevano il fatto loro e lo facevano da milioni di anni.

Le trovavo semplicemente super.


sabato 2 marzo 2019

Di luce e d'ombra - Dove nasce il sole




Sono di origini meridionali, sono nato là dove nasce il sole dal mare, là dove non vedono la sua morte, perché è nascosta dalla terra a occidente. No so da dove vengo esattamente, mio padre non me l’ha mai spiegato con precisione. Ma sono nato in una città di mare. E’ il regalo che mi ha fatto mio padre, lui che amava tanto il mare pur essendo nato e cresciuto in contrade che la sua brezza non raggiunge. Egli lo desiderava così tanto che per poterlo vedere tentò, come dicevo, un’improbabile carriera militare.

Mio padre morì presto. Una notte d’inverno l’ha ingoiato tra le sue fauci decorate di palline colorate, luci multicolori e festoni. Di lui ricordo solo che parlava poco, era sempre stanco, tornava dal lavoro e mangiava di fretta in un angolo della cucina, senza levare gli occhi dalla tavola. Solo da grande ho capito che il lavoro se lo stava mangiando, con la voracità con cui lui mangiava la sua zuppa fredda, ma non l’ho mai sentito lamentarsi, non si sarebbe mai tirato indietro dai sacrifici che compiva tutti i giorni nel sacro rito del lavoro. E, anche se non ho mai saputo esattamente cosa facesse, so che lo faceva per noi. Il suo lavoro lo ha divorato, pezzo a pezzo, lo ha ammazzato e si, posso dirlo, nostro padre si è fatto ammazzare per noi.

Dopo la morte di mio padre ho abbandonato la scuola e mi sono cercato un lavoro. Non è che brillassi particolarmente negli studi, quindi, non fu una gran perdita. Nella mia vita ho dovuto sempre lavorare. Ho cominciato a dodici anni a inseguire il lavoro e, ovunque fosse nella mia città, l’ho inseguito, gli ho dato la caccia e l’ho stanato, finchè ce n’è stato. Poi, quando il lavoro è finito, sono emigrato al Settentrione. Detto così sembra quasi il Klondike, il Grande Nord, una terra mitica, invece, il mio Nord è la Val Padana, il mio Klondike è una città immersa nella nebbia, un etereo mare che avvolge ogni cosa, al posto del mare vero, quello che non c’è.

Ricordo che lavoravamo tutta l’estate, chi nei campi a raccogliere pesche, chi in equilibrio precario sulle impalcature di un cantiere edile, chi a lottare con il sonno nei bar notturni, ma a settembre partivamo per la Grecia. Le nostre navi erano malinconiche e arrugginite e si confondevano con quelle degli albanesi. Non avevamo neppure i soldi per il biglietto di terza classe, i nostri guadagni bastavano appena per il passaggio ponte. E a noi il ponte bastava, volevamo dormire sotto le stelle, sulla pancia di un gigante addormentato che russava ritmico e si apriva la rotta nella notte. I turisti tedeschi ci facevano compagnia per qualche tempo, poi si addormentavano nei sacchi a pelo. Noi non avevamo neppure quelli e a volte tremavamo di freddo. Ma, come Ulisse, costeggiavamo Itaca addormentata e, sognando il caldo corpo di Penelope, non vi approdavamo mai.

e Penelope dormiva, all’ombra della sua tela.

Passeggiando nei mercati, bighellonando al porto, bevendo ouzo e caffè turco nei bar, scoprivo la loro patria, così simile alla mia che avrei potuto fare cambio e viverci per sempre. Gli schiamazzi dei pescatori, le risate delle donne, le voci dei bambini. Ogni cosa era nuova, eppure familiare e toccante. E mi veniva in bocca una parola antica, filìa.

Amicizia.


giovedì 28 febbraio 2019

Di luce e d'ombra - Mio padre



                                                             Giocando al volano
                                                             Ingenue
                                                             Divaricano le gambe
                                                            
                                                             Tagi



Mio padre non aveva mai visto il mare.

Almeno fino a quando non ebbe compiuto diciott’anni. Era il 1953, l’Italia era da poco uscita da una guerra mondiale e cercava di ricucire le sue ferite. Partì militare lasciandosi dietro fame e lacrime e sbarcò in Sardegna. Ne vide tanto di mare, in un colpo solo. Ma quell’indigestione marina non gli bastò, non si riprese mai dalla malattia del mare. Volgendosi indietro col ricordo ai suoi anni di bambino, la prima immagine che si stagliava su tutti gli altri ricordi credo fosse la terra vista a faccia in giù, bagnata dal sudore e dalle lacrime, mentre era chino sui solchi lasciati dall’aratro. Ho sempre pensato che se non avesse messo su famiglia così presto, si sarebbe imbarcato sulla prima nave che gli fosse capitata a tiro, uno strano destino di contadino – marinaio, e non sarebbe tornato mai più. Per svegliarsi col mare, addormentarsi col mare e magari, morirci pure col mare.

Mio padre non aveva mai visto il mare.

Io si, invece, fin dalla nascita. Avevo aperto gli occhi guardando il mare. Mio padre mi fece nascere in una città di mare. Conservo ancora un vago ricordo delle lunghe passeggiate mano nella mano con lui sulla spiaggia, sul lungomare, per le strade della costa. Ovunque andassimo, uno dei lati di quel rettangolo assurdo e precario che era il paesaggio di quella città era sempre il mare.

Quello fu il suo regalo più bello.

Del resto, ha sempre avuto poco tempo per farmi regali, era sempre fuori a lavorare. In casa c’era solo per mettere insieme il pranzo con la cena, un pasto che prendeva a un’ora assurda, le cinque del pomeriggio, per fare prima e lavorare di più, la sua strana pausa pranzo ormeggiata al pontile di un tempo medio fra i due principali pasti della giornata. Me lo ricordo seduto da solo al tavolo della cucina a ingozzarsi lentamente, mangiava senza gusto, beveva solo per togliersi la sete e poi, si puliva la bocca con il dorso della mano, era il segnale che aveva finito e mamma poteva sparecchiare. Andava via, senza guardarci, senza salutare, la sua schiena sempre più china, gli occhi sempre più stanchi. Il lavoro gli ha mangiato la vita.

L’altro regalo che mi ha fatto mio padre è stato quello di andarsene presto, troppo presto. Con la liquidazione tirammo avanti un bel po’, ma non troppo. Bè, forse il regalo, più che a me, l’ha fatto ai suoi padroni che lo pagarono in nero tutta la vita e risparmiarono perfino sul suo tieffeerre. Non li commossero le lacrime di una vedova e il pianto di tre bambini.

Da allora, ho dovuto sempre cavarmela da solo. Sono cresciuto, troppo in fretta e, quando si cresce troppo in fretta, si viene su male, storti e insani, come una pianta senza sostegni. Ma sono sempre stato curioso di vedere il mondo, così, alla prima occasione me ne sono andato.

Del resto, non potevo restare. Lì dov'ero, dove sono nato e cresciuto non c'era niente. E in un posto in cui non c’è niente puoi solo diventare tossico o pusher, o entrambe le cose. A te la scelta. Io no però, non sono diventato né tossico né spacciatore. Potevo perdermi, ma non l’ho fatto. Non perché volevo diventare un bravo ragazzo, un uomo onesto. Ma per un altro motivo.

Non volevo dargliela vinta.

Avrebbero detto: ecco guarda, hai visto? Cosa potevi aspettarti da lui? Che era un disgraziato si vedeva da quando andava alle elementari. E avrebbero sorriso compiaciuti sui sagrati delle loro chiese, impettiti nei loro abiti della domenica.

No, non potevo dargliela vinta.

        Certo, la sorte ha continuato a non stare dalla mia parte, ma me ne sono fatto una ragione.

E soprattutto, non ho mai alzato la voce. Contro nessuno. Io non parlo mai a voce alta. Se lo faccio, vuol dire che quello che sto dicendo non ha importanza, oppure, che sono quelli che mi ascoltano a non averne.

Da quando sono sbarcato in questa città, niente è stato più lo stesso, neppure io. Questa città mi sta mangiando l’anima. D’accordo, ci sono venuto perché avevo bisogno di lavorare, avevo bisogno di soldi e all’inizio è stato così. Soldi facili, ma solo all’inizio. Dopo, sono finito in un turbinio di lavori, impieghi e incarichi ed è stato come precipitare. Mendicare lavoro, vendersi per lavoro, sputare sulla mia terra per lavoro. Non ho mai fatto lo stesso mestiere per più di un anno.

A volte mi sento solo, ma non annego nel vuoto. Soffro della solitudine di chi pensa. E’ vero, penso molto e, a volte, scrivo quello che penso, ovunque mi trovi. Ho scritto sui diari degli altri, sui tovaglioli al ristorante, sulle analisi del sangue, sulla carta igienica dei bagni pubblici e, perfino sulle federe dei cuscini. Ho il terrore di perdere le idee e non ritrovarle più. Ma scrivere, non vuol dire essere uno scrittore.

E’ solo inchiodare parole alla carta, come farfalle impaurite, terrorizzate dalla fine che stanno per fare. Io credo che le parole, come le farfalle, sono fatte per volare nell’aria, danzare sulla punta della lingua e solleticare le orecchie, non per finire chiuse dentro un libro, come tele dimenticate in una pinacoteca.

Ecco. Ho appena dichiarato il mio amore per le parole. Eppure, a volte, non riesco a farmi capire. Sarà colpa del mio accento. Ho girato molto, su e giù per lo stivale e ho preso strane cadenze e inflessioni esotiche, ho rubato dai vernacoli modi di dire inusitati e bizzarri vocaboli. Possedendo molteplici inflessioni, il mio linguaggio è di tutti i luoghi e di nessun luogo in particolare.

Oggi sono tornato, sono tornato a casa e da qui la città è quasi indistinguibile dalla nebbia che la circonda e dal cielo basso e grigio. E’ incredibile quanto sia terapeutica la distanza. Qui mi pare di respirare di nuovo.

Ma l’oggi si è trasformato in ieri maledettamente presto. Ed eccomi qui. Di nuovo. Provo un vago senso di vertigine e smarrimento, come se mi mancasse l’aria. Per me tornare qui è come precipitare per sempre.

Non mi abituerò mai.

Qui di mare non ce n’è. In compenso, c’è fretta, tanta fretta. E arroganza. E ipocrisia. E muri, tanti muri.

Che mi succede?

Non sono più quello che ero, ma non sono ancora quello che sarò.

Chi sono?

Un processo in atto, un progetto in divenire.

Pensai che, se mai nella vita avessi avuto un figlio, avrei dovuto fargli un regalo come quello che mio padre aveva fatto a me, farlo nascere in riva al mare, per confondere il suo primo tenue vagito con l’alito rude del mare. E sperare che da grande si trovasse una donna di mare, abituata a fare i conti con le partenze, come con le stagioni che cambiano. Le donne di mare sono più donne. Ma qui dov’ero sbarcato, l’unico mare era fatto di nebbia. E al mio ipotetico figlio non avrei potuto regalare nient'altro.