Sono di origini
meridionali, sono nato là dove nasce il sole dal mare, là dove non
vedono la sua morte, perché è nascosta dalla terra a occidente. No
so da dove vengo esattamente, mio padre non me l’ha mai spiegato
con precisione. Ma sono nato in una città di mare. E’ il regalo
che mi ha fatto mio padre, lui che amava tanto il mare pur essendo
nato e cresciuto in contrade che la sua brezza non raggiunge. Egli lo
desiderava così tanto che per poterlo vedere tentò, come dicevo,
un’improbabile carriera militare.
Mio padre morì
presto. Una notte d’inverno l’ha ingoiato tra le sue fauci
decorate di palline colorate, luci multicolori e festoni. Di lui
ricordo solo che parlava poco, era sempre stanco, tornava dal lavoro
e mangiava di fretta in un angolo della cucina, senza levare gli
occhi dalla tavola. Solo da grande ho capito che il lavoro se lo
stava mangiando, con la voracità con cui lui mangiava la sua zuppa
fredda, ma non l’ho mai sentito lamentarsi, non si sarebbe mai
tirato indietro dai sacrifici che compiva tutti i giorni nel sacro
rito del lavoro. E, anche se non ho mai saputo esattamente cosa
facesse, so che lo faceva per noi. Il suo lavoro lo ha divorato,
pezzo a pezzo, lo ha ammazzato e si, posso dirlo, nostro padre si è
fatto ammazzare per noi.
Dopo la morte di mio
padre ho abbandonato la scuola e mi sono cercato un lavoro. Non è
che brillassi particolarmente negli studi, quindi, non fu una gran
perdita. Nella mia vita ho dovuto sempre lavorare. Ho cominciato a
dodici anni a inseguire il lavoro e, ovunque fosse nella mia città,
l’ho inseguito, gli ho dato la caccia e l’ho stanato, finchè ce
n’è stato. Poi, quando il lavoro è finito, sono emigrato al
Settentrione. Detto così sembra quasi il Klondike, il Grande Nord,
una terra mitica, invece, il mio Nord è la Val Padana, il mio
Klondike è una città immersa nella nebbia, un etereo mare che
avvolge ogni cosa, al posto del mare vero, quello che non c’è.
Ricordo che
lavoravamo tutta l’estate, chi nei campi a raccogliere pesche, chi
in equilibrio precario sulle impalcature di un cantiere edile, chi a
lottare con il sonno nei bar notturni, ma a settembre partivamo per
la Grecia. Le nostre navi erano malinconiche e arrugginite e si
confondevano con quelle degli albanesi. Non avevamo neppure i soldi
per il biglietto di terza classe, i nostri guadagni bastavano appena
per il passaggio ponte.
E a noi il ponte bastava, volevamo dormire sotto le stelle, sulla
pancia di un gigante addormentato che russava ritmico e si apriva la
rotta nella notte. I turisti tedeschi ci facevano compagnia per
qualche tempo, poi si addormentavano nei sacchi a pelo. Noi non
avevamo neppure quelli e a volte tremavamo di freddo. Ma, come
Ulisse, costeggiavamo Itaca addormentata e, sognando il caldo corpo
di Penelope, non vi approdavamo mai.
…e Penelope
dormiva, all’ombra della sua tela.
Passeggiando nei
mercati, bighellonando al porto, bevendo ouzo
e caffè turco nei bar, scoprivo la loro patria, così simile alla
mia che avrei potuto fare cambio e viverci per sempre. Gli schiamazzi
dei pescatori, le risate delle donne, le voci dei bambini. Ogni cosa
era nuova, eppure familiare e toccante. E mi veniva in bocca una
parola antica, filìa.
Amicizia.
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