sabato 2 marzo 2019

Di luce e d'ombra - Dove nasce il sole




Sono di origini meridionali, sono nato là dove nasce il sole dal mare, là dove non vedono la sua morte, perché è nascosta dalla terra a occidente. No so da dove vengo esattamente, mio padre non me l’ha mai spiegato con precisione. Ma sono nato in una città di mare. E’ il regalo che mi ha fatto mio padre, lui che amava tanto il mare pur essendo nato e cresciuto in contrade che la sua brezza non raggiunge. Egli lo desiderava così tanto che per poterlo vedere tentò, come dicevo, un’improbabile carriera militare.

Mio padre morì presto. Una notte d’inverno l’ha ingoiato tra le sue fauci decorate di palline colorate, luci multicolori e festoni. Di lui ricordo solo che parlava poco, era sempre stanco, tornava dal lavoro e mangiava di fretta in un angolo della cucina, senza levare gli occhi dalla tavola. Solo da grande ho capito che il lavoro se lo stava mangiando, con la voracità con cui lui mangiava la sua zuppa fredda, ma non l’ho mai sentito lamentarsi, non si sarebbe mai tirato indietro dai sacrifici che compiva tutti i giorni nel sacro rito del lavoro. E, anche se non ho mai saputo esattamente cosa facesse, so che lo faceva per noi. Il suo lavoro lo ha divorato, pezzo a pezzo, lo ha ammazzato e si, posso dirlo, nostro padre si è fatto ammazzare per noi.

Dopo la morte di mio padre ho abbandonato la scuola e mi sono cercato un lavoro. Non è che brillassi particolarmente negli studi, quindi, non fu una gran perdita. Nella mia vita ho dovuto sempre lavorare. Ho cominciato a dodici anni a inseguire il lavoro e, ovunque fosse nella mia città, l’ho inseguito, gli ho dato la caccia e l’ho stanato, finchè ce n’è stato. Poi, quando il lavoro è finito, sono emigrato al Settentrione. Detto così sembra quasi il Klondike, il Grande Nord, una terra mitica, invece, il mio Nord è la Val Padana, il mio Klondike è una città immersa nella nebbia, un etereo mare che avvolge ogni cosa, al posto del mare vero, quello che non c’è.

Ricordo che lavoravamo tutta l’estate, chi nei campi a raccogliere pesche, chi in equilibrio precario sulle impalcature di un cantiere edile, chi a lottare con il sonno nei bar notturni, ma a settembre partivamo per la Grecia. Le nostre navi erano malinconiche e arrugginite e si confondevano con quelle degli albanesi. Non avevamo neppure i soldi per il biglietto di terza classe, i nostri guadagni bastavano appena per il passaggio ponte. E a noi il ponte bastava, volevamo dormire sotto le stelle, sulla pancia di un gigante addormentato che russava ritmico e si apriva la rotta nella notte. I turisti tedeschi ci facevano compagnia per qualche tempo, poi si addormentavano nei sacchi a pelo. Noi non avevamo neppure quelli e a volte tremavamo di freddo. Ma, come Ulisse, costeggiavamo Itaca addormentata e, sognando il caldo corpo di Penelope, non vi approdavamo mai.

e Penelope dormiva, all’ombra della sua tela.

Passeggiando nei mercati, bighellonando al porto, bevendo ouzo e caffè turco nei bar, scoprivo la loro patria, così simile alla mia che avrei potuto fare cambio e viverci per sempre. Gli schiamazzi dei pescatori, le risate delle donne, le voci dei bambini. Ogni cosa era nuova, eppure familiare e toccante. E mi veniva in bocca una parola antica, filìa.

Amicizia.


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