sabato 30 marzo 2019

Di luce e d'ombra - Fango e polvere





Si può girare a vuoto per una vita intera?

Erano mesi che giravo a vuoto, mesi che parevano anni. Una vita intera spesa a girare a vuoto, come la ruota di un ingranaggio costruito male, che non s’incastra con nessuno, che arrugginisce nell’inutilità. D’accordo, lo ammetto, non mi piaceva il mio lavoro, non mi è mai piaciuto prendere ordini e soprattutto, eseguirli, ma c’è qualcuno a questo mondo a cui piace? Se c’è portatemelo davanti: o è un santo, o è un masochista.

La vita mi sembrava grigia e marrone, un composto di fango e polvere, che gocciolava dal cielo, trasudava dalle mura della città, un precipitato lordo e greve, opprimente quanto un sudario, che invischiava la mia vita. Una vita intrappolata in un tempo fangoso, colava ovunque, s’infiltrava dentro gli occhi, impedendomi di vedere, s’insinuava nelle orecchie, impedendomi di sentire, penetrava nella mia bocca, impedendomi di parlare e perfino di respirare.

Giravo per fabbriche e uffici, per centri direzionali dai nomi altisonanti e improbabili, per strade di zone industriali, tristi e fasulle, con i loro bei capannoni grigi che si perdevano nel vuoto. Strade i cui nomi evocavano il lavoro. Via dell’Artigianato, viale delle Industrie, via della Produzione. In alcune remote lande dell’Australia e del Nord America mettono sempre l’acqua nella toponomastica, ma di acqua neppure una goccia.

Evaporata al sole.

Dopo una serie infinita di no, cominciai a pensare che anche da noi stava prendendo piede quella visionaria usanza. Mettere il lavoro dove non c’è n’è, ma soltanto nei nomi delle strade. E il lavoro?

Evaporato al sole.

Non c’è dunque più lavoro in Italia? Il lavoro si era come volatilizzato dalla faccia della terra. Dov’era andato a finire? Da quali braccia proletarie e vigorose era stato stritolato? In quale lontano continente un qualsiasi operaio poteva guardarmi un attimo, beffardo e sornione, prima di avviarsi lento a timbrare il cartellino?

Conoscevo certi padri che sorridevano ancora, ma si capiva che avrebbero fatto qualsiasi cosa per poter mandare i figli a scuola, avrebbero ucciso altri lavoratori pur di prenderne il posto e poter dare risposte alle domande che risplendevano negli occhi delle loro creature.

Dietro ogni porta chiusa c’era un no, dentro ogni fabbrica erano al completo. Ma io sbirciavo all’interno delle catene di produzione e vedevo quattro gatti operai che oziavano di qua e di là, gli sguardi assenti, le teste a ciondolare come vuote, lavoratori stanchi e tristi, stanchi di nessuna fatica. Già, non è il lavoro ad affaticare le membra, è la noia a sfiancare, è l’ozio a uccidere.

Ma che razza di gente siamo noi italiani, capaci di passare dal genio di Leonardo al ghigno di Totò Riina. Siamo individui mediocri, figli sporchi e cialtroni di un’Italia sciatta e senza speranza, non rispettiamo niente e nessuno, neanche noi stessi. Siamo quelli che gettano le cartacce a terra, invece di usare i cestini. Per scoprire dove siamo andati, basta seguire la scia di rifiuti che ci siamo lasciati dietro. Ma sento che abbiamo perso qualcosa in questa crisi, se il lavoro non c’è più, è segno che abbiamo perso la voglia di rischiare, di metterci in gioco, e il lavoro langue, i soldi scarseggiano e le idee pure. Abbiamo perso la capacità di sognare.

Non c’era nessuno che mi voleva, nessuno che avesse bisogno di me. Ora come non mai, avrei accettato qualsiasi lavoro, avrei fatto qualunque cosa, pur di non sentirmi vuoto e inutile.

Chi siamo noi che nessuno vuole? Mi chiedevo. Scarti, rifiuti non riciclabili, sottoproduzioni di bassa qualità di una società andata a male? Chi siamo noi, frammenti sbagliati di un puzzle che non s’incastrano con niente?

Ero stato a chiedere lavoro in tutti i posti della città nei quali si poteva cercare un impiego più o meno onesto e non mi era andata bene. Cominciai a pensare di stare sul cazzo al buon Dio Onnipotente e a cercare di ricordare cosa potessi avere fatto per farmi voltare le spalle così. Ma mi venne subito da sorridere, solo nell'anno passato, c’era l’imbarazzo della scelta.

Io non so stare al mondo, è vero, ma neppure il mondo sa stare a me.

Mi buttai a sedere, senza nemmeno fare caso a dove atterrasse il mio didietro. Era un posto buio, un incavo d’ombre, una gemma nera fra i palazzi grigi, l’androne di un edificio tozzo e contorto. Appoggiai la schiena contro il legno massiccio, confortante del portone d’ingresso e subito sentii un’ondata di calore penetrare nel midollo dalle fibre del legno morto, mentre le gambe mi si congelavano sulla lastra di marmo dell’ultimo gradino, gelido come una pietra tombale. Accesi una sigaretta, incurante degli sguardi degli inquilini e della gente che passava a poca distanza dal mio corpo abbandonato. Di loro vedevo solo piedi e gambe, estremità dal piglio burbero e severo infilate in scarponi militari, o membra femminili inserite in frivole e provocanti calzature dal tacco a spillo, o formali e impettite scarpe nere allacciate, in cui flottavano estremità frettolose di uomini d’affari.

Se solo mi fossero stati a sentire! Avrei voluto parlare a tutti quei piedi, a tutte quelle scarpe indaffarate, che di sicuro erano collegate a delle orecchie e a un cervello pensante. Ma nessuno mi ascoltava, nessuno voleva sentire le mie parole.

Se non mi ascoltate, presto non avrò più nulla da dirvi, li ammonii mentalmente e il mio sguardo assunse una vaga espressione da Tutankhamon morente, ma nessuno fece caso alla mia maledizione.

Di me non fregava un cazzo a nessuno.

Mi sentivo un buono a nulla, buttato così a sedere sui gradini nell’ombra del palazzo, nella mia profonda pozza di solitudine.

L’amarezza mi cadde addosso da ogni parte, come una pioggia fredda e malefica. Per la prima volta nella mia vita, non sapevo che fare.

Guardavo i barboni chiedere l’elemosina sui sagrati delle mille, troppe chiese della città e provavo una sincera invidia nei loro confronti.

Loro almeno uno scopo nella vita ce l'avevano. Far sentire meglio altri che, pur menando misere e trascurabili esistenze, non sarebbero mai stati miseri e trascurabili quanto loro. I barboni andavano troppo piano, erano come immobili dentro il flusso della vita. Come le lumache, non esistevano.

Mi piace guardare la gente che non ha più speranza, che non ha niente, che non sa più niente, con l’eterna sigaretta incollata alle labbra e gli occhi vuoti. Penso che sto cominciando a somigliar loro.

Le regole dell’alveare parlano chiaro: se non hai un lavoro, non sei rispettabile. Se non hai un soldo, non sei niente.

Ero e mi sentivo un mediocre, l’uomo qualunque, non avevo nessun talento, rasentavo la media in tutto quello che facevo. Anche a scuola. Anzi, ero spesso sotto la media. Ne sapevano qualcosa i miei genitori, quanto li ho fatti dannare, poveretti, sia leggera la terra sotto cui riposano.

Non andavo bene a scuola, soprattutto in matematica, scienze e lingua straniera, che odiavo. Quel poco d’inglese che so l’ho imparato da adolescente brufoloso e seguace di Onan, guardando e riguardando Debbie does Detroit (1) in lingua originale. La consumai quella cassetta mandando avanti e indietro il nastro per stopparlo sulle scene clou o per godermele al rallentatore. Era un porno degli anni ottanta girato con estro quasi documentaristico, in un tripudio di dettagli anatomici e inquadrature che sezionavano corpi come bisturi, nel quale attori e attrici dalle capigliature cotonate tipiche di quegli anni consumavano amplessi sotto le luci fredde e aberranti di uno studio televisivo, scarno e banale quanto una camera autoptica. Il vuaccaesse l’avevo fregato a mio zio, che ne possedeva una collezione infinita. Così, le prime parole di una lingua straniera che appresi furono bitch, pussy, suck, shit.

Mi sentivo incastrato in un frammento di tempo, prigioniero di un presente grigio, pesante, immobile come l’eternità. La mia vita era una bolla d’aria congelata, instabile nel vento, ma eterna e immutabile.

Un dolore sordo mi squassò il petto. Ero giunto ben oltre la soglia dei sogni. Ero un uomo disperato, finito, ero un essere mai nato, condannato a non morire mai, il solo che godesse il privilegio di calpestare la terra nuda senza proiettarvi la sua ombra. Mi sentii gli occhi bruciare e soltanto allora mi accorsi che stavo piangendo.

Ma le mie lacrime erano tardive e inutili quanto una scatola di preservativi.

Vuota.

Oppure piena.

Di preservativi scaduti.

Fate un po’ voi.

Ripensai a quando un impiego ce l’avevo. All’inizio non me la passavo male, facevo qualche lavoretto qua e là, finchè non m’avevano assunto in fabbrica, a tempo indeterminato. Era la prima volta che non mi sentivo a termine, in scadenza come un barattolo di pelati. Io lavoravo e basta, facevo quello che mi dicevano di fare e, a volte, anche quello che non mi dicevano di fare, ma che intuivo doveva essere fatto, come sostituire un compagno in sciopero, fare doppio turno al prezzo di uno e stare in piedi con la febbre. Così, lavoravo dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, turno dopo turno, straordinario su straordinario, faticavo come un asino dodici ore al giorno, cinque giorni la settimana e il sabato sera mi stordivo nel buio popolato da corpi sudati di una discoteca di periferia, oppure soffocavo fra le tette finte di una lap dancer. Ma quella non era vita. Era solo un esistere giorno per giorno. Non ero vivo, non ero morto.

Non ero niente.

Poi, ho perso il lavoro, l’unico lavoro a tempo pieno e indeterminato di tutta la mia vita, quel lavoro coccolato, vezzeggiato come un figlio, per il quale mi ero dannato l’anima e la salute. Mi ha annunciato la sua morte una lettera di licenziamento. Motivo? Esubero per riduzione produttiva. Così, ho saputo che era arrivata la crisi, quella grande, quella nera, quella globale.

Mi fece bene piangere. Mi sentii stranamente vivo; più vivo, caldo, palpitante adesso che ero in lacrime, accasciato sul marciapiede come un cumulo di rifiuti, di quando lavoravo come una piccola ruota dentata in un gigantesco, spaventoso ingranaggio. Adesso che l’ingranaggio si era inceppato, che ero un improduttivo avanzo sociale, un parassita a carico del sistema previdenziale, mi sentivo vivo.

Inequivocabilmente vivo.

Ed era già qualcosa.



(1) Debbie si fa Detroit.


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