Era
un giorno d’inverno e la nebbia colava densa dal cielo, dai tetti
sui muri delle case e filtrava attraverso i vestiti, impregnando di
un umido gelo le ossa come spugne bucherellate. Era un giorno da bar,
da starsene al coperto, da lasciar scorrere tutto intero davanti a un
bicchiere. Di birra, di vino, di rum, poco importa. La sola cosa
importante era non starsene a penzolare fuori per le strade, come
fantasmi. La sola cosa importante era aspettare che scendesse la
notte. E io così facevo quel giorno. Aspettavo la notte. Non avevo
più nulla, avevo perso il lavoro, ma non ero disperato. Contavo solo
di dare una svolta alla mia vita. Per tutto il tempo l’avevo
inseguita e finalmente mi si parava davanti come un libro aperto, un
libro ancora da scrivere, con le pagine bianche come la nebbia, che
avrei imbrattato vivendo, con il mio sangue nero al posto
dell’inchiostro.
Seduto
accanto a me, davanti al bancone del bar, un ragazzo con la sigaretta
in bocca, davanti a un bicchiere di birra.
Ordinai
la stessa cosa.
Lo
osservai. Mi incuriosiva il modo elegante e ricercato di tenere la
sigaretta tra l’indice ed il medio protesi verso l’alto. Mi
incuriosiva il suo sguardo perso dentro il bicchiere schiumoso.
“Come ti chiami?”
chiesi.
“Christopher”
rispose tra gli svolazzi di fumo.
“Dì un nome che
valga la pena di sentire”
Egli rise, per nulla
indispettito dal mio sarcasmo, e aspirò un’altra boccata di fumo.
“Mi dispiace, ho
solo questo nome”
Aveva
gli occhi grandi e umidi, come quelli di un bue. Il suo era uno
sguardo dolce, mite, bonario. Risi anch’io. Ordinai un secondo
giro, il terzo lo offrì lui, il quarto ancora io e il quinto lo
offrì il barista. Poi persi il conto.
E
anche l’equilibrio.
E
anche la memoria.
Ricordo
solo che uscimmo dal bar abbracciati, ubriachi fradici, sbattendo
contro le persone per strada e i lampioni.
Ci
ritrovammo sul far della sera, seduti sull’argine del fiume,
nell’aura di luce proiettata da un lampione, a contemplare le
nostre ombre.
Da
quel giorno diventammo amici.
Mi
raccontò che gli piaceva una certa ragazza, un tipo sfuggente e
originale, che lo faceva impazzire, lo faceva soffrire per quanto si
negasse. Sosteneva di essere spasmodicamente alla ricerca di un nuovo
equilibrio nel loro gioco delle parti, il loro pericoloso passatempo
reciproco delle attrazioni e delle repulsioni, del mostrarsi e dello
svanire, del colpire, affondare ed estrarre, dell’inseguito farsi
inseguitore e viceversa, ma di faticare a trovarlo.
Diceva
che lei lo faceva letteralmente uscire di senno. Aggiunse che aveva
l’impressione che lei provasse piacere nel vederlo soffrire a causa
sua. Gli chiesi se ne fosse innamorato.
Non
rispose subito. Abbassò gli occhi come se si vergognasse, ritirò il
suo sguardo umido dietro il velo delle ciglia, come le lumache
ritirano le loro antenne al contatto di corpi estranei e minacciosi e
rientrano con i loro corpi viscidi nelle case che sono condannate a
portarsi sulla groppa, neanche avessero stipulato un mutuo per tutta
la loro lenta vita fuori dai ritmi del mondo. Andare a zero virgola
zero quarantotto chilometri all’ora è come non muoversi affatto.
E’
come non esistere.
Chissà,
pensai, se per le chiocciole un giorno è lungo quanto un secolo; per
noi ventiquattr’ore possono durare quanto una vita, o essere più
brevi di una fumata di sigaretta e pensavo che se ci fosse un essere
superiore a noi, come noi lo siamo rispetto alle lumache, quanto
schifo dovremo fare a quell’entità che ci guarda dall’alto in
basso e ci vede strisciare le nostre vite schifose su questo mondo
infame, strisciare sulla pancia nuda contro la terra fredda e
tagliente proprio come giganteschi e insensati gasteropodi. E se poi
a quell’essere, superato il naturale ribrezzo, venisse voglia di
toccarci con mano, noi ritireremmo i nostri sensori, le nostre
antenne interiori, come fanno le lumache spaventate?
E
forse Lea, così si chiamava quella creatura selvaggia e misteriosa,
era uno di quegli esseri superiori, che vivono su altri mondi,
pianeti separati e distanti, ma che ogni tanto piombano in questo per
ricordarci quanto siamo inferiori. O forse orbitava indecisa nello
spazio indefinito fra il nostro universo incompiuto, minore e
corrotto e il suo, incuriosita dal nostro povero pianeta imperfetto
quanto perfetto era invece il suo Iperione
assoluto, totale e imprescindibile, puro e splendente come un
cristallo, nel cielo di Urano.
E
così, dopo aver bevuto come disperati fino a che
il grigio chiaro del giorno divenne il grigio scuro della sera e il
barista ci buttò fuori, seduti sulla terra gonfia di fiume, all’ora
in cui la gente torna a casa dal lavoro, dà un’occhiata alle
vetrine, o semplicemente sta fuori per sentirsi viva in mezzo ad
altri esseri umani, venni a sapere di lei, venni a sapere che la
bellezza e la perfezione non sono miraggi inafferrabili, non sono
doni primordiali di altri mondi e di quando in quando, qualcuno di
questi esseri celesti precipita sulla terra.
Mi
dimenticavo. Rispose di si alla domanda. Quando rialzò lo sguardo,
mi accorsi dai suoi occhi che aveva pianto. Si era asciugato subito
le lacrime, ma queste avevano lasciato lunghe scie sulle sue guance,
come le limacce. Era innamorato di Lea.
Mi
venne voglia di conoscere quella donna che traeva così gran diletto
nel far soffrire un uomo buono e cordiale, come mi pareva, almeno
alle prime impressioni, Christopher.
Ma
subito cominciai a chiedermi come facessero sesso le lumache, se vi
fossero tra di esse esemplari che praticassero un qualche vizietto,
di tanto in tanto, non so, il bondage,
il pissing o il
bukkake, ad esempio, o
se il loro rituale di accoppiamento fosse sempre lo stesso,
invariabile e costante fin da quando erano comparse sulla faccia
della terra, tedioso quanto la posizione del missionario e come
potesse essere considerato dalla loro lumachesca società un
esemplare della specie che introducesse qualche variante.
E
mentre la mia attenzione era rivolta alle deviazioni sessuali delle
chiocciole, udii Christopher chiedermi se per caso potevo aiutarlo a
conquistare Lea. Ero proprio in tromba per via delle lumache e
dovetti farmi ripetere la domanda. Ma non me lo feci ripetere per la
terza volta. Ero a tal punto incuriosito da quella donna, a sentir
lui fuori dal comune, che accettai e gli promisi tutto il mio impegno
e la mia esperienza per aiutarlo a farla sua.
Ma
tornato a casa, accesi il computer e avviai la ricerca sul web,
volevo soddisfare la mia curiosità sui gasteropodi. Trovai un
articolo interessante nel quale si affermava che le lumache sono
ermafroditi insufficienti, cioè, pur possedendo sia gli organi
genitali maschili, che quelli femminili, per potersi riprodurre
necessitano dell’intervento di un altro simile.
E
perché?, mi chiesi, per masturbarsi l’un l’altro, o praticare
del sesso orale a vicenda?
No,
spiegava con serietà l’articolo, niente di tutto questo, i due
partner si accoppiano reciprocamente e ne restano vicendevolmente
fecondati. Così, ognuno di essi, pensai, è al tempo stesso padre e
madre dei suoi figli. E non è finita! Durante il rapporto
s’infilzano l’un l’altra con lo stiletto calcareo che hanno in
dotazione, procurandosi un intenso dolore. E nessuno studioso è
finora riuscito a spiegarsi il perché.
Ne
fui stupito.
Le
più fascinose, strampalate e strabilianti supposizioni che potesse
mai produrre la mia pur fervida immaginazione, in confronto non erano
che pagine ingiallite di un insipido romanzetto erotico di fine
ottocento. Questa le superava tutte. Altro che anomalie sessuali,
deviazioni comportamentali, morbosità d’interesse psichiatrico, il
sesso praticato dalle lumache era tutto depravazione, perversioni e
vizi. Un capolavoro di lascivia. Le chiocciole sapevano il fatto loro
e lo facevano da milioni di anni.
Le
trovavo semplicemente super.
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