sabato 9 marzo 2019

Di luce e d'ombra - Tempo di presentazioni




Era un giorno d’inverno e la nebbia colava densa dal cielo, dai tetti sui muri delle case e filtrava attraverso i vestiti, impregnando di un umido gelo le ossa come spugne bucherellate. Era un giorno da bar, da starsene al coperto, da lasciar scorrere tutto intero davanti a un bicchiere. Di birra, di vino, di rum, poco importa. La sola cosa importante era non starsene a penzolare fuori per le strade, come fantasmi. La sola cosa importante era aspettare che scendesse la notte. E io così facevo quel giorno. Aspettavo la notte. Non avevo più nulla, avevo perso il lavoro, ma non ero disperato. Contavo solo di dare una svolta alla mia vita. Per tutto il tempo l’avevo inseguita e finalmente mi si parava davanti come un libro aperto, un libro ancora da scrivere, con le pagine bianche come la nebbia, che avrei imbrattato vivendo, con il mio sangue nero al posto dell’inchiostro.

Seduto accanto a me, davanti al bancone del bar, un ragazzo con la sigaretta in bocca, davanti a un bicchiere di birra.

Ordinai la stessa cosa.

Lo osservai. Mi incuriosiva il modo elegante e ricercato di tenere la sigaretta tra l’indice ed il medio protesi verso l’alto. Mi incuriosiva il suo sguardo perso dentro il bicchiere schiumoso.

Come ti chiami?” chiesi.

Christopher” rispose tra gli svolazzi di fumo.

Dì un nome che valga la pena di sentire”

Egli rise, per nulla indispettito dal mio sarcasmo, e aspirò un’altra boccata di fumo.

Mi dispiace, ho solo questo nome”

Aveva gli occhi grandi e umidi, come quelli di un bue. Il suo era uno sguardo dolce, mite, bonario. Risi anch’io. Ordinai un secondo giro, il terzo lo offrì lui, il quarto ancora io e il quinto lo offrì il barista. Poi persi il conto.

E anche l’equilibrio.

E anche la memoria.

Ricordo solo che uscimmo dal bar abbracciati, ubriachi fradici, sbattendo contro le persone per strada e i lampioni.

Ci ritrovammo sul far della sera, seduti sull’argine del fiume, nell’aura di luce proiettata da un lampione, a contemplare le nostre ombre.

Da quel giorno diventammo amici.

Mi raccontò che gli piaceva una certa ragazza, un tipo sfuggente e originale, che lo faceva impazzire, lo faceva soffrire per quanto si negasse. Sosteneva di essere spasmodicamente alla ricerca di un nuovo equilibrio nel loro gioco delle parti, il loro pericoloso passatempo reciproco delle attrazioni e delle repulsioni, del mostrarsi e dello svanire, del colpire, affondare ed estrarre, dell’inseguito farsi inseguitore e viceversa, ma di faticare a trovarlo.

Diceva che lei lo faceva letteralmente uscire di senno. Aggiunse che aveva l’impressione che lei provasse piacere nel vederlo soffrire a causa sua. Gli chiesi se ne fosse innamorato.

Non rispose subito. Abbassò gli occhi come se si vergognasse, ritirò il suo sguardo umido dietro il velo delle ciglia, come le lumache ritirano le loro antenne al contatto di corpi estranei e minacciosi e rientrano con i loro corpi viscidi nelle case che sono condannate a portarsi sulla groppa, neanche avessero stipulato un mutuo per tutta la loro lenta vita fuori dai ritmi del mondo. Andare a zero virgola zero quarantotto chilometri all’ora è come non muoversi affatto.

E’ come non esistere.

Chissà, pensai, se per le chiocciole un giorno è lungo quanto un secolo; per noi ventiquattr’ore possono durare quanto una vita, o essere più brevi di una fumata di sigaretta e pensavo che se ci fosse un essere superiore a noi, come noi lo siamo rispetto alle lumache, quanto schifo dovremo fare a quell’entità che ci guarda dall’alto in basso e ci vede strisciare le nostre vite schifose su questo mondo infame, strisciare sulla pancia nuda contro la terra fredda e tagliente proprio come giganteschi e insensati gasteropodi. E se poi a quell’essere, superato il naturale ribrezzo, venisse voglia di toccarci con mano, noi ritireremmo i nostri sensori, le nostre antenne interiori, come fanno le lumache spaventate?

E forse Lea, così si chiamava quella creatura selvaggia e misteriosa, era uno di quegli esseri superiori, che vivono su altri mondi, pianeti separati e distanti, ma che ogni tanto piombano in questo per ricordarci quanto siamo inferiori. O forse orbitava indecisa nello spazio indefinito fra il nostro universo incompiuto, minore e corrotto e il suo, incuriosita dal nostro povero pianeta imperfetto quanto perfetto era invece il suo Iperione assoluto, totale e imprescindibile, puro e splendente come un cristallo, nel cielo di Urano.

E così, dopo aver bevuto come disperati fino a che il grigio chiaro del giorno divenne il grigio scuro della sera e il barista ci buttò fuori, seduti sulla terra gonfia di fiume, all’ora in cui la gente torna a casa dal lavoro, dà un’occhiata alle vetrine, o semplicemente sta fuori per sentirsi viva in mezzo ad altri esseri umani, venni a sapere di lei, venni a sapere che la bellezza e la perfezione non sono miraggi inafferrabili, non sono doni primordiali di altri mondi e di quando in quando, qualcuno di questi esseri celesti precipita sulla terra.

Mi dimenticavo. Rispose di si alla domanda. Quando rialzò lo sguardo, mi accorsi dai suoi occhi che aveva pianto. Si era asciugato subito le lacrime, ma queste avevano lasciato lunghe scie sulle sue guance, come le limacce. Era innamorato di Lea.

Mi venne voglia di conoscere quella donna che traeva così gran diletto nel far soffrire un uomo buono e cordiale, come mi pareva, almeno alle prime impressioni, Christopher.

Ma subito cominciai a chiedermi come facessero sesso le lumache, se vi fossero tra di esse esemplari che praticassero un qualche vizietto, di tanto in tanto, non so, il bondage, il pissing o il bukkake, ad esempio, o se il loro rituale di accoppiamento fosse sempre lo stesso, invariabile e costante fin da quando erano comparse sulla faccia della terra, tedioso quanto la posizione del missionario e come potesse essere considerato dalla loro lumachesca società un esemplare della specie che introducesse qualche variante.

E mentre la mia attenzione era rivolta alle deviazioni sessuali delle chiocciole, udii Christopher chiedermi se per caso potevo aiutarlo a conquistare Lea. Ero proprio in tromba per via delle lumache e dovetti farmi ripetere la domanda. Ma non me lo feci ripetere per la terza volta. Ero a tal punto incuriosito da quella donna, a sentir lui fuori dal comune, che accettai e gli promisi tutto il mio impegno e la mia esperienza per aiutarlo a farla sua.

Ma tornato a casa, accesi il computer e avviai la ricerca sul web, volevo soddisfare la mia curiosità sui gasteropodi. Trovai un articolo interessante nel quale si affermava che le lumache sono ermafroditi insufficienti, cioè, pur possedendo sia gli organi genitali maschili, che quelli femminili, per potersi riprodurre necessitano dell’intervento di un altro simile.

E perché?, mi chiesi, per masturbarsi l’un l’altro, o praticare del sesso orale a vicenda?

No, spiegava con serietà l’articolo, niente di tutto questo, i due partner si accoppiano reciprocamente e ne restano vicendevolmente fecondati. Così, ognuno di essi, pensai, è al tempo stesso padre e madre dei suoi figli. E non è finita! Durante il rapporto s’infilzano l’un l’altra con lo stiletto calcareo che hanno in dotazione, procurandosi un intenso dolore. E nessuno studioso è finora riuscito a spiegarsi il perché.

Ne fui stupito.

Le più fascinose, strampalate e strabilianti supposizioni che potesse mai produrre la mia pur fervida immaginazione, in confronto non erano che pagine ingiallite di un insipido romanzetto erotico di fine ottocento. Questa le superava tutte. Altro che anomalie sessuali, deviazioni comportamentali, morbosità d’interesse psichiatrico, il sesso praticato dalle lumache era tutto depravazione, perversioni e vizi. Un capolavoro di lascivia. Le chiocciole sapevano il fatto loro e lo facevano da milioni di anni.

Le trovavo semplicemente super.


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