venerdì 21 agosto 2015

Americanata



L’Autostrada Sessantasei corre attraverso una terra desolata. Un cactus appare ogni tanto, qua e là, fra la polvere del deserto, è il Nuovo Messico e io ci sto correndo sopra. Se potessi osservarmi dall’alto, vedrei soltanto un puntino rosso che si muove lentamente su un nastro argenteo che si chiama Autostrada Sessantasei. Se non fosse per questo tramonto infuocato, ultimo dono di un giorno altrettanto infuocato, direi che è una vecchia, sporca terra.

Una volta un nero mi disse: la casa è dove hai qualcuno, la casa è dove non ti odia nessuno; la tua casa può essere il mondo intero. Sarà per questo che la mia casa è molto lontana.

L’auto s’infila veloce dentro la notte che precipita. Se tu fossi qui con me, potresti sentire il filo delle emozioni scorrerti lungo la spina dorsale, come una lama di rasoio che ti apre la pelle. Già, ma tu non ci sei e io sono solo. Completamente solo. Eccetto forse un paio di coyote e un serpente a sonagli.

In lontananza prende vita l’insegna di un motel. Si avvicina, ingrandisce e fugge via dietro i miei gas di scarico. Dietro la staccionata mi è parso di vedere una donna dai lunghi capelli neri. Sarà stata un’indiana?

Accosto e arresto il motore. Non c’è altro. Soltanto il silenzio che m’invade i timpani ed ero io col mio maledetto motore intruso a devastarlo. Ora, ho rimediato. Lontano, fra le brume della sera che avanza, mi pare di vedere ancora quella donna, mi pare addirittura di sentirla cantare. Sento la sua voce argentea nel vento dell’ovest che spira nel deserto, fra i cactus e le rocce.

Mi dicono che ho gli occhi della gente comune, della gente che vive giorno per giorno. Stanotte scopro che è vero.

Rimetto in moto e riprendo la mia corsa. Intanto la notte è scesa rapida sull’Autostrada Sessantasei e vedo già le prime luci di una città.

Los Alamos? Santa Fe? Che importa, fra poco troveranno riposo una vecchia carcassa rumorosa e uno stanco mucchio di ossa.


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sabato 15 agosto 2015

La preda



La notte è buia e fredda e non vuol saperne di andare via.

Ho sentito il tuo respiro in affanno, so esattamente dove sei. Neppure il buio potrebbe impedirmi di arrivare a te. Sei inseguita, incalzata, braccata.

Non hai scampo.

So esattamente cosa stai facendo: cerchi di riprendere fiato dietro la siepe, fra l’erba umida e le foglie marce. Sono miglia e miglia che stai fuggendo e sei stanca, il cuore batte all’impazzata e ti martella le tempie, insieme al terrore che ti trabocca dal cuore; non hai più fiato. Sono miglia e miglia che stai fuggendo, hai attraversato gelidi torrenti e paludi nebbiose per far perdere le tue tracce, ma io ti sono sempre dietro.

La notte è tranquilla, dal bosco non giunge più alcun rumore e la nebbia si sta alzando. Ma il freddo! Questo freddo si insinua dentro le ossa e ti paralizza il respiro, gli occhi ti si chiudono e vorresti dormire, non c’è un muscolo del tuo corpo che non ti faccia male. Su avanti, chiudi gli occhi, potrai sprofondare in un morbido abisso e riposarti finalmente.

Hai sentito?

Sembrava qualcosa che si muoveva nel bosco, proprio dietro di te. Di colpo il sonno è scomparso e il tuo cuore pare che stia per scoppiare. Ma no, sarà un’altra illusione, l’ultimo inganno della notte che sta per morire.

Ecco, di nuovo. Hai sentito?

Lo stesso rumore.

Stavolta non c’è dubbio. Sono io, sono proprio io che vengo a prenderti alle spalle.

Vorresti fuggire, ma il terrore ti paralizza, non riesci a muoverti e io sono sempre più vicino. Sai bene che dovresti fare qualcosa (e io so esattamente cosa farai), che dovresti fuggire via, ma non ci riesci.

Mi senti? Senti il mio odore attraverso la notte? Io sento il tuo, sono vicinissimo, fra poco ti piomberò addosso.

La nebbia si è diradata e sopraggiunge l’alba, ne scorgi il chiarore rosato contro le montagne. Da quella parte è la salvezza, ma io sono dalla parte opposta, esattamente dietro di te, annidato nel buio.

Forza cosa aspetti? Alzati e corri. Hai corso miglia e miglia soltanto per cadere a un passo dall’alba? Non volevi sfuggirmi, non cercavi forse la libertà? E allora corri e non voltarti indietro, corri e basta.

Ecco, vedo che ti alzi. Le gambe sono ancora deboli, ma ti sostengono. Bene, sarà più divertente ghermirti. Sarebbe stato troppo facile piombarti addosso mentre eri così debole e indifesa.

Ma cosa fai? La salvezza è dall’altra parte, ricordi? Verso l’alba, verso le montagne. E allora perché vieni dalla mia parte? Perché vieni incontro al buio? Perché corri contro di me? Cosa vuoi fare?

Fermati, fermati! Ho detto fermati! Fermati, ti prego!


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martedì 11 agosto 2015

Miss Follia


 

  1. Una notte buia e tempestosa

 

Era una notte buia e tempestosa. I fulmini solcavano il cielo nero illuminandolo a giorno. Procedevo incerto, lo schianto del tuono mi faceva ogni volta sussultare; non ero sicuro della strada. La pioggia sferzava il parabrezza, i tergicristalli cigolavano, liberando per un momento la superficie di vetro, fino a quando non vi si rovesciava un’altra poderosa secchiata.

Un lampo mi abbagliò e illuminò la strada e i palazzi. Frenai di colpo. Avevo visto un cartello, con su scritto: Vittorio Battaglini, e più sotto, Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Ero arrivato.

Era il mio nuovo lavoro, a dir la verità, era il mio primo lavoro dopo la laurea in medicina e la specializzazione, non avevo trovato di meglio.

“Sono il dottor Mantovani, il professor Inghirami mi sta aspettando.”

Il portiere trasalì – qualcuno giungeva dall’infida notte, qualcuno giungeva da lontano, inzuppato di pioggia come un mendicante e invece era un dottore in carne e ossa, seppure al suo primo incarico retribuito – e mi guardò come uno che non ha capito niente, poi si riprese.

“Già, la sta aspettando da un pezzo. Da stamattina, per la precisione.”

“Ho avuto un contrattempo, mi dispiace.”

“Un contrattempo piuttosto lungo, a quanto pare. Mi segua.”

Mi condusse per corridoi verdi che sapevano di acido fenico e cloroformio, le suole bagnate delle mie scarpe cigolavano contro il pavimento di linoleum, alcune plafoniere al neon ronzavano, e si accendevano e spegnevano a intermittenza.

Ci fermammo davanti a una porta a vetri, rinforzata da una rete metallica. Il portiere bussò, una voce profonda disse: “Avanti” ed entrai. Il portinaio era svanito con una rapidità tale che dubitai che fosse realmente esistito.

Il professor Inghirami era da molti anni direttore dell’ospedale psichiatrico. Era un uomo di mezza età, alto e di corporatura massiccia. Radi capelli s’inerpicavano su una fronte vasta e striata dalle rughe. Le sue labbra succhiavano avide da una sigaretta infilata in un bocchino di madreperla.

“E così lei è Mantovani. Ho sentito parlare di lei. Si sieda prego.”

Aprì un cassetto e tirò fuori due bicchieri e una bottiglietta di whiskey, di quelle che i nostri genitori collezionavano negli anni settanta. Riempì i bicchieri fino all’orlo e me ne mise uno sotto il naso.

“Spero bene.”

Non attesi la risposta. Infatti, non ci fu alcuna risposta. Vuotai il bicchiere tutto d’un fiato. Era terribile, mi raschiò la gola e lo stomaco.

Il professor Inghirami mi scrutò attentamente. Cercai di capire se gli piacessi oppure no.

“Le assegnerò la paziente Elena Fusti.” disse dopo un po’.

“Elena Fusti?”

“Non ha mai sentito parlare di lei?”

“No.”

“Bene, allora avrà tutto il tempo per studiare il caso.”

Era tardi per cercare un albergo, così mi distesi sul lettino delle visite di quello che sarebbe stato il mio studio. Fuori imperversava ancora il temporale, non voleva smettere di piovere. Il lettino era stretto e duro, sentivo sotto la nuca il freddo metallico del telaio. Non riuscivo a dormire, così mi alzai e andai a cercare la cartella clinica di quella che, a quanto pareva, sarebbe stata la mia prima paziente.

Andai a prendere un caffè al distributore automatico, fuori in corridoio sentii urla che avevano perso ogni caratteristica umana. Mi accomodai alla scrivania, sorseggiai il caffè e aprii il fascicolo.

Scorsi in velocità i verbali processuali, le perizie psichiatriche, la sentenza di condanna. Mi soffermai sui referti medici, sulle anamnesi succedutesi nel tempo. Tutte si concludevano con una sola parola.

Schizofrenia.

Dalla cartella caddero alcuni ritagli di giornale che finirono sotto la scrivania. Mi chinai a raccoglierli.

Lessi i titoli degli articoli.

Il noto industriale Ettore Malusardi è stato trovato morto nella sua villa.

E poi.

Elena Fusti sotto inchiesta per l’omicidio del marito.

E ancora.

La Corte d’Assise ha deciso, miss Follia è colpevole. Riconosciuta l’infermità mentale.

 

 

  1. L’asso di picche

 

Mi svegliai. Era mattina presto. Una luce livida e grigia mi feriva gli occhi, un triste mattino di marzo faceva il suo ingresso nella mia nuova vita professionale. Avevo un gran mal di testa. Mi ero addormentato sulla scrivania.

Presi un altro caffè denso e oleoso al distributore automatico e lo trangugiai d’un colpo, prima che mi venisse voglia di sputarlo. Una lunga fila di pazienti, aperta da un robusto infermiere e scortata da molti altri attraversava in quel momento il corridoio. Mi unii, ultimo della fila, a quella processione che non aveva alcunché di sacro, facemmo tutto il giro dell’ala sud dell’ospedale e sbucammo infine in un salone illuminato da ampie vetrate, protette da rugginose inferriate. La sala era piena di matti, alcuni correvano lungo tutto il perimetro delle mura, altri strofinavano il viso contro le pareti, altri ancora strisciavano a terra come vermi. Sembrava un dipinto di Bosch. Non avevo mai visto tanti pazzi tutti insieme, in verità, non avevo mai visto un folle in tutta la mia vita, li avevo solo studiati sui libri, e ne rimasi impressionato. Ben presto si accorsero della mia presenza, ammutolirono e presero ad avvicinarsi. Mi circondarono in un muro di follia, dalle loro bocche sorse un mugugno collettivo, una sorta di sordida accusa, rivolta, forse, alla mia sanità mentale, che mi fece scorrere i brividi lungo la schiena. Mi sentii un intruso in un mondo di altri. Non riuscivo a sopportare i loro sguardi, come avrei fatto a curarli?

Sentii una mano afferrarmi alla collottola e trascinarmi indietro. Ci siamo, pensai, la mia carriera è già finita. Mi voltai. Era il professor Inghirami.

“Cosa ci fa qui? Non è questo il suo reparto.” disse con accigliata severità da sotto i suoi occhiali di metallo.

Mi lasciai condurre ancora una volta per il corridoio dell’ala sud. Il professor Inghirami mi lasciò davanti a una porta. Bussai. Mi aprì un’infermiera e mi fece accomodare.

Era l’ambulatorio, sarebbe stato quello il teatro in cui avrei mosso i primi passi della mia carriera medica. Sullo stretto tavolino di ferro giaceva una cartella consunta. Il nome Elena Fusti forse era stato dattilografato da una persona in preda alla rabbia, perché le lettere erano quasi incise sul cartoncino e addirittura il puntino sulla i lo aveva bucato da parte a parte. Aprii il dossier, ma non feci in tempo a leggere che la porta si apri ed entrò una giovane donna.

“Ecco la paziente” disse l’infermiera e richiuse la porta alle sue spalle.

Mi tolsi gli occhiali e invitai la donna a sedersi. Le posi in rapida successione alcune domande: il suo nome, innanzitutto e quanti anni avesse, che giorno fosse e anche l’ora. Rispose senza incertezze, sempre guardandomi negli occhi, abbassò lo sguardo soltanto dopo aver pronunciato il suo nome, ma tornò a scrutarmi in attesa delle mie prossime mosse.

Lessi alcuni fogli nella cartella clinica.

Schizofrenia di tipo paranoide. Il soggetto riferisce di allucinazioni percettive, soffre di deliri, si evidenzia una forte disorganizzazione del discorso verbale e del comportamento; alogia, avolizione, disturbi dell'attenzione e delle capacità intellettive, assenza di contatto visivo.

Ebbene, la donna che mi stava di fronte non presentava alcuno di quei sintomi. Sedeva tranquilla, la testa un po’ inclinata da un lato, le braccia distese e rilassate, le mani intrecciate sul grembo come a difendere la sua femminilità. Una postura del tutto naturale. Mi sembrava una persona normale e se l’avessi incontrata per strada non avrebbe risvegliato la mia curiosità, se non per un motivo.

Era bellissima.

Lunghi capelli neri incorniciavano un viso dalla carnagione molto chiara, illuminato da due splendidi occhi verdi. Aveva un fisico slanciato, era alta e magra, tutto il suo corpo dava la sensazione, insieme, della flessuosità e della morbidezza; il seno, alto e piccolo, fluttuava liberamente sotto la tunica da manicomio. Era proibito alle pazienti indossare il reggiseno, poteva trasformarsi facilmente in un mezzo per il suicidio.

O l’omicidio.

Tirai fuori una sigaretta dal mio pacchetto stropicciato e gliene offrii una. Lei accettò di buon grado, avvicinando la bocca alle mie mani che tenevano l’accendisigari, sentii il calore del suo fiato sul dorso della mano. Emise una lunga boccata di fumo e mi puntò addosso i suoi grandi occhi verdi.

E così, avevo di fronte la famigerata Elena Fusti, alias Miss Follia, il suo nome era comparso su tutti i giornali accanto alla parola “omicidio” e “infermità mentale”. Mi vennero i brividi.

Una persona che, come dicevo, mi sembrava perfettamente normale. O stava fingendo di essere sana e ci riusciva maledettamente bene – e questo non poteva che essere il sintomo che confermava la malattia -, oppure era davvero del tutto sana. Se era vera questa seconda ipotesi, allora quello non era il suo posto. Ma pensai anche che se per caso fosse uscita di lì, sarebbe finita dritta dritta dietro le sbarre a scontare la pena per l’omicidio del marito.

Decisi di sottoporla al test di Schneider.

Il test consiste nel mettere sotto il naso del paziente tre carte coperte e ordinargli di sceglierne una, avvisandolo che qualora estraesse l’asso di picche verrebbe messo a morte. Una persona normale estrarrebbe la carta, sicura che la minaccia di morte, nel caso pescasse l’asso, non verrebbe eseguita, mentre un malato mentale si rifiuterà con tutte le proprie forze di scegliere fra le tre la carta che potrebbe condurlo alla morte, perché prenderebbe per oro colato la minaccia pronunciata dal medico.

Allora, disposi le tre carte dinanzi ad Elena e le chiesi di scegliere. Lei estrasse una carta senza alcuna incertezza e me la mise sotto il naso. Era un asso di cuori. Emisi un sospiro di sollievo. Per me quella donna era del tutto sana di mente. Poi Elena disse: “Per un momento ho temuto che fosse l’asso di picche”. E mi si gelò il sangue nelle vene.  

Qual era il segreto di Elena Fusti? Cosa nascondevano i suoi occhi? Un segreto che era meglio non conoscere?

 

 

  1. Grandi occhi verdi

 

            Quella notte non chiusi occhio. Avevo sempre davanti a me il volto di Elena Fusti, e i suoi occhi verdi lampeggiavano nel buio della mia stanza. Era malata o era sana? Era colpevole o innocente? Alle quattro del mattino mi tirai su dal letto, mi vestii e mi recai in ospedale. Lì, rinchiuso nel mio studio, alla luce soffusa della lampada da tavolo, studiai tutti i libri di cui disponevo sulla schizofrenia.

Rigorosi studi scientifici dimostravano che il test di Schneider non era poi così infallibile; nel trentatré per cento dei casi si era dimostrato inaffidabile per dimostrare la presenza della schizofrenia. Riflettei. Trentatré per cento, come a dire che con una probabilità su tre Elena Fusti poteva essere schizofrenica, oppure, con due probabilità su tre, poteva essere sana.

Qual era la verità?                                             

La verità si annidava da qualche parte dentro di lei, dentro Elena, di certo, in fondo ai suoi occhi.

Alle otto del mattino conclusi che Elena Fusti era del tutto sana di mente. Fu più un atto di fede che una convinzione raggiunta con rigore scientifico, più un accertamento condotto col metodo empirico che con quello scientifico. Se avessi seguito pedissequamente gli insegnamenti della psichiatria, avrei dovuto dichiarare Elena Fusti schizofrenica, invece prestai fede alle mie sensazioni personali. E quelle non si trovano sui libri. Ma in ogni caso, ero convinto.

Povera creatura, smarrita in un mondo ambiguo, trattenuta a forza in un universo a cui non apparteneva, incatenata a un posto che non era il suo, avrebbe finito col perdersi sul serio, con lo smarrire davvero la ragione. Era stata cancellata via dal quadrante della vita, come un’ora trascorsa, un’ora troppo scomoda e infelice da ricordare.

Dovevo tirarla fuori di lì, dovevo liberare quell’essere infelice e restituirla al sole, alle colline, alla primavera. Dovevo farlo, a qualunque costo.

Da quel giorno, mi dedicai completamente a lei, trascurando gli altri pazienti e suscitando le ire del professor Inghirami. Ma io non badai né a lui né al fatto che avrei potuto perdere quell’incarico precario e mi concentrai sul caso Fusti. Passavo ore a parlare con lei nel mio studio, la sera, nella mia stanza d’albergo pensavo a lei e non vedevo l’ora di tornare il mattino dopo in ospedale per stare con lei.

La mia continua presenza pareva giovare al suo fisico e al suo umore. L’infermiera mi disse che aveva ritrovato l’appetito e aggiunse che parlava sempre di me. Ebbi un tuffo al cuore. Scoprii anche perché il fatto che la tenessi quasi sempre nel mio studio le facesse bene; i pazienti dell’ospedale psichiatrico giudiziario sono pressoché degli oggetti scomodi e fastidiosi e sono trattati abbastanza duramente: modi sgarbati, spintoni, parolacce e, a volte, schiaffi e calci, sono la norma; le donne, soprattutto quelle carine, subivano abusi da parte dei dottori, me lo confidò un giorno l’infermiera.

Elena migliorava giorno dopo giorno e io mi innamoravo di lei, perdutamente. Le tenevo la mano mentre le parlavo e affondavo sempre più nei suoi grandi occhi verdi.

 

 

  1. La verità, nient’altro che la verità

 

Ero felice, Elena, grazie alle mie cure e al mio amore, se mai un tempo era stata malata, era guarita. Ora, non restava che tirarla fuori di lì. Rilessi ancora una volta le perizie processuali e anche i verbali delle testimonianze e mi accorsi di due errori madornali, contenuti, rispettivamente, in una delle perizie psichiatriche dell’accusa e in una dichiarazione di un teste che, chissà perché, mi erano sfuggiti.

La verità è sempre dove non si guarda mai: davanti agli occhi. Ecco perché mi era sfuggita.

A dir la verità, non erano veri e propri errori, ma punti di debolezza dai quali però si potevano dipartire preoccupanti fratture nell’intero impianto accusatorio e farlo scricchiolare paurosamente.

Il primo di questi, dicevo, era nella perizia. Essa si basava su un’antiquata teoria, il postulato di Kreutzer-Goldstein, che era stata ampiamente superata perché non aveva più alcuna evidenza scientifica. Ma perché il perito si era servito di quella datata teoria? Forse qualcuno aveva interesse a rinchiudere Elena Fusti in un ospedale psichiatrico giudiziario per tapparle la bocca per sempre? Non ero in grado di saperlo, l’unica cosa che intuivo, e che mi rendeva felice oltremisura, era che la perizia psichiatrica sarebbe crollata perché si aggrappava tutta a quell’assunto; smontato l’assioma, la perizia sarebbe venuta giù con gran fragore come se a un edificio fosse stata tolta la pietra di volta.

Il secondo punto debole stava nella dichiarazione di un teste, Maria Finari, la donna delle pulizie, che sosteneva che la signora Fusti era in casa alle diciassette e trenta, ora presunta della morte del marito; ma, a richiesta della difesa, la Finari non aveva saputo precisare perché fosse così sicura dell’ora, dal momento che terminava il suo lavoro dai Malusardi sempre alle diciassette in punto. Inoltre, la stessa Elena mi riferì che l’aveva sorpresa a frugare nel cassettone dove teneva alcuni suoi gioielli e di aver avuto l’intenzione di riferirlo al marito per farla licenziare, ma poco dopo il marito era morto. Che storia! Un buon avvocato si sarebbe infilato mani e piedi in quella crepa, l’avrebbe allargata e ne avrebbe creato un abisso.

Ma perché, mi chiesi, questa debolezza nella teoria dell’accusa non era stata fatta valere dal difensore di Elena Fusti?

Più tardi venni a sapere che l’avvocato Terry McPherson dello studio Constant-McPherson, un esperto in diritto societario, era stato ingaggiato da Edoardo Malusardi, fratello nonché socio in affari del marito di Elena. Messa fuori gioco lei, giacché non avevano avuto figli, restava lui l’unico erede delle ingenti sostanze del fratello e, soprattutto, il socio unico della Malusardi & Malusardi S.p.A., che era poi effettivamente diventata la Malusardi S.p.A. Elena non aveva mai avuto nulla di suo, tranne la bellezza. E ora anche questa rischiava di sfiorire, di esserle strappata dal volto con la violenza di una condanna ingiusta. 

 

 

  1. Un fiume placido

 

L’attesa è l’unica forma di felicità concessa all’uomo.

E’ vero, le ore che la separavano dalla liberazione scorrevano lentamente. Era questione di pochissimi giorni, forse di ore, così aveva detto il nuovo avvocato di Elena, e avrebbe lasciato definitivamente quel luogo di disperazione e sofferenza. Erano saltati fuori due testimoni che giuravano di averla vista altrove nell’ora della morte di suo marito.

Quei testimoni li avevo pagati io, avevo dato fondo a tutti i miei risparmi - avevo impegnato l’orologio d’oro dono di laurea, avevo venduto perfino la macchina, non avevo più niente - pur di comprare la sua libertà. Lo so, non è stato onesto, ma se non avessi fatto così, dopo che era stata accertata la sua capacità di intendere e volere con una nuova perizia psichiatrica, inattaccabile dal punto di vista scientifico, Elena sarebbe finita all’ergastolo, non c’era uno straccio di prova a suo favore. Ma Elena era innocente, lo sentivo, i suoi occhi mi imploravano di liberarla, quella creatura così delicata non poteva avere commesso alcun delitto. Volle parlare ai giudici, fu convocata in aula e professò la sua innocenza senza paura di fronte alla giuria e al pubblico ministero, implorò che fosse creduta, giurò che era innocente e chiese con fermezza la sua libertà. E i suoi grandi occhi verdi, dopo me, convinsero anche la giuria e i giudici togati.

Il resto lo fece l’avvocato, parlò da vero principe del foro; minuziosamente passò in rassegna tutti i particolari del delitto, si accanì con caparbia contro le più piccole crepe dell’accusa, insinuò il dubbio in ognuno dei giurati, inserì la lingua nei punti deboli, s’infervorò, s’infuriò, imprecò, implorò, minacciò e, infine, pregò i giudici e la giuria affinché assolvessero Elena Fusti. Perché?

Ma perché era innocente, diamine!

L’arringa durò tre giorni; al termine erano tutti in lacrime, compreso il pubblico ministero.

E, finalmente, Elena Fusti, ex miss Follia, divenne mia moglie.

Il nostro matrimonio fece tanto clamore che di noi s’interessarono tutti i telegiornali, le maggiori testate nazionali e perfino la stampa estera; nascosti fra gli invitati scoprimmo un giornalista americano e addirittura un famoso scrittore di gialli.

Essendo stata assolta per non aver commesso il fatto, Elena poté ereditare tutte le sostanze del defunto marito: case, terreni, un sostanzioso conto in banca, titoli, obbligazioni e perfino una barca. E per di più Edoardo Malusardi finì sotto inchiesta per l’omicidio del fratello. La storia di Caino e Abele si ripeteva ancora una volta.

Ci aspettava una vita agiata. Io potevo dedicarmi completamente alla ricerca psichiatrica, non più costretto a turni massacranti nelle corsie o ad accettare incarichi in lerce strutture ospedaliere. Elena decise di mettere nero su bianco le sue avventure, ne venne fuori un romanzo, che fu pubblicato e riscosse un notevole successo. In seguito, furono ceduti i diritti a un produttore e ne fecero anche un film. I soldi piovevano sui soldi e non avevamo di che lamentarci.

La nostra vita insieme scorreva lieve e placida come un immenso fiume.

 

 

6. Un’altra notte buia e tempestosa

 

Era una notte buia e tempestosa. I fulmini solcavano il cielo illuminando a giorno la camera da letto. Le gocce di pioggia tambureggiavano contro la finestra. Mia moglie giaceva accanto a me, ne sentivo il respiro regolare. Indovinavo le sue forme nel buio, la spallina della camicia da notte le era scivolata sul braccio, i capelli neri e lunghissimi erano sparsi sul cuscino, l’orlo della veste di pura seta si era ritirato e le lasciava scoperte le gambe. Era bella. Era sempre stata bella, anche quando era in ospedale.

Mi sentivo stanco, molto stanco. Era stata una giornata di duro lavoro. Sentii le palpebre pesanti, i miei occhi si chiusero e scivolai in un abisso morbido e confortevole.

Mi ridestai all’improvviso. Avevo sognato che non riuscivo a respirare, che mi mancasse l’aria, come se avessi un peso che mi opprimesse il petto. Aprii gli occhi. La sensazione di oppressione permaneva, il peso sul petto era intollerabile, ogni respiro lo facevo con una fatica maggiore del precedente, come se un boa mi avvolgesse fra le sue spire, stringendomi più forte a ogni respiro.

Un fulmine lacerò le tenebre, feci appena in tempo a vedere che il letto, dalla parte di mia moglie, era vuoto.

Un'altra saetta illuminò una sagoma scura che mi sovrastava. Mia moglie era a cavalcioni su di me. Le sue cosce mi stringevano i fianchi.

Il lampo successivo si riflesse sulla lama del coltello.

Elena me lo puntava alla gola.

 

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