L’Autostrada
Sessantasei corre attraverso una terra desolata. Un cactus appare ogni tanto,
qua e là, fra la polvere del deserto, è il Nuovo Messico e io ci sto correndo sopra.
Se potessi osservarmi dall’alto, vedrei soltanto un puntino rosso che si muove
lentamente su un nastro argenteo che si chiama Autostrada Sessantasei. Se non
fosse per questo tramonto infuocato, ultimo dono di un giorno altrettanto
infuocato, direi che è una vecchia, sporca terra.
Una
volta un nero mi disse: la casa è dove hai qualcuno, la casa è dove non ti odia
nessuno; la tua casa può essere il mondo intero. Sarà per questo che la mia
casa è molto lontana.
L’auto
s’infila veloce dentro la notte che precipita. Se tu fossi qui con me, potresti
sentire il filo delle emozioni scorrerti lungo la spina dorsale, come una lama
di rasoio che ti apre la pelle. Già, ma tu non ci sei e io sono solo.
Completamente solo. Eccetto forse un paio di coyote e un serpente a sonagli.
In
lontananza prende vita l’insegna di un motel. Si avvicina, ingrandisce e fugge
via dietro i miei gas di scarico. Dietro la staccionata mi è parso di vedere
una donna dai lunghi capelli neri. Sarà stata un’indiana?
Accosto
e arresto il motore. Non c’è altro. Soltanto il silenzio che m’invade i timpani
ed ero io col mio maledetto motore intruso a devastarlo. Ora, ho rimediato. Lontano,
fra le brume della sera che avanza, mi pare di vedere ancora quella donna, mi pare addirittura di sentirla cantare. Sento la sua voce
argentea nel vento dell’ovest che spira nel deserto, fra i cactus e le rocce.
Mi
dicono che ho gli occhi della gente comune, della gente che vive giorno per
giorno. Stanotte scopro che è vero.
Rimetto
in moto e riprendo la mia corsa. Intanto la notte è scesa rapida
sull’Autostrada Sessantasei e vedo già le prime luci di una città.
Los
Alamos? Santa Fe? Che importa, fra poco troveranno riposo una vecchia carcassa
rumorosa e uno stanco mucchio di ossa.
COPYRIGHT 1988
ANGELO MEDICI
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