Florin attraversò il campo
goffamente. L’alba con forbici di luce alla mano ritagliava la sua figura
dall’oscurità e così dal cartoncino del fango e delle pozzanghere prendeva
forma la sua immagine ricurva.
Nelle baracche cominciava a brillare
qualche luce, si aprivano le porte e sbucavano teste dai capelli arruffati. Le
luci si accendevano, le teste si moltiplicavano e su tutti quei volti era
dipinta la stessa espressione. La stessa domanda.
Se
Florin non era mai partito, perché si trascinava dietro una grossa valigia?
Fu
costretto a fermarsi davanti alla sua baracca. Una folla di ombre dai capelli
irsuti gli sbarrava la strada. I bambini accarezzavano la valigia. Uscì sua
moglie.
“Bè,
cos’è questa confusione? Non avete di meglio da fare? Su, entra Florin, entra.”
Al
riparo del suo rifugio ritrovò i gesti consueti e afferrò la tazza che gli
porgeva Zirel. Il caffè era fangoso e amaro, ma l’aveva sognato per tutta la
notte sotto la luna fredda e gelida. Il letto si mosse e alcune teste emersero
da sotto le coperte, Dulcea, Kostantin e Pavel si svegliarono. Florin tolse
dalla giacca un fagotto e lo rovesciò sulla tavola. Alcune monete rotearono e
poi si fermarono. Una cadde sul pavimento. Zirel si affrettò a raccoglierla.
“Tutto
qua?” chiese guardando la valigia.
“Tutto
qua” ripetè Florin, guardando anche lui la valigia.
“E
quella?”
“E
quella, niente.” E si affrettò a riporla sotto il materasso.
“Come
niente?”
“Niente.”
Zirel
andò verso il letto, ma Florin le si parò davanti. Zirel lo spinse e Florin le
tirò i capelli. Lei gli diede un calcio, lui una sberla, Zirel gli graffiò il
viso e lui le tirò un pugno in bocca. La moglie sputò sangue, lo guardò furente
e gli saltò addosso. Caddero rotolando sul pavimento, senza smettere di
colpirsi, davanti ai figli che li guardavano, non troppo stupiti, del resto. A
un certo punto, Zirel gli fu sopra e sollevò una pentola con l’evidente
intenzione di rompergli la testa, ma si fermò proprio nel momento di farlo. La
mano a pugno di suo marito si era aperta e l’indice mostrava la valigia. Zirel
sorrise, un sorriso imperfetto, e pose una mano sulla maniglia.
Florin
l’aiutò a metterla sul letto, era molto pesante, vi s’installarono accanto e
presero ad accarezzarla. Florin fece scattare il meccanismo di chiusura. “No,
aspetta!” urlò sua moglie.
Dalle
finestre della baracca, poco più che buchi turati alla meglio con fogli di
polietilene, entrava ormai la luce del giorno e le sagome di teste dai capelli
arruffati. Florin risistemò la valigia sotto il materasso, Zirel uscì urlando e
le sagome scomparvero.
“Dobbiamo
stare attenti, Zirel.”
Zirel
annuì e guardò le finestre con occhi da felino.
“Ma
cosa ci sarà dentro?”
“Non
lo so, ma è pesante. Forse dei vestiti, ma prima, mentre la portavo qui, ho
sentito qualcosa di duro, una forma solida.”
“Una
scatola?” Gli occhi di Zirel, che erano già grandi, si fecero ancora più
grandi.
“O
un cofanetto, oppure un… Come si chiama?”
“Un
portagioie?”
“Si,
proprio quello!”
“Pensa
quante cose potremo fare. Comprare vestiti nuovi e la televisione e potrò farmi
la messa in piega.”
“Io
voglio un quintale di salsicce, una stecca di sigarette e… E un’automobile!”
“E tantissimi
colori, le patatine fritte e la playstation!” Fecero Dulcea, Kostantin e Pavel.
“Zitti
voi.” Urlò Zirel “Andate fuori a giocare”. Poi, guardò negli occhi il marito e
gli sussurrò: “Oggi non usciamo per nessun motivo, stiamo di guardia alla
valigia e domani, prima che spunti il sole, scappiamo via da qui.”
Detto,
fatto. Florin stette tutto il santo giorno davanti alla porta della baracca a
fumare, Dulcea, Kostantin e Pavel mantennero la promessa e non si fecero più
vedere per il resto della giornata, mentre Zirel vide morire il giorno a cavallo
della valigia, dimenticando perfino di fare i suoi bisogni.
Quando
la sera allungò le ombre nella stanza, apparecchiarono una magra cena e mandarono
i figli a letto prima del solito. Ma la moglie che sussurrava cavalcando una
valigia era una cosa che non si vedeva tutti i giorni e a Florin fece uno
strano effetto. Quella notte si guardarono negli occhi e la catapecchia
traballò più del solito, eppure non ci fu vento. Quando le assi smisero di
scricchiolare, si addormentarono mano nella mano, come bambini, con un tenue
sorriso dipinto sulle labbra.
Florin
si svegliò all’improvviso. Aveva sentito un rumore. Infilò la mano sotto il
letto.
La
valigia era sparita.
Zirel
urlò, i figli piansero, Florin bestemmiò. Il vento gelido entrava dalla
finestra da un largo squarcio nel polietilene.
“Ecco
da dove sono entrati.” Pensò.
Uscì
dalla baracca. Un’oscurità fangosa ammorbava il campo. Non era ancora sorto il
sole. Dalla finestra si dipartiva un solco nel fango, che pareva essere stato
tracciato da qualcuno che trascinasse un oggetto molto pesante.
“Ed
ecco da dove sono usciti.”
Le
tracce terminavano davanti all’uscio di una casupola.
Florin
tornò indietro.
“Presto
Zirel e anche voi ragazzi, venite con me.”
Zirel
prese una padella, Dulcea, Kostantin e Pavel un bastone a testa e Florin
nascose un coltello nella manica. Arrivarono alla stamberga e si acquattarono
nell’ombra. Florin non sapeva che fare.
“Dobbiamo
sfondare la porta e riprenderci quello che è nostro” disse Zirel.
I
ragazzi annuirono.
Allora
Florin si stiracchiò come faceva al risveglio, spinse il petto in fuori e
assunse un’aria truce. Ma non accadde nulla.
“Dai
Florin, dai sfondala” gli bisbigliò Zirel torcendogli un orecchio.
Proprio
in quell’istante, la porta si aprì, Zirel lo spinse dentro e Florin si ritrovò
addosso a un vecchio. Era Papà Miroslav che probabilmente usciva a far pipì. Il
vecchio urlò, lo abbracciò non si sa per quale motivo e crollarono insieme sul
pavimento di legno con un gran frastuono. Si svegliò Miroslav figlio, che era
un omone grande e grosso, e anche sua moglie, che era un donnone grande e
grosso, e anche i loro figli, che erano ragazzoni grandi e grossi. L’unico
magro era il nonno.
Nell’oscurità
partì un pugno e si scontrò casualmente con l’occhio di Florin. Malgrado avesse
un occhio offuscato dal buio e l’altro abbagliato dai lampi prodotti dal
cazzotto di Miroslav, egli riuscì a scorgere una forma a parallelepipedo in
fondo alla stanza. Era la valigia! Zirel l’abbrancò e faticò non poco a
trascinarsela dietro aiutata dai suoi figli. Florin capì che era giunto il
momento di coprire la ritirata ai suoi e si dispose di buon animo a ricevere
altri colpi dai Miroslav. Gli arrivò
una padellata in testa, un dito nell’occhio sano e un calcio dove non brucia il
sole. Il vecchio Miroslav gli morse una mano, Florin urlò dal dolore e si
chiese come avesse potuto perché gli mancavano tutti i denti. Ma riuscì a
divincolarsi, e zoppo e accecato scappò verso il suo tugurio, però si strappò i
calzoni su un chiodo malandrino che reggeva le assi di casa Miroslav.
“Presto,
chiudi Zirel” disse ansante, reggendosi le braghe.
Intanto,
tutto il campo si era svegliato. Una calca nera e silenziosa si ammassava nello
spiazzo fangoso. Sentì Miroslav arringare la folla, spiegando che la valigia
era sua perché Florin gliel’aveva venduta e ora era venuto a riprendersela.
Dalla massa di corpi scuri salì un sordo mormorio di sdegno.
“Non
è vero, non è vero” dovette giurare e spergiurare Florin davanti allo sguardo
felino di sua moglie, che tremava da capo a piedi.
Miroslav
urlò qualcosa che non riuscirono a capire e poco dopo udirono colpi sordi alla
porta: tentavano di sfondarla. Allora ammucchiarono il tavolo e le sedie contro
l’uscio e tavole e suppellettili addosso alle finestre. I colpi alla porta
cessarono e calò il silenzio. La roccaforte era riuscita a resistere
all’assedio?
Un fulmine
squarciò il cielo nero e illuminò a giorno il campo, lo schianto del tuono li
fece sobbalzare e cominciò a piovere. Le gocce cadevano sulle lamiere del
tetto, rigavano i fogli di polietilene e ticchettavano nei catini posti sotto i
noti buchi del tetto. Sentirono voci avvicinarsi e poi un forte odore di
benzina. Non fecero in tempo a dir nulla che la baracca prese fuoco. Erano dei
folli, dementi, pazzi da legare. Volevano bruciarli vivi per una valigia?
Zirel
prese Dulcea e Kostantin in braccio, Florin si caricò Pavel sulle spalle e,
presa la valigia, spalancò la porta e volò fuori. Sulle loro reni si abbatterono
pugni e calci e poi bastoni e pietre. Mani perfide cercavano di afferrarli,
piedi lesti tentavano di far lo sgambetto. Ma non riuscirono a prenderli. Corsero
a perdifiato, senza voltarsi una volta a vedere chi li colpiva. Si fermarono
soltanto quando dietro di loro la strada fu vuota e silenziosa. Nessuno più li inseguiva.
Lontano, così indietro da sembrare il passato, la baracca crepitava in un
immenso rogo.
Smise
di piovere. La luna lottava contro brandelli sfilacciati del temporale e
illuminava a tratti i loro volti tumefatti e sanguinanti.
Che
fare adesso? Certo avevano riconquistato la valigia, ma la loro umida,
decrepita casetta era andata a fuoco. La strada si perdeva nel buio e nel fango
costeggiando il fiume. A dirla tutta, non era un grande fiume, ma neppure un
torrentello; era un corso d’acqua che aspirava a esser grande, e tuttavia, annegava
in mare, senza ricever alcun affluente. Ma come ogni fiume che si rispetti,
aveva il suo bravo ponte. Un ponte importante, perché sopra ci passava
l’autostrada.
Zirel
si sentì chiamare dal marito. Florin le indicava un sentiero che si perdeva nel
buio sotto gli argini, fra il gorgogliare delle acque, proprio sotto il ponte.
Per loro non era la prima volta dormire sotto i ponti, ma per i figli si, erano
sempre riusciti a metter loro un tetto, seppur bucato, sopra la testa. Zirel li
guardò e le venne da piangere. Ma non c’era alternativa e seguì il marito giù
nella golena.
Florin
andò in cerca di legna secca e accese il fuoco. Bagliori rossastri si
riflessero sui volti, sull’acqua nera del fiume e sulle arcate del ponte. Così
andava decisamente meglio, un dolce tepore pervase le loro membra indolenzite e
si guardarono. O almeno, Florin ci provò perché aveva entrambi gli occhi gonfi
e pesti e riusciva a inquadrare soltanto pochi gradi d’orizzonte. Ma quel
ristretto campo visuale fu sufficiente a fargli stringere il cuore in una
morsa. Vide i suoi figli infreddoliti, con i capelli strappati, i volti e le
mani piene di graffi e tagli. Le lacrime rigavano il viso di sua moglie, facendosi
strada su una densa patina sporca e untuosa; nella lotta furibonda con i
Miroslav le si era strappato il vestito e una profonda scollatura metteva in
mostra il seno ancora florido. Egli sentì di amarla, come non l’aveva amata mai;
in quell’alba livida sotto il ponte, accanto al fiume, sentì di amare alla
follia quella donna, i suoi figli, la sua famiglia, tutto ciò che gli restava,
tutto quello che aveva al mondo. Non gli era rimasto più niente. Tranne la
valigia.
In
quell’istante gli sguardi di tutti si posarono insieme sul misterioso e pesante
bagaglio, ma nessuno osava muoversi. L’acqua scorreva dettando il tempo a tutte
le cose, il ponte era un arco scuro che trapassava la notte, il suo dardo un
fuoco che ardeva sui volti.
Florin
si avvicinò alla valigia, guardò Zirel e i suoi figli e fece scattare la
serratura. Un silenzio di tomba scese sulla famiglia. Lentamente, sollevò il
coperchio e il bagliore rossastro delle vampe illuminò l’interno. Nessuno disse
nulla, poi Florin la richiuse. La falce della luna lacerò i resti del temporale
e illuminò i loro volti. Dieci occhi rimasero a fissare l’acqua nera che
scorreva sotto il ponte.
COPYRIGHT 2015
ANGELO MEDICI
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vietata
Cosa rappresenta la valigia, quali simboli contiene?
RispondiEliminaIl viaggiatore si trascina dietro una parte di sé durante l’estraniamento del viaggio e dunque la valigia è un tesoro personale, la propria identità, o quel che ne rimarrà alla sua conclusione. E’ quindi un tentativo di sopravvivenza: fare la valigia è un gesto di conservazione del sé, della propria essenza che verrà spogliata dalla partenza. Ogni viaggio, seppur breve, è una trasformazione, una metamorfosi inconsapevole del viaggiatore, che arriva irrimediabilmente diverso da quando è partito. Egli partirà o arriverà in luoghi che non sono luoghi: stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, luoghi di transito e di alienazione, i cui tempi sono dettati dagli orari ferroviari, dai fusi orari e i ritmi circadiani ne sono sconvolti; luoghi in cui non si arriva mai davvero e in cui non si potrà sperare in nulla, a parte il tenue conforto di poter aprire di tanto in tanto la valigia e sbirciarvi dentro in cerca di effimere, deboli radici. E sperare che non si perda durante il viaggio, che non ce la portino via.
Smarrire la valigia è come perdere il proprio volto nell’oscurità dell’ignoto.