sabato 27 dicembre 2014

La luce o l'ombra?



Scrivo di me senza precauzioni, senza compromessi, senza risparmiarmi nulla. Scrivo di cose che fanno male. I miei racconti, i miei romanzi, le mie storie sono tragiche e amare. La vita non ha lieto fine. Per questo, dico, la scrittura, se è sincera, è devastante, è una forma d’introspezione psicologica che scava nelle profondità abissali dell’anima, dentro oscurità inimmaginabili. Ma, tanto è spietatamente devastante, quanto è straordinariamente catartica, salvifica, liberatoria. Per me, il foglio bianco e la matita sono lo psicologo e il suo lettino. Vi assicuro che due ore di scrittura sono meglio di una seduta di psicanalisi. Mi sento, ogni volta, leggero, sereno, quieto, come essermi tolto un peso. Ed è sempre stato così, fin da quando non ero che un adolescente che scoppiava di pus e testosterone.

Ma, non ho ancora detto tutto, non ho ancora scritto di cose che non ho il coraggio di narrare. Esse si nascondono nel buio dentro di me, rifuggendo qualsiasi tentativo d’indagine, qualunque sprazzo di luce e, come la luce è necessaria per impressionare una lastra fotografica, così ho bisogno di luce, di molta luce, per tingere i fogli in nero con quelle vicende. Ma dovrò farlo senza ipocrisia, ancora una volta senza precauzioni, senza compromessi, senza risparmiarmi nulla.

Forse, fondamentalmente, ho più paura di diventare grande che di essere mediocre. Da qualche parte, non ricordo più dove, ho letto che la nostra paura più profonda non è di essere inadeguati.

La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite.

E’ la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più. Io devo ancora capire se ho una luce dentro e se questa luce, ammesso che ci sia, è più forte della mia ombra. Se non avrò paura e lascerò che la luce rischiari i miei abissi e mi faccia trovare la forza di raccontare anche quello che non si può raccontare, allora diventerò grande; se, come temo, troverò più comodo rifugiarmi fra le ombre, la mia essenza creativa, sia essa narrativa che musicale, si spegnerà poco a poco sulla pagina come su un ordinario letto di morte e le mie parole, ormai inutili, spente e fredde, giaceranno su una scrivania piena di altre cose banali, dozzinali e insignificanti.

La collezione di una vita.

Un approccio al manicheismo dei nostri tempi


 

Vogliono farci credere che il mondo sia diviso in due parti, che la vita si declini sempre e solo in due categorie: bianco – nero, buono – cattivo, giusto – sbagliato, bello – brutto, destra – sinistra, nord – sud. Non credo proprio. Io credo nei colori e non nella monotona sequenza del bianco e del nero, due colori tristi e anonimi, dei quali il primo respinge la luce e il secondo l’assorbe tutta e che, fusi insieme le sottraggono l’ancor più monotono grigio.

Allora, perché limitarci a vedere il mondo come attraverso un vecchio televisore in bianco e nero, quando l’universo è un’esplosione di colori, sfumature, tonalità, gradazioni, nuances, insomma milioni di milioni di possibili alternative?

E’ troppo semplicistico, infantile, oserei dire, classificare e ridurre la vita, il mondo e le persone in maniera così netta: o di qua, o di là, o con noi, o contro di noi. E questo vale in tutti i campi, in politica, nel pensiero comune, nello sport. Ad esempio, anche Facebook è molto manichea: o clicchiamo su “Mi piace”, oppure su “Non mi piace”, anche se si può sempre cambiare idea sbaffando “Non mi piace più”. E meno male, però manca un simbolo da cliccare per l’astensione, per evidenziare i distinguo, per articolare le diverse posizioni e attenuare la nettezza delle risposte. Si mi piace, ma…

Io credo che chi sta male senza catalogare e classificare, in fondo, abbia una profonda paura della molteplicità, della diversità, dell’alternativa e cerchi di rifugiarsi in più rassicuranti e predefinite categorie contrapposte. Queste persone che si rifugiano nel settarismo sono, in realtà pavide e insicure. Sono spaventate, temono il mondo, sono terrorizzate dalla vita. Ma io credo che la nostra paura più profonda non sia quella di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. E’ la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più.

Ne conosco tanti di questi individui, n’è pieno il mondo di questi personaggi che, animati in cuor loro dalle migliori intenzioni, brucerebbero chi sta dall’altra parte: i neri, i cattivi, gli omosessuali, i meridionali. Appiccherebbero il fuoco al brutto e ripulirebbero il mondo dalle nequizie che, guarda caso, stanno sempre e solo dall’altra parte. E, seduti dalla parte della ragione c’è sempre un’immensa folla, invece, dalla parte del torto non c’è mai nessuno. Ma, delle migliori intenzioni, si sa, è lastricata la via per l’inferno ed essi ignorano che dentro la bellezza c’è sempre un po’ di bruttezza, che in fondo alla giustizia c’è sempre un pizzico d’ingiustizia e che anche nelle profondità oscure dei malvagi, degli empi e degli assassini può risplendere una minuscola goccia di bontà.

Non è possibile distinguere il grano dal loglio, non si può fare di tutta l’erba un fascio. Ad appiccare il fuoco si corre il rischio di bruciare tutto. E’ un grande pericolo applicare alla realtà i massimi sistemi, che non consentono deviazioni, che non tollerano eccezioni alla regola della politica, della religione, della morale. Ecco allora che il manicheismo diventa dogmatismo, settarismo e fanatismo, una brutta serie di –ismi, che sono decisamente pericolosi e da rifuggire.

domenica 21 dicembre 2014

Tra le braccia della Spagna




Perdido en el corazòn
de la grande Babylòn.

                                                                                                                      (Manu Chao)

 

Quello che fa più male

è ciò che non puoi avere.

(Antonio Scafa, filosofo amatoriale)
 

La Spagna mi accolse di notte, come una tenera amante, madre e puttana, fra le dune sabbiose delle Baleari e il Mediterraneo silenzioso. Davanti a me si apriva una nuova vita e la brezza marina mi alitava in viso il profumo dell’ignoto.
L’autobus arrancava faticosamente nelle strette calli della cittadina balneare e mi accorsi ben presto di non essere stato il solo ad avere avuto la balzana idea di dare sollievo alle peregrinazioni del cuore, tuffandomi in un viaggio così lontano dal mio stile.  
Sui sedili in fondo alla corriera, sedevano speranzosi, italiani dal cuore infranto.
 
 
  1. Un rifugio confortevole e conosciuto
 
La ragazza ballava al centro della pista, poi mi guardava e sorrideva, dimenando i fianchi al ritmo di una musica assordante. Le sue gambe sottili, sospese su tacchi ancor più sottili, si muovevano al pari di quelle di un trampoliere nella massa di corpi sudati. L’allegro caos della danza ci portò vicini.
Danzammo insieme. Io la prendevo per i fianchi, assecondando il ritmo della musica e lei abbandonava la testa sul mio petto, come per cogliere un momentaneo riposo. Ma, di tanto in tanto, senza preavviso, voltava le spalle e andava a ballare da sola, al centro della pista. Eppure tornava ogni volta sui suoi passi.
Le mie mani si facevano intraprendenti e le afferravano i fianchi con vigore, carezzandole il ventre e la schiena, come se conoscessi quel corpo alla perfezione e in un’altra vita lo avessi amato. Più osavo, più si arrendeva a me e la sua testa tornava ad abbandonarsi sul mio petto, come se ritrovasse un rifugio confortevole e conosciuto.
 
 
  1. Due bicchieri di gin lemon
 
Non dimenticherò mai quella notte che le dissi davanti a due bicchieri di gin lemon: “Sus ojos estàn como estrellas” (1), e lei rideva di gusto, di un riso pieno che le riempiva la bocca e le faceva brillare gli occhi, e diceva che gli uomini, che siano italiani che siano spagnoli, son tutti uguali, sempre pronti a stordire le donne con cascate di parole dolci, per poterle scopare senza sentimento, mentre il barista scuoteva la testa e pensava: “Tutti uguali questi italiani! Sempre pronti a fregarci le donne. Ma perché non se ne stanno a casa loro?” e nell’aria andava una musica latina, avvolgente e sensuale e c’era chi cantava: “La vida es pura pasiòn” (2).
Non dimenticherò mai quella notte che lei disse: “Vamos a bailar al Tito’s. Adios!” (3), mentre rideva di gusto, di un riso pieno che le riempiva la bocca e le faceva brillare gli occhi, e sparì per le strade del porto, e il barista scuoteva la testa e pensava: “Tutti uguali questi italiani! Sempre pronti a innamorarsi della prima femmina che gli si para davanti. Ma perché non se ne stanno a casa loro?” e nell’aria andava lo stesso ritmo latino, potente e delicato, avvolgente e sensuale.
 
(1) ”I tuoi occhi sono come stelle.”
(2) “La vita è pura passione”
(3) “Andiamo a ballare al Tito’s. Addio!”
 
 
3. La regina delle puttane
 
“Andiamo a fare l’amore!” disse la nigeriana cingendomi i fianchi sotto una palma. Io palpai quella scultura di ebano e avorio e chiesi: “Quanto?”.
“Tremila pesetas.”.
Andammo dietro l’albero. La presi per la vita e l’attirai a me. Sentivo forte il suo odore di donna e di polvere e sudore e del sole della strada.
“A proposito” feci “Domando sempre pagamento anticipato, quindi fuori i tremila”
Lei mi guardò sbigottita, i suoi grandi occhi neri s’accesero nella notte. Poi comprese.
“Tu disgrassiato!” disse e mi afferrò dolcemente per il collo, mentre un inaspettato sorriso rivelava i suoi nobili lineamenti.
Era bella. Avrebbe potuto essere una principessa in terra d’Africa, ma in quella notte di Spagna era solo la regina delle puttane.
 
 
              4. Nella casa a occhi chiusi
 
L’aria sapeva di corpi sudati, di profumo da donna in svendita al centro commerciale, dolciastro e nauseante come una bibita gassata e di accessori in latex. Avrei potuto scrivere una storia a occhi chiusi, lasciandomi guidare solo dagli odori e dai suoni che il respiro artificiale del condizionatore mi portava al naso e alle orecchie.
Sentivo attraverso la mano il velluto dei divani del privèe, il freddo bagnato dei bicchieri, il velluto di gambe di donna e ancora il velluto dei divani del privèe. Poi, la piacevole freschezza di un giovane corpo sconosciuto, labbra umide e calde sulla pelle, la trepidazione di una bocca in attesa e la soffice consistenza di seni sontuosi.
E il fruscio di letti disfatti nel buio di una stanza, il tintinnio del ghiaccio nei bicchieri e il lamento di una donna, come un canto.    
 
 
5. Fratelli e sorelle del Kossovo

 

Shefrah distendeva il corpo sinuoso e poggiava la testa sull’anca di Nydah. Nydah abbandonava il capo su un fianco di Shefrah. I capelli corvini delle sorelle kossovare si fondevano in una sola fluente chioma che ardeva come viva fiamma e il sole plasmava sulla sabbia l’ombra di una figura mitologica bicefala. Così unite, si crogiolavano al sole, languidamente distese sulla spiaggia del mare. Nessuno osava avvicinarsi a meno di cinque metri dalle ragazze e tutti sapevano perché. Tranne gli italiani.

Quando gli audaci militi dell’italica avanguardia estesero il loro territorio di conquista agli asciugamani occupati del Kossovo, conobbero anch’essi la verità e pensarono bene di chiedere l’intervento delle Nazioni Unite.

“Non possiamo uscire, non possiamo andare in discoteca, non possiamo parlare con gli estranei.”, disse Shefrah.

“Nostro fratello non vuole.”

 
 
6. Il dipinto appena servito
           
La paella bollente esalava vapori profumati dalla scodella di coccio smaltato. Il nero di seppia sovrastava il rosso pompeiano dei pomodori, e gamberi dai riflessi ramati e mitili di bistro erano esposti come in una natura morta. I crostacei sfumavano la loro lucentezza nel biancore del riso e la birra gelata Cuzcos spargeva bagliori giallo cadmio alla vivida luce del sole.
Poco lontano, Paco il cameriere ammirava soddisfatto il dipinto appena servito.
 
7. Un’azione, un gol
 
Il Real Madrid avanzava impetuoso, travolgendo la pur strenua difesa del Deportivo La Coruna. Alle azioni della squadra di casa mancava, però, il gol.
Le amiche spagnole giocavano a carte, prestando un occhio distratto alla televisione e, di tanto in tanto, al gioco. La loro attenzione era tutta per gli ospiti dell’albergo. Erano letteralmente rapite da volti stranieri, da sguardi inconsueti, da gesti insoliti. Il fidanzato inglese non si curava affatto di loro, mostrava grande interesse per la partita, non perdendosene un’azione e non gli importava alcunchè degli ospiti dell’albergo.
Le ragazze erano molto attratte dagli italiani. Con loro avevano instaurato un reciproco gioco di sguardi e sorrisi. Il loro interesse era contraccambiato e cresceva a ogni nuova occhiata, ma non aveva ancora raggiunto il livello che gli italiani speravano.
Ma, dopo tante azioni del Real, la prima e unica folata offensiva del Deportivo ebbe il dono della trasformazione in rete. Le ragazze esultarono.
Entrò in quel momento un giovane dal volto misterioso, si affacciò sulla porta e con un solo sguardo abbracciò l’intero salone. I suoi occhi azzurri scintillarono nella penombra e si soffermarono per un breve istante sulle due amiche. Poi uscì e tornò in strada.
Le ragazze si erano ammutolite sotto il peso del suo sguardo e arrossirono. Era forse l’uomo più bello che avesse mai calpestato la terra di Spagna? Esse si guardarono in volto alcuni istanti e decisero che si, lo era. Si alzarono dal tavolo da gioco, attraversarono la hall ticchettando e si affrettarono a raggiungerlo.
Non avevano degnato di una parola o di uno sguardo gli italiani, né tantomeno il fidanzato inglese.
La partita intanto era terminata. Egli spense il televisore e si avvicinò agli italiani.
“Un azione, un gol” disse loro e si avviarono insieme al bar a berci su.
     
 
              8. La danzatrice
 
La danzatrice sul cubo osservava un tedesco attempato con l’addome voluminoso, sdraiato comodamente sul lettino da spiaggia, guardava un gruppo di giovani che tracannava sangria, attingendola da una colonna di plastica trasparente alta più di un metro e notava la sbronza allegra di un crucco dagli occhi neri. Quindi il suo sguardo si soffermava su un paio di donne dai capelli corti che sghignazzavano sorseggiando grossi boccali di birra e sui fianchi ancora acerbi di certe ragazzine bionde che si dimenavano nel ritmo forsennato e pensava che da più di un’ora si trovava lassù, seminuda, esposta agli sguardi di tutti, ad agitarsi a suon di musica.
Allora, s’immaginò trasparente come l’aria e le parve che gli sguardi le trapassassero il corpo da parte a parte senza farle alcun male. Come avrebbe voluto liberarsi dalle catene della gravità che la tenevano ancorata a quel pulpito traballante. Allora, si concentrò ancora un poco e si sentì subito libera e leggera, senza peso.
Un tedesco alto e forte chiese alla cameriera di portargli dell’altra sangria, una donna di mezz’età, ma ancora in grado di attrarre sguardi maschili, si arrampicò su un alto sgabello e accavallò le gambe, mentre un’altra, più giovane, diede un bacio sulla bocca all’uomo che le stava accanto. Intanto la danzatrice si sentiva sempre più lieve e sempre più trasparente e non si rendeva conto di aver smesso di danzare. E rimase immobile sul cubo come una statua su un piedistallo.
Prima una mano, poi un’altra e un’altra ancora, la additarono e mille occhi si fissarono su di lei, a rimirare quell’insolito avvenimento. Ma la ballerina, con gli occhi sognanti e persi nel vuoto, non si era accorta di essere diventata, all’improvviso, oggetto di tanta attenzione. Perfino la musica si arrestò e un silenzio irreale calò sulle persone. Tutti guardavano a bocca aperta con il volto dipinto dallo stupore, alcuni boccheggiavano come pesci perché la sangria si era fermata loro in gola e articolavano espressioni gutturali e incomprensibili.
Nulla aveva più alcun senso, come il sole che tramontava e la folla ammutolita, e il cubo pareva un piedistallo abbandonato dalla statua che doveva sostenere. La danzatrice aveva spiccato il volo e planava ora sulla spiaggia, ora verso i bassi fondali vicino alla costa, dove indugiava sospesa nell’aria e, assumendo nel suo volo più destrezza ed equilibrio, si diresse, senza più timore, verso il mare aperto.
 
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venerdì 5 dicembre 2014

Amore part time




“Io non ho più piacere di stare con te”. Non ce l’ho più. Mi sono imposto, e ho smesso, di desiderarti, per evitare continui rifiuti, continue frustrazioni. Desiderarti non serve a niente. Quindi, non ti desidero più, perché so bene che desiderarti è inutile. Per me sei e resterai un grande mistero, proprio non ti capisco. Non comprendo la tua freddezza, il tuo continuo anteporre altri a me.

Io sono sempre l’ultimo della lista, quello che chiude la fila, che chiude la porta, che butta i rifiuti nel cestino, quello che, se avanza tempo, bene, altrimenti, va bene lo stesso. Io sono quello che non chiede più, perché conosce la perfetta inutilità della domanda. E dell’attesa.

Io sono quello che non ti cerca più, perché sa della profonda futilità della sua ricerca. E sono anche quello che si meraviglia della tua meraviglia, del tuo stupore a sentirsi dire le cose che ho appena detto, come fossero bizzarrie inesplicabili profferite da un essere venuto da mondi lontani e non semplici conseguenze del tuo atteggiamento.
Come non si può vivere a tempo, a termine, a part time, così l’amore non può attendere turni e scadenze, non può aspettare che la persona amata ci degni della sua attenzione. Così, come un fiore che, una volta, era stato bello e profumato, esso sfiorisce, invecchia e muore.