giovedì 31 dicembre 2015

New year's day


 

            Quando l’anno vecchio fa il giro di boa e sprofonda negli abissi del tempo per mai più tornare, e l’anno nuovo è pronto a disporsi prua al vento e assaggiare le onde, le cose si ricoprono di un velo d’ombra e penso alle persone che mi sono vicine, a quelle che non ci sono più, ai gesti sbagliati, alle azioni inconsulte, ai guai ai quali vorrei rimediare.

            Un anno se ne va, un altro capitolo del libro della vita è terminato, il bicchiere si svuota, la sigaretta esala l’ultimo respiro abbandonata nel posacenere da una mano indifferente al suo destino, e un nuovo calendario sul muro, ma mentre sostituivo il vecchio, che angosciante era il vuoto lasciato sulla parete. E mi stringe la gola un nodo che non posso sciogliere.

            Meglio berci su.

            Buon 2016!

domenica 27 dicembre 2015

Ode notturna


Ora echi rintoccano nella notte
Ora tutto finito
Il cerchio spezzato
L'inganno svelato
Spazzato via
Nella polvere della strada

Luna
Pallida riflette
Onde del mare
Cercatrice d'oro
Al termine del viaggio
Sonno mutilo di sogni
Come parole che non ho detto
Come lacrime che non ho pianto

Ora venga la notte
Coltre di velluto informe
A ricoprire il corpo inerme
Nudo nel pallore
Di fiamma che brucia senza ardore
Pronto a scivolare da basso
Nel tripudio dei vermi


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sabato 26 dicembre 2015

Del tempo e di altri miraggi


 
"Il tempo non esiste, è soltanto una dimensione dell'anima" (Sant'Agostino)

Perdonatemi, ma dovevo ancora scrivere della percezione del tempo in linea retta che esiste nella nostra dimensione terrena. Perdonatemi, ancora una volta, se sconfino in argomenti metafisici, ma sentivo la necessità di farlo.

L’apparente continuità del tempo e del movimento sono un’illusione, dice Oliver Sacks. Forse la nostra esperienza visiva consiste in una serie di istanti senza tempo, frammenti saldati l’uno all’altro da qualche superiore meccanismo cerebrale.

Nella nostra attuale dimensione, nel nostro guscio di creature viventi in questo bislacco, straordinario universo, siamo in grado di cogliere solo questa percezione del tempo: indietro il passato, in mezzo il presente, avanti il futuro. Il tempo procede in sequenza lineare, non torna indietro, ma va sempre avanti. Questo perché la nostra breve vita ci consente di coglierne soltanto un frammento, di durata corrispondente a quanto ci è dato vivere, mentre solo nella vita intermedia, l’esperienza di bar – do (letteralmente dal sanscrito, isola in mezzo), tutto accade nello stesso istante, come se osservassimo miliardi di miliardi di monitor che proiettano altrettanti miliardi di miliardi di eventi nello stesso momento, e finalmente possiamo percepire la circolarità del tempo.

E, così come si teorizza l’esistenza dello spazio infinito, rappresentandolo non in una dimensione lineare, ma circolare, che non ha, per definizione, né punto di inizio né punto di fine, allo stesso modo, il cerchio del tempo annulla il passato e il futuro perché inconcepibili e senza alcun significato. Il tempo non ha inizio e non ha fine, è come un fiume congelato nell’eterno presente.

E quel presente si chiama eternità.

Dialogo sulla felicità


 

-          Buongiorno. –

 

-          Buongiorno! Come posso esserle utile? –

 

-          Vorrei ventuno grammi di felicità –

 

-          Allora è nel posto giusto. –

 

Il negoziante sparisce alcuni istanti sotto il banco di vendita e quando riemerge vi depone un piccolo cartoccio.

 

-          Eccola, fanno vent’anni di dolore. Gliela incarto? –

 

-          Ehm… un po' caro, pensavo a qualcosa di meno dispendioso. –

 

Gli occhi del cliente spaziano angosciati dall’uno all’altro articolo esposto nel minuscolo negozio, finchè si soffermano su una piccola scatola dal colore indecifrabile.

 

-          Questa è un’offerta speciale – previene la sua domanda il venditore. – Si tratta di un mélange irresistibile di mediocrità, inconsistenza e ipocrisia. Una novità assoluta. Pensi, l’ho preparata io stesso, con le mie mani. -

 

-          E quanto viene? –

 

Il venditore sospira. – Come le dicevo, si tratta di un prodotto in offerta, ho iniziato proprio oggi la promozione… -

 

Il cliente sgrana gli occhi, pronto a incassare il colpo.

 

-          Per questo bastano due anni d’angoscia. E’ quasi gratis… -

 

Il cliente si rigira incerto il pacchettino fra le mani.

 

-          Ma no, ma no. Prendo i ventuno grammi –

 

-          Ottima scelta! – esclama il venditore – Vedrà che non se ne pentirà. Del resto mai nessuno è venuto a lamentarsi – aggiunge sottovoce guardandosi la punta delle scarpe. – Anzi, le faccio uno sconto, me ne dà diciannove e la felicità è tutta sua. –

 

-          Ecco qui un pezzo da venti –

 

-          Ed ecco il suo resto –

 

-          Buongiorno –

 

-          Buongiorno e… buona vita –

 

 

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sabato 19 dicembre 2015

Piazzale Peppino Impastato


 

Mi permetto di accostare alla fulgida figura di Alekos Panagulis, il guerriero greco della libertà, un personaggio meno noto, una figura nostrana. Un eroe del quotidiano, uno che non abbassava la testa, che non aveva paura di dire quello che pensava.

Peppino Impastato.

Ho visto i Cento passi con i miei figli, saltando le scene più crude, quelle meno adatte ai loro occhi e che non avrebbero compreso. Ma, con mia profonda sorpresa, hanno inteso fino in fondo il profondo senso d’ingiustizia che permeava il flusso delle immagini. A un certo punto, mi hanno chiesto: “Papà, perché i buoni non arrestano i cattivi?”. Non ho saputo rispondere. Più tardi ho abbozzato un: “Forse perché i cattivi erano mescolati ai buoni e non riuscivano a riconoscerli”. Da che mondo è mondo, è stato sempre difficile separare il grano dal loglio. Allora mi hanno domandato: “Ma è una storia vera?”. E qui ho capitolato.

Purtroppo si, ho detto, è una storia vera fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultima lacrima.

Mi domando come è potuta accadere questa favola di sangue in un Paese la cui legge fondamentale, all’articolo 21, recita “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ma io sono un ingenuo, sono un idealista fuori dal mondo, sono soltanto uno sciocco su una nuvola. Però mi piacerebbe credere che un Paese con una legge così bella e limpida difende i suoi figli contro chi vuole azzittirli, farli diventare sordi, ciechi, muti.

Il mio destino invece è precipitare dalla nuvola degli sciocchi e schiantarmi sulla dura realtà.

La verità è che è sbagliato l’articolo 1 della Costituzione, anzi, è vero fino a un certo punto: “L’Italia è una repubblica democratica fondata…”.  Il periodo dovrebbe finire cosi: “…sulla morte”. Morte in catena di montaggio, morte industriale, morte a go go. E’ tutta qui la differenza, la morte sta al centro, non la vita, il prodotto finale è la morte, la morte fa crescere il PIL.

Quanta gente è saltata in aria in stragi senza nome e senza un perché? Quanta gente è svanita in incubi assurdi senza essere mai più ritrovata, come fosse stata inghiottita dalla terra?

Non siamo d’accordo con le sue idee? Piantiamogli una bella pallottola in corpo, problema risolto. E’ una cura eccellente contro la malattia del libero pensiero.

E mi domandavo: da allora cosa è cambiato? Cosa è rimasto di lui, cos’è rimasto di Peppino?

La risposta ce l’avevo sotto gli occhi. La vedevo tutti i giorni per andare a lavorare.

La risposta è una bella lapide in mezzo a una via.

Piazzale Peppino Impastato.

 

Peppino, Peppino, Impastato di terra, sangue e dolore.

domenica 13 dicembre 2015

Il disco


 

O marciano encontrou-me na rua e teve mèdo de minha impossibilidade humana. Como pode existir, pensou consigo, um ser que no existir poe tamanha anulacao de existència?

Il marziano mi ha incontrato per strada e si è spaventato della mia assurdità di umano. Come può esistere, ha pensato fra sé, un essere che nell’esistere ripone un così grande annullamento dell’esistenza?

(Science fiction, Carlos Drummond de Andrade)

 

 

 

Il disco si posò al centro della radura. Lucida sfericità di un metallo puro, primordiale. Incuriosito, buttai a terra la bici e mi avvicinai. Non avevo paura, non provavo nulla, non sentivo niente di niente. Ero soltanto incuriosito. Punto.

Dalla strana macchina veniva un brusio. Non era un rumore solo, era come una sovrapposizione di tanti rumori della medesima frequenza. Come un ronzio d’alveare.

Mi avvicinai fino al punto di scorgere i particolari della strana apparizione. Nascosto dietro un cespuglio, mi accorsi che la superficie non era affatto levigata come mi era sembrato in un primo momento, ma costellata di segni strani e arcani come geroglifici dell’antico Egitto.

Il disco smise di ronzare e s’innalzò nell’aria quieta della sera un dispositivo simile a un periscopio, che con un mesto cigolare prese a scrutare la campagna tutt’intorno; finalmente, si ritrasse e si aprì una botola su una torretta che sovrastava l’apparecchio, simile a quella dei sommergibili.

Ne venne fuori un omino buffo e curioso, vestito di verde e con un cappello a punta sulla testa. Lo strano essere saltò giù dal disco con una grazia e un’agilità inaspettate.

Uscii dal cespuglio e mi avvicinai. Il timore, se mai ne avevo avuto, era scomparso. Lo stravagante personaggio mi vide e si avvicinò. Non sembrava affatto un essere che aveva attraversato le galassie, un’entità superiore proveniente da distanze spaventose. Il tipo al cui cospetto mi presentai, pareva più un folletto delle antiche leggende.

Sorrise – descrivo così una deformazione del suo volto che interpretai come tale – e si sprofondò in un inchino degno d’altri luoghi e altri tempi.

“Buonasera” dissi non sapendo cosa dire, rendendomi subito conto che era la parola più stupida e banale che potessi pronunciare. Ma sfido voi. Cos’avreste detto così, su due piedi, a un abitante di un altro mondo?

Il suo viso divenne serio, la deformazione svanì.

Scosse la testa e allungò una mano verso di me. Anch’io feci lo stesso. Toccai la punta di una delle sue dita - ne aveva ben sei - e avvertii una vibrazione, una sorta di scossa elettrica. A dire il vero, qualcosa provò anche lui, perché rabbrividimmo nello stesso istante. Allora il suo viso tornò ancora a deformarsi. E anche il mio.

“Buonasera” ripetei “E… benvenuto sulla Terra.”

“Liximini omyn gag aquìk.”

“?”

“Yvot krah kwolf djyab!”

Nessuno mi aveva parlato così prima d’allora. Non capivo se mi stesse rivolgendo un indirizzo di saluto oppure, come sospettavo dal tono della sua voce, un’invettiva o qualcosa di simile. Mi parve che una tempesta di emozioni contrapposte si stesse scatenando nel mio cervello e una sorta di distonia emotiva s’impadronì di me. Dinanzi a lui mi sentii difettoso, debole, inadeguato. E rimasi interdetto.

L’omino se ne accorse e alquanto spazientito, mi prese per mano e mi condusse sotto il disco.  

            L’apparecchio si reggeva su tre zampe telescopiche, la superficie inferiore dello scafo aveva un colore rivoltante, come il nauseabondo addome di un insetto a zampe all’aria e mi vennero conati di vomito. L’extraterrestre sfiorò in un punto preciso la convessità del disco e, come per magia, un portello che sembrava non esserci si aprì e ne venne fuori un groviglio di tubi, giunzioni, cavi e valvole. E anche del fumo nero. L’omino estrasse da una tasca della sua tuta verde d’Irlanda una specie di cacciavite a tre punte e prese ad armeggiare in mezzo al ciarpame.

             Ne estrasse, dopo qualche tempo, un cilindro argenteo e me lo mostrò. Lo presi, ma mi scottai subito le dita, la punta dell’oggetto metallico era bruciacchiata. Me lo rigirai più volte fra le mani e lo esaminai a fondo. Sembrava qualcosa di molto familiare.

            “Tutto qua?” dissi “Ti si è bruciata una candela?”

            L’omino sorrise, al modo suo.

Non v’era altro tempo da perdere. Inforcai la bicicletta e mi misi a pestare sui pedali verso il paese più vicino.

La notte giunse improvvisa, tetra, sepolcrale. Quasi non vedevo la strada del ritorno. Ma l’omino in verde era ancora là ad attendermi. Impaziente, misurava a grandi passi la circonferenza del suo disco e, a giudicare dal solco nell’erba intorno all’apparecchio, doveva averla calcolata diverse volte nell’attesa del mio ritorno. Ma avevo quello di cui aveva bisogno.

Prese la candela nuova con furia, quasi me la strappò dalle mani e se l’avvicinò agli occhi di un verde sconosciuto a questa terra.

“B… o… s… c…” prese a sillabare.

“E’ anche il nome di un pittore” aggiunsi e mimai nel vuoto la forma di un quadro, ma mi guardò senza comprendere e con una scrollata di spalle avvitò la candela nuova al posto di quella bruciata. Si allontanò di qualche passo e si mise a osservare da lontano il congegno, come si ammira un capolavoro. Lo raggiunsi anch’io e guardai.

Meraviglia delle meraviglie, ora il marchingegno che prima era un groviglio inestricabile di tubature, cavi, valvole e altre diavolerie incomprensibili era una macchina ordinata e perfetta. Nelle sue linee traspariva l’armonia delle alte intelligenze che l’avevano progettata e costruita.

Dal caos al cosmòs con un giro di cacciavite.

Era il momento di ripartire. Io, impacciato, al modo terrestre, lui, sicuro, al modo extraterrestre, in qualche modo ci stringemmo la mano. E risentimmo entrambi quel breve fremito, quella sorta di energia che ci aveva pervaso le membra al principio del nostro incontro.

E non credetti ai miei occhi. Quello strano essere arse di luce. Trasfigurò in una fiamma scarlatta che ardeva sopra la sua testa e illuminava l’oscurità circostante. Stava ridendo, rideva e rideva, al modo suo, e non si fermava più.

Saltò agilmente a bordo e richiuse la torretta da sommergibile. Da qualche parte, all’interno del disco, l’omino dovette aver azionato qualche comando e infatti l’apparecchio si animò e prese a vibrare, dalle sue viscere di metallo si risvegliò l’alveare e ronzando, si apprestò a librare nel cielo.

Lo guardai con ammirazione.

Il disco si sollevò sul bosco, il suo volo era salutato dal fruscio del vento fra gli alberi. Sfiorò le cime delle colline, le superò e si allontanò in un guizzo di luce nelle tenebre.

Io non so parlare.

Non ho mai le parole giuste al momento giusto. Quelle appropriate mi vengono sempre nei momenti sbagliati, quando è troppo tardi.

“Aspetta amico” avrei voluto dirgli “Aspetta. Non ti ho parlato della profondità della mia solitudine, della vastità dei miei silenzi, dell’immensità della mia disperazione.”

Allargai le braccia alla notte, allo stormire del vento tra le foglie, ai raggi di luna che danzavano sulle ruote della mia bicicletta, facendole sembrare d’argento vivo.

“E tu cosa provi? Non ti senti mai solo, rinchiuso nel tuo disco di metallo a solcare cieli neri ricamati di stelle, non provi mai questo vuoto nel cuore? Non hai mai paura del buio, del nulla, di te stesso?”

Ma era troppo tardi. Stavo parlando agli usignoli, alle colline, alle stelle.

E le stelle non risposero.

“Addio, amico mio.”

Nella valle inondata dalla luce della luna ero rimasto solo. Le allodole gemevano, le capinere singhiozzavano, io tacevo. Mai più avrei rivisto quell’essere di luce.

Mi rifiutai di credere per molto tempo a quell’apparizione. A quarant’anni e qualche acciacco sono ormai ben poche le cose in cui credo. Ma l’incontro con quella strana creatura aveva prodotto un singolare cambiamento in me.

Fino ad allora mi ero considerato una persona piena di sensibilità. Ma essere sensibili non è un buon affare, è come andare in giro per il mondo senza la pelle addosso. Ogni cosa fa male, ogni cosa ferisce e penetra a fondo. Il mio animo era permeato da un’ordinaria idiozia e dabbenaggine, ero stato una sorta di dostoevskjiano idiota.

Fino ad allora.

Non mi ero reso conto della mia impossibilità umana, del mio non esistere, del mio non voler esistere. Ero come un mai nato, non sapevo nulla. Non sapevo vivere. Devo essere parso un personaggio molto singolare e perfino paradossale all’amico venuto dallo spazio. Un essere vivente che non sa vivere.

Fino ad allora.

Era giunto il tempo di riprendere saldamente in pugno le redini della mia vita. Ero stato in panchina per tutta la partita. Mi sentii come la riserva che diventa titolare. Ed ero finalmente pronto a giocare.

E questa è la storia che volevo raccontare. O è tutto vero, o è tutto falso. Oppure, in parte vero e in parte no.

E questa, parola mia, è la verità.

 

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sabato 5 dicembre 2015

...


 

Farò domande al cielo, alla terra, alle nuvole

E tu mi risponderai

Con le gocce di pioggia e i fiocchi di neve

E il sussurro del vento tra le foglie

Sarà la tua voce

 

Mio padre non parlava molto, agiva. E io imparavo, seguendo il suo esempio. Ho imparato più dai suoi silenzi che dalle sue parole.

E anche quando se n’è andato, lo ha fatto in silenzio.

Io invece non potevo tacere. Non lo so fare.

Dovevo scrivere e ho scritto.

Ho cercato di essere tuo figlio. Ho fatto del mio meglio. Spero di non averti deluso. Tu non l’hai fatto mai. A modo tuo, ci sei sempre stato, anche se a volte non lo sapevo. Tutto quello che sono, lo devo a te. Ma ora devo fare a meno di te, ora devo lasciarti andare.

Ora devo lasciarti andare.

E’ su questa frase che mi pianto. Ogni volta. IO NON VOGLIO LASCIARTI ANDARE.

A chi sto scrivendo? A me stesso, credo. Una lettera aperta a quello che sarò fra una manciata d’anni veloci come frecce. I miei figli mi hanno chiesto se stavo piangendo. Ho risposto che mi è venuto il raffreddore.

Un raffreddore che non mi passerà mai.

Sono stato al suo funerale. Mi sono fatto il viaggio d’andata piangendo, e piangendo il viaggio di ritorno. Gli automobilisti pensavano: chi è quel folle che ci supera a centosessantachilometriloranonunodimeno con le lacrime agli occhi per l’ebbrezza della velocità?

Un’inserviente all’autogrill mi ha guardato, per un attimo interdetta, poi ha abbozzato un sorriso. Deve aver capito. Ne vede tanta di gente come me, ogni giorno, inseguire un dolore lungo l’autostrada.

Gli autogrill sono ottimi punti di osservazione sulla vita.

domenica 22 novembre 2015

Dio ama Allah


 

In Africa è stato eletto presidente un cristiano con il 70% di voti dei musulmani, sulle fiancate degli autobus di linea sta scritto: “God loves Allah” (Dio ama Allah) e si sparge a macchia d’olio il fenomeno “cris-mus”, cioè di coloro che frequentano, in ugual misura, sia le chiese che le moschee e praticano la religione cattolica e quella islamica.

Accade in Sierra Leone, che oggi pare la patria della tolleranza religiosa e lo spauracchio di ogni fondamentalismo, un laboratorio etnico – sociale, un modello valido da esportare in tutto il mondo, a cominciare dalla vicina Nigeria, devastata dall’odio religioso e dall’intolleranza di Boko Haram (che letteralmente significa “l’educazione occidentale è peccato”), altrimenti noto come Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e la Jihad (in arabo: جماعة اهل السنة للدعوة والجهاد).

Un barlume di speranza in un mondo di tenebre?

martedì 17 novembre 2015

17 novembre


 

Freddi istanti, contrazioni instabili, persi nella nebbia del tempo. Ascolto il battito rallentato del tuo cuore. Osservo corpi, avanzi, scorie. In un giorno di vento, una storia uguale alle altre.

Attraverso finestre rigate di pioggia, vedo altri corpi ottusi, sento solo labbra gelide. Sento bruciare come roghi di notte i nostri gemiti sacrificati sulla pira delle tentazioni.

 

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sabato 14 novembre 2015

Bianco


 

Lei aprì gli occhi e si svegliò. Non fu proprio un risveglio, fu più un perpetuarsi del sonno alla luce del mattino. Una sorta di dormiveglia silente ai margini di un sogno. Lui se n’era andato molto prima, durante la notte, abbandonandola come un ferito su un’autostrada qualunque.

La stanza era molto silenziosa. Si levò completamente nuda, ordinò un caffè alla concierge e s’infilò in bagno. Era bellissima. I suoi lunghi capelli neri le ricadevano ondeggianti sulle spalle, come un fiume d’inchiostro, il suo volto era pulito, nonostante la nottata di veglia forzata. Raccattò i vestiti sparsi sul pavimento di moquette, non uno era finito sulla poltrona o sulla sedia accanto al letto, tanta era stata la frenesia del denudarsi. A ogni modo ritrovò tutto, o quasi, si vestì, aprì la porta e la richiuse dietro sé. Mi accorsi che uno dei suoi orecchini era rotolato sotto il letto.

Rimasi solo, non so per quanto. La luce del mattino dipingeva striature grigiastre sulla mia pelle, cominciai a provare freddo e a sentirmi terribilmente solo.

Poco dopo sentii la chiave infilarsi nella toppa e la porta si aprì. Entrò una donna corpulenta, dal seno enorme. Mi accorsi che non si era depilata le gambe. Alcuni peli si affacciavano dal bordo dei gambaletti che faceva capolino sotto la sua gonna stretta. Ebbi un moto di ribrezzo. Riassettò la stanza e aspirò la polvere, poi si trattenne a lungo in bagno, imprecando e ansimando. Forse era molto sporco e vi era disordine. A volte accadeva. Finalmente uscì, si asciugò la fronte e prese a occuparsi di me. Mi sprimacciò ben bene, mi lisciò più volte la pelle e mi distese sul letto. Poi se ne andò.

Io rimasi ancora solo. Tutto quello che potevo fare era osservare le mosche che volteggiavano sul soffitto. Non so dire quanto tempo trascorse, l’orologio alla parete era fermo da un pezzo e a nessuno era venuto in mente di cambiare la batteria. La luce nella stanza ebbe un fremito, vibrò come se stesse per estinguersi, poi mutò in un caldo arancione. Giudicai dall’intensità del colore che fosse giunto il tramonto. Un ardente cremisi si spandeva sulle candide balze del letto, sulla mia pelle chiara e sulle pareti bianche, abbacinanti come la neve. Provai una piacevole sensazione di calore e mi sentii bene.

Ma non feci in tempo a rallegrarmene che la porta si aprì di nuovo ed entrò un signore dal volto stanco. Si tolse il cappello, depose le scarpe allineandole rigorosamente ai piedi del letto, si svestì e si coricò. Sentivo l’aroma dolciastro del suo deodorante da quattro soldi, che non attenuava l’odore pungente delle sue ascelle né il puzzo dei piedi. Per giunta, la sua barba ispida e riottosa grattava la bianca tela della mia pelle. Non ne potevo più.

Si addormentò di botto. Doveva essere un viandante molto stanco, come se il suo viaggio fosse iniziato ai confini dell’eternità, ma quel torpore non lo catturò a lungo. Il sonno delle persone sfinite non è duraturo. Infatti, si svegliò e prese a voltare la testa di qua e di là cercando una posizione comoda. E ogni volta che girava il capo, la sua barba irsuta mi feriva. Ma invano si voltava e si rivoltava, il sonno non voleva riprenderselo. Evidentemente anche Morfeo ne aveva abbastanza di quel tizio. Per mia fortuna, molto prima dell’alba, si levò e si mise al tavolino a scrivere. Scriveva a testa bassa, con la giacca sulle spalle, accendendo una sigaretta dopo l’altra.

Scriveva, scriveva e scriveva, gettava il foglio pieno di una scrittura fitta e irregolare quasi con rabbia quando l’aveva terminato e subito ne strappava un altro dal blocco di carta da lettere a disposizione degli ospiti. La luce dell’alba illuminò una distesa di fogli, egli stesso ne fu sorpreso, me ne accorsi da come rabbrividì. Credo che non provasse il freddo dell’aurora, ma un gelo più intenso e micidiale, un freddo che nessuno poteva estirpare.

Io lo conosco quel freddo.

Egli si rivestì in fretta, raccolse i fogli, l’infilò nella valigia e uscì. Ma non tutti i fogli aveva preso, uno era rimasto sotto il letto, proprio accanto all’orecchino.

Fui di nuovo solo, ma non ne fui afflitto. Gustai la pace e il silenzio del mattino, non mi dispiaceva star da solo. A volte passavo giorni interi completamente solo, a volte i giorni diventavano settimane, senza la presenza di un essere vivente nella stanza. Ma a questo ero abituato.

Di solito in quei tempi dilatati dal silenzio riflettevo sul mio passato. Un tempo ero puro, candido come la neve. Ora no, dopo tutti questi anni, il mio colore somiglia più a quello della neve sporca.

Finalmente la porta si aprì. Entrò ancora l’inserviente che invase la stanza con il suo solito rituale, segno che doveva arrivare qualcuno.

Con mia somma sorpresa, scoprii che era il viaggiatore insonne del giorno prima. Lo riconobbi senza indugio, la stessa barba non rasata, gli stessi occhi divorati dalla stanchezza, la medesima pesantezza delle palpebre. Solo un’aria più tragica e disperata. Si buttò a sedere sul letto e si prese la testa fra le mani.

Perché sei tornato, cosa ancora ti trattiene qui?

Sensi di colpa inafferrabili come fantasmi? O un’altra occasione perduta?

Il tuo cuore palpita di una pesantezza che non riesci a decifrare. Dì la verità. Ti stai mangiando le mani; cosa non daresti per riavvolgere il nastro, per far scorrere all’indietro le lancette del tempo?

Hai ritrovato il foglio perduto, accanto ad esso hai scoperto anche l’orecchino, il suo orecchino. Gliel’avevi regalato tu, ricordi? Lo stringi fra le dita e una lacrima solca il tuo volto disperato. Lei è stata qui, prima di te, con qualcun altro. Senti il suo profumo ovunque, mescolato all’odore dell’altro. Il dolore è una voragine in cui sprofonda il tuo cuore, un buco nero che risucchia le stelle.

Non sei riuscito a strapparla dalle braccia dell’altro, non sei riuscito a salvarle la vita né tu a salvare la tua.

Ora apri la valigia e un riflesso metallico attira la mia attenzione. Appoggi l’oggetto sul cuscino e io rabbrividisco al contatto con il gelido acciaio.

E’ una pistola! Cosa accidenti vuoi fare?

Una detonazione per tutta risposta, l’odore acre della cordite si spande per la stanza e cadi riverso sul letto, abbandoni la tempia lacerata sul cuscino. Da un piccolo foro pulsa ritmico uno zampillo di sangue. Poi più nulla. Sei immobile, il tuo volto esangue ha il mio stesso colore. Anzi, aveva il mio stesso colore.

Perché io non sono più bianco come la neve vergine, io sono vermiglio, sporco di sangue. Destino crudele per un cuscino. Il sangue è difficile da smacchiare. Ora sicuramente mi butteranno via. Così, insieme a te, sono morto anch’io.

Scende la sera.

                Fuori il mondo si addormenta sotto una coltre di silenzio. Fuori il mondo ha cessato di esistere. La neve cade e lo ricopre di un candido, pulito e uniforme colore.

Bianco.

 

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