Farò domande al cielo, alla terra, alle
nuvole
E tu mi risponderai
Con le gocce di
pioggia e i fiocchi di neve
E il sussurro del
vento tra le foglie
Sarà la tua voce
Mio padre non parlava molto, agiva. E io
imparavo, seguendo il suo esempio. Ho imparato più dai suoi silenzi che dalle
sue parole.
E anche quando se n’è andato, lo ha
fatto in silenzio.
Io invece non potevo tacere. Non lo so
fare.
Dovevo scrivere e ho scritto.
Ho cercato di essere tuo figlio. Ho fatto
del mio meglio. Spero di non averti deluso. Tu non l’hai fatto mai. A modo tuo,
ci sei sempre stato, anche se a volte non lo sapevo. Tutto quello che sono, lo
devo a te. Ma ora devo fare a meno di te, ora devo lasciarti andare.
Ora
devo lasciarti andare.
E’ su questa frase che mi pianto. Ogni
volta. IO NON VOGLIO LASCIARTI ANDARE.
A chi sto scrivendo? A me stesso, credo.
Una lettera aperta a quello che sarò fra una manciata d’anni veloci come
frecce. I miei figli mi hanno chiesto se stavo piangendo. Ho risposto che mi è
venuto il raffreddore.
Un raffreddore che non mi passerà mai.
Sono stato al suo funerale. Mi sono
fatto il viaggio d’andata piangendo, e piangendo il viaggio di ritorno. Gli
automobilisti pensavano: chi è quel folle che ci supera a centosessantachilometriloranonunodimeno
con le lacrime agli occhi per l’ebbrezza della velocità?
Un’inserviente all’autogrill mi ha
guardato, per un attimo interdetta, poi ha abbozzato un sorriso. Deve aver
capito. Ne vede tanta di gente come me, ogni giorno, inseguire un dolore lungo
l’autostrada.
Gli autogrill sono ottimi punti di
osservazione sulla vita.
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