giovedì 30 gennaio 2014

Anticorpi


 
Lei non viene. Non conosce la strada per la porta del cuore. Lei non viene. Non possiede la chiave per la porta del cuore. Custodisco il sorriso dell’attesa, lo conservo, per fargliene dono, se dovesse arrivare.

Eravamo corpi paralleli, separati dalla luce e dalle ombre. Eravamo corpi che non si conoscevano, che restavano distanti e separati. Eravamo corpi opposti, in antitesi.

Anti – corpi.

Le braccia si allungavano, le mani si avvicinavano, cercando un contatto. Bruscamente si ritraevano, senza essersi sfiorate, quasi avessero avvertito un ribrezzo improvviso. Come se intuissero il freddo all’interno dei corpi, il gelo dentro i cuori. Eravamo morti.

Era spaventoso.

I corpi sono ora obliqui, le teste vicine, ma gli occhi non si vedono. La sua è una bellezza simmetrica. E’ come osservare il mio corpo riflesso allo specchio. Le teste si voltano, lentamente, non nello stesso istante. Prima l’una, dopo l’altra. E la bocca va a raggiungere l’altra bocca, ma gli occhi no. Gli uni non si specchiano negli altri. Restano chiusi, serrati, sotto una cecità imposta dall’orgoglio e dall’imbarazzo. Sento il respiro vicino al mio, uguale al mio. Regolare, rassicurante. Il fiato. Tiepido, tenue, umido. Denti mordono labbra in attesa. Labbra si ritirano dai volti, come maree prima di uno tsunami. Scoprono tesori nascosti, perle incastonate in sorrisi inevitabili. Profezie di lingue vagano, tracciando contorni conosciuti.

Copro il suo corpo con il mio, come una coperta pesante per l’inverno, come un sudario. Come un’ombra. Il suo corpo confina col mio. Le nostre membra intrecciate sono radici che affondano nella terra nuda e suggono linfa vitale per i nostri corpi liquidi. Siamo reclusi in un cono di luce, prigionieri di noi stessi. Per sempre. Rinchiusi, intrappolati tra l’ombra e l’ora, segregati, esiliati in un luogo inaccessibile, tra il letto e il destino, che esiste solo nei sogni.

O nei peggiori incubi. 

Mi guarda, non mi vede. Avverto i suoi occhi addosso, li sento trapassarmi come stiletti acuminati. Senza fermarsi, il suo sguardo passa oltre e va a sondare la nudità e il vuoto della stanza. Desolazione e deserto. Odore della notte. E’ questo il momento, l’attimo, il secondo, quando la tenebra sa di volgere al termine, di avere oltrepassato il suo equatore. Il cuore della notte e il cuore del giorno.

Il suo punto di non ritorno.

In quell’istante ho capito che avevo cominciato ad amarla. In quell’istante ho capito che avevo cominciato a morire.

Il mio punto di non ritorno.

Distoglie lo sguardo. Non sono più sotto i riflettori. Chiude gli occhi. Apre le gambe. Sono fermo sulla riva del mare. Il sesso percorre una strada conosciuta. Dentro lei. Fuori piove. Il rumore della notte giunge a noi dal filtro delle mura, il buio è fuori, oltre le finestre, cieche e sbarrate.

Il buio è dentro di noi.

Ricordiamo danze antiche e movenze dimenticate. Ritmi che vengono da altre epoche e da altre notti remote. Come questa che finisce. Come vita che volge al termine e si inabissa nel lago spento della morte.

Piange. Sommessamente, come un canto. Piange. Di un dolore semplice, smarrito e ritrovato. Piange. A occhi chiusi, di una felicità che fa male, perché le è ignota. Piange, perché piango io.

E’ ancora buio là fuori, oltre il baluardo delle mura, oltre il confine delle nostre ombre. Piove a dirotto. Notte e pioggia cadono insieme, rigurgitate dalle nubi, inghiottite dalla terra avida, assetata. Le nubi cantano con la loro voce greve. Tramonta la luna, figlia della notte. Fuori piove.
Nella nostra stanza risplende il sole.


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venerdì 24 gennaio 2014

Il custode


 

Io di lavoro faccio il custode e fare il custode vuol dire stare sveglio mentre dormite, perché io veglio su di voi. Il capo mi ha assegnato questo incarico e io lo svolgo con molta diligenza. Mi piace entrare nelle vostre case e sbirciare nelle camere da letto. Siete tutti uguali nel sonno, siete così strani mentre dormite. Sembrate morti.

Ma non è così. Le vostre vite sono preziose e io le difenderò sempre, vi proteggerò, a ogni costo.

Dicevo che vi guardo mentre dormite.

I bambini hanno il sonno agitato, rivivono la giornata frenetica appena trascorsa, rielaborano gli avvenimenti del giorno e i loro cervelli sono ancora in piena attività, quando il sonno li prende. E così sognano molto, ma non ricordano quasi mai i sogni che fanno. Vederli dormire mi riempie di tenerezza, essi sono l’immagine del calore e della purezza. Di tanto in tanto parlottano nel sonno e mi diverte ascoltare ciò che dicono. A volte si svegliano piangendo. Si sono smarriti nelle desolate steppe degli incubi. Io li prendo tra le braccia, sussurro loro vecchie cantilene e, cullandoli dolcemente, li riconduco alle fertili praterie dei sogni.

I grandi sono più tranquilli, dormono beati tra le braccia di Morfeo, qualcuno russa, qualcun altro si lamenta nel sonno. Al mattino si svegliano nella stessa posizione in cui si sono addormentati la sera prima, sopraffatti dalla stanchezza. Poveretti, sono sfiniti, esausti, sfiancati dalla giornata di preoccupazioni e duro lavoro appena terminata. Non riescono a godersi la meritata calma del rifugio domestico, non fanno neanche in tempo a poggiare il viso sul cuscino, che crollano addormentati. Ma il sonno li nutre e li ristora. A volte sento dei rumori, qualcuno ancora armeggia di sotto a tarda ora, non riesce a dormire, ma a questo penso io e crolla addormentato sul tavolo della cucina. E io vigilo, affinchè nulla disturbi il vostro riposo.

I vecchi mi fanno una tristezza che non so descrivere. Forse perché sono giovane - e, in verità sono sempre stato giovane - e non conosco le erosioni degli anni, il deperimento, le ferite, che lo scorrere del tempo infligge ai vostri corpi. I vecchi si addormentano, dopo una giornata inutile, durante la quale si sono trascinati stancamente in cerca di uno scopo, in una notte ancora più inutile, sterile di sonno. Faticano ad addormentarsi, a volte non dormono affatto. Sono come isole circondate dall’insonnia e dalla morte. I loro sogni hanno il sapore amaro del rimpianto e dell’assenza. Ritrovano le persone care, la vita che è andata, ciò ch’è stato, un giorno dopo l’altro. Si rivedono giovani, inseguire le speranze, le gioie e i desideri nell’ingenuità dei loro anni perduti.

Ma solo per poco.

Sono brevi istanti, anche se nei sogni sembrano eterni. E questa è l’unica consolazione che posso dar loro, perchè tutto passa e non torna più.

Anche per me.

E si, vederli dormire è proprio una fitta al cuore. I loro corpi intorpiditi e doloranti sembrano rami assiderati nel gelo di un sonno così simile alla morte.

Sta per finire la notte e anche il mio turno. Indugio ancora un po’ presso i vostri letti. Volgo un rapido sguardo intorno, controllando che tutto sia a posto, vi faccio una lieve carezza e me ne vado.

Mi piace prendermi cura di voi, mi piace consolarvi quando siete afflitti e gioire insieme a voi, quando siete felici, delle vostre beatitudini, così piccole e transitorie.

Vi accontentate di poco.

Basta davvero poco per farvi sorridere. Siete belli quando guardate il mondo con occhi pieni di meraviglia e di stupore. E mi stupisco anch’io mentre vi guardo, io che non mi meraviglio più di niente.

In fondo, pensavo, io sono una specie di guardia del corpo. Vi proteggo dai pericoli e sto attento che non vi facciate male. Se cadete, sono io quello che attutisce il colpo, sono io quello che vi aiuta a tirarvi su e fa in modo che il dolore non sia poi così insopportabile. Non potrei mai smettere di fare questo lavoro, mi piace troppo. Ve l’ho già detto: io adoro prendermi cura di voi e poi, se non avessi voi, che cosa farei?

Io non so fare altro.

Solo questo: prendermi cura di voi. Io ho bisogno di voi, forse più di quanto voi abbiate bisogno di me. Io vi amo, vi amo tutti allo stesso modo, senza distinzioni.

Ma c’è una persona su cui veglio, in particolare, è, come dire, una sorvegliata speciale. Dorme tutta rannicchiata, come una bambina, anche se bambina non lo è più da tempo. Lei è speciale, ha bisogno di tutte le mie attenzioni, più degli altri. Veglio sul suo respiro, a volte mi scordo perfino di respirare, per quanto sono concentrato. Scruto con attenzione il movimento dei suoi occhi nel sonno REM e cerco di interpretare i sogni che fa.

Se fa brutti sogni, con una mano li scaccio via, poi alito sul suo viso ed evoco galassie di sogni meravigliosi, costellazioni e nebulose e interi sistemi affollati di pianeti dai colori fantastici e prati verdi ricoperti di fiori strani e bellissimi, abbacinanti pianure desertiche e cieli azzurri, così azzurri che persino in sogno fanno male gli occhi a guardarli.

Sono i miei doni per lei.

Starei ore e ore a guardarla dormire, è così bella, ma non posso indugiare troppo, non devo trascurare le altre persone che mi sono state affidate. Adoro guardarla dormire, dicevo, anche se negli ultimi tempi ha il sonno un po’ agitato. Forse non se la passa tanto bene nella vita diurna, però di questo non sono sicuro, perché è compito di qualcun altro prendersi cura di lei durante il giorno. E io non vedo l’ora che scenda la notte, perché quando dorme, finalmente, è tutta per me.

Come dicevo, solo la notte posso stare con lei. Se si scopre, le rimbocco le coperte, se si agita nel sonno, la tranquillizzo. Ma lei non si avvede di me, in fondo, non sa neppure che esisto. E se pure si accorgesse della mia presenza, riuscirebbe a vedermi davvero, a credere in me, ad accettarmi per quello che sono, senza mettere in dubbio la mia esistenza, senza fuggire via, urlando di paura?

Ma a me poco importa. Mi accontento di vegliare su di lei e proteggerla. Perché solo questo so fare. Perché questo mi piace fare.

Solo questo.

Ma se, finalmente, si accorgesse di me, se mentre scruta il tramonto, fortuitamente riconoscesse la mia figura tra le ombre della sera, se mi degnasse anche di un solo, casuale, misero sguardo, non ci metterei molto ad abbandonare il mio lavoro per sempre. Non esiterei un momento a gettare la spada, non ci penserei due volte a staccarmi le ali.

E deporrei ai suoi piedi il mio cuore di angelo.

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sabato 4 gennaio 2014

Valzer con Bashir


 

Autocitarsi è un’operazione piuttosto inelegante, che di regola andrebbe evitata, dice Carofiglio in La manomissione delle parole. Ho deciso di fare uno strappo alla regola – non il primo, purtroppo, ma devo farmi un po’ di pubblicità -, perché di recente una lettrice ha paragonato l’impatto delle prime pagine di Cenere (L’impero del vento, SBC Edizioni 2013) a Valzer con Bashir, un film animato israeliano, dal quale, di recente, è stato tratto anche un graphic novel, che è un modo nuovo di dire una cosa vecchia, cioè, il classico volume a fumetti. Sono lusingato dal paragone che, tuttavia, ritengo a ragione di non meritare. Credo che lei si riferisse alla scena del soldato israeliano che danza con i proiettili sul lungomare di Beirut e che dà il titolo al film, perché la danza avviene proprio sotto la gigantografia di Bashir Gemayel, appena eletto Presidente del Libano a trentacinque anni e già ucciso, nella sequenza filmica che ci scaraventa nelle guerre mediorientali degli anni ottanta.

La scena è molto bella, è pura poesia di morte. Come poesia di morte sono le sequenze finali. I fumettisti (chiamarli così è riduttivo) però si sono dovuti arrendere, l’orrore è troppo grande per essere disegnato, così, hanno preferito sostituire i fumetti con le foto e man mano che i disegni sfumano, il loro posto è preso dalla fotografia, cruda, desaturata, banale, quanto banale può essere a volte il male, mai la morte, perché la morte di madri, bambini inermi, vecchi senza speranza, non è mai banale. La fine del film (e anche del libro) è un crudo reportage fotografico. Non si sa chi sia stato il primo a documentare l’orrore, ma le immagini fecero il giro del mondo. Occhi spalancati sul nulla, bocche aperte come per stupore, cadaveri gonfi per il naturale decorso tanatologico. Non avevano alcuna colpa, se non quella di essere palestinesi e di trovarsi nel posto sbagliato, in campi profughi senza vie d’uscita, circondati da ogni lato dai carri armati di Tsahal, l’esercito israeliano. Si tratta di Sabra e Chatila, un massacro, forse il massacro dei massacri (signori, stiamo parlando di tremila e cinquecento morti), quello che ci ha gettato a forza dentro la storia moderna e che gli israeliani regalarono alle Falangi Libanesi, le milizie cristiane, per vendicare il loro leader, Bashir Gemayel. Il massacro nel quale ognuno di noi perse l’innocenza. Eravamo tutti colpevoli.

Quella storia mi sconvolse da piccolo e ritrovarla in questo film mi ha scosso di nuovo.

Il film è molto bello, è devastante sul piano emotivo e ho trovato singolare il fatto che la storia sia stata raccontata da un israeliano, Ari Folman, che a quel tempo era soldato e aveva vissuto molto da vicino quegli eventi. Eventi che per moltissimi anni la sua memoria si era rifiutata di rievocare, sopraffatta dal dolore e così, per recuperare i ricordi, è dovuto andare in cerca dei commilitoni che, a loro volta però, li avevano smarriti, in tutto o in parte. Ma, in qualche modo la memoria, attraverso la coltre del dolore e dell’orrore è tornata a galla e si è tradotta in narrazione.

Tra il 16 e il 18 settembre del 1982, la milizia cristiana libanese entrò a Sabra e Chatila, due campi di rifugiati palestinesi alla periferia di Beirut. Il 14 settembre, il trentacinquenne Bashir Gemayel, appena eletto Presidente del Libano, era stato ucciso insieme ad altre ventisei persone da una bomba esplosa nel quartier generale delle Falangi Libanesi. La ritorsione non si fece attendere e, due giorni dopo, Sabra e Chatila assistettero all’ingresso della milizia libanese.” (La rimozione del trauma, prefazione a Valzer con Bashir di Paolo Interdonato).

Il resto è storia.