sabato 25 aprile 2015

La lupa


 

Avvertenze: testo esplicito, solo per maggiorenni.

 

                       Occhi d’oro, espressione intelligente e spietata.
                               Se lo sguardo di un lupo si è posato su di voi,
                               non lo dimenticherete mai più.

                               (Anne Mènatory, L’arte di essere lupi)

 

 

Stavolta per precauzione sono arrivato molto prima, ho scelto con cura il luogo, lontano da sguardi indiscreti, all’ombra. C’è anche un po’ di brezza, ne sono felice, ci rinfrescherà.

Ho voglia di vederla al chiarore del giorno, ho bisogno di capire se i suoi occhi alla luce del sole brillano come l’altra notte, nella penombra angusta dell’auto. Voglio prendermi cura di te, le avevo detto e i suoi occhi si erano illuminati.

Non ne posso più di aspettare, scendo e salgo dall’autovettura. Mi sistemo i capelli e la camicia per piacerle. Ho la salivazione azzerata, non ne posso più, ho voglia di vederla.

Colgo un guizzo azzurro con la coda dell’occhio. E’ la sua auto! I battiti del mio cuore hanno un’accelerazione inaudita. Scende fresca e pimpante, nonostante sia appena emersa dal fiume torrido del traffico e si getta fra le mie braccia. Sento che le sono mancato, ma se sapesse quanto è mancata a me! La stringo forte e la bacio. Che bella che è! Alla luce del sole lo è ancora di più.

La invito a entrare in macchina. Siamo all’ombra, è fresco e si sta bene. Ci sentiamo come amanti clandestini e forse, lo siamo.

Le accarezzo il viso e le tengo una mano, parliamo un po’. Il discorso è interrotto di frequente da lievi baci. Vorrei convincermi che è tutto normale, che è una donna come le altre, che non c’è niente di speciale. Ma allora, perché il cuore mi batte all’impazzata quando la vedo, perché penso a lei notte e giorno, perché mi è mancata in questo modo?

L’attraggo a me. La sua pelle è fresca e calda, al tempo stesso. La voglio. I nostri baci si fanno più profondi, i sospiri anche. Lei mi stringe, sento il suo corpo morbido e caldo vicino al mio, è legata a me e io a lei. Non la lascerei per niente al mondo. Non capisco più nulla, non so più dove sono, ho perso la cognizione del tempo. So solo che sto con lei.

Affondo i miei occhi nei suoi. Occhi d’oro di lupa ferita. Li sento penetrare in me e rabbrividisco. Sono come artigli, denti affilati che dilaniano la mia carne. Cuspidi del suo dolore. Lo sento forte, nelle viscere e nel cuore. La stringo forte fra le braccia e sento che trema.

Vorrebbe piangere.

Sussurro il suo nome fra i suoi capelli, sulla sua pelle, tante volte, adoro farlo, piace anche a lei. Mi sbottona la camicia e mi accarezza il torace, depone lunghi, umidi baci sulla mia pelle, dalla base del collo al petto. Mi sento sicuro, perché so di piacerle, almeno quanto lei piace a me. Vado in cerca della sua pelle, le accarezzo la schiena. Le piace e gioisce, mentre ci baciamo. L’armonia si fa più intensa. I suoi seni sono morbidi e pieni. I capezzoli, boccioli di rosa, teneri e delicati. Lei sospira nella mia bocca, non interrompiamo il bacio, non so più da quanto la sto baciando. Dio, che voglia ho di lei!

Vorrei prenderla adesso, alla luce del giorno, nel parcheggio deserto e desolato. Ma non si può, meglio non rischiare. Infatti, arriva un’automobile. La stringo a me e la proteggo con il mio corpo, perché nessuno la veda. Per fortuna, l’auto sgomma via subito.

Avremo mai un posto tutto per noi?

Avremo mai un posto al mondo?

Non mi bastano i suoi seni. Scendo al suo ventre, sfioro l’ombelico delicato e scendo ancora. Lei apre le gambe e le serra intorno alla mia mano. Attraverso il tessuto sento il vuoto dentro di lei e vorrei colmarlo. E’ morbida e piena, intingo le dita nel suo dolce miele.

Lei mi guida, devo conoscerla meglio, sapere come le piace. Si fida di me, sento che si abbandona. Non mi bacia più, ma mi tiene stretto a sé. La sua mano stringe la mia e segue il suo movimento. Socchiude la bocca, i suoi occhi sono fessure. Vorrei tanto liberare la mia forza, perché lei prenda me, come sto prendendo lei. Il suo lamento è come un canto, il suo sospiro un ululato che si perde nella notte. Le sue braccia mi cingono in un nodo che non voglio sciogliere. Sono zampe che hanno attraversato le steppe, la sua pelle ha il sapore della neve. Mi fa male per quanto forte mi stringe.

Si affloscia lentamente fra le mie braccia, come un palloncino che si sgonfia. E’ felice, si rifugia sul mio petto e sorride a occhi chiusi. La stringo. Attiro a me il suo bel musetto e le bacio la bocca. Mi lecco le dita.

Hai un buon sapore, sono le prime parole che pronuncio, non so da quanto. Forse da sempre. Lei sorride ancora.

Ora potrei cullarla e farla addormentare fra le mie braccia come una bambina, e vegliare sul suo sonno all’infinito, e pronunciare le parole dell’amore, con le labbra a sfiorarle la fronte. Depongo lievi baci sui suoi occhi, sul suo naso e sulla sua bocca.

Guardo l’orologio. E’ giunta l’ora della separazione. E’ terribile come una sentenza di morte. Il sogno è finito.

Lei è imbronciata, ma fuori dall’auto trova la forza per sorridermi ancora. La stringo a me. La mia forza cerca il suo ventre. Lei risponde stringendomi forte, a sua volta.

Le ho regalato il cidì e le ho detto di ascoltare la canzone di “Settembre”, il mese in cui ci rivedremo. Ora resta la parte più difficile. L’ultimo bacio è dolce e delicato, in confronto il rimpianto è un sentimento confuso. Non c’è altro. La foresta la rivuole, la steppa sarà presto chiazzata dalle sue orme. Sale in macchina e se ne va, seguo il guizzo azzurro con la coda dell’occhio.

Sono solo nel parcheggio assolato, non c’è più nessuno. Potrei essere l’ultimo uomo sulla faccia della terra. Resto ancora a fiutare nell’aria e nel vento tracce della sua presenza, a inseguire i suoi passi, lungo la strada che l’ha portata via da me. Non c’è più nulla.

C’è solo un uomo che s’interroga se lei è esistita davvero o se è stata soltanto un sogno.

 

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sabato 18 aprile 2015

Un brutto paese


 

…hanno un’aria gioviale libera, contenta; uomini, donne, giovani o vecchi che siano, tutti sono felici come scolari in vacanza… Ma al ritorno le stesse persone sono immusonite, cupe, tormentate, poche parole e toni bruschi, la fronte arcigna.

Chi scrive è Astolphe de Custine, che dipinge il ritratto di alcuni russi che rientrano in patria al termine di una vacanza in Europa. Mi ha turbato la descrizione accurata, minuziosa, quasi patologica, perché è esattamente come mi sento io quando parto per tornare a casa per le vacanze, a Sud, e al termine, perché, ahimè, tutto finisce, sono costretto a tornare nel Nord Italia. E, come lo scrittore francese, giungo alla sua medesima conclusione, per farla mia.

Un Paese lasciato con tanta gioia e ritrovato con tanto dispiacere è un brutto Paese!

venerdì 10 aprile 2015

L'attesa


 

Custodisco il sorriso dell’attesa, lo conservo per fartene dono. Sei qui, mi desto e sei già distante. Era soltanto un sogno.

Voglio tutto di te, le lacrime, i sorrisi, i baci indecisi. I giorni di luce, i giorni di vento. La tua notte più buia.

Le nostre membra sono radici che affondano nella terra nuda e suggono linfa vitale per i nostri corpi liquidi.

Nuda sei la luna che si specchia nel mare, fai sfoggio di stelle e indossi la notte.
            Il tuo vestito più bello.



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venerdì 3 aprile 2015

Una verità


 

Un riso può aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, ogni lagrima insegna a’ mortali una verità

(Ugo Foscolo, Introduzione alla traduzione del Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne)

 

 

Non se ne parlava mai in famiglia, ma qualcosa aleggiava, un sospetto fugace, un vago alone di assenza, un barlume di consapevolezza. La sensazione che mancasse qualcosa. Me ne accorgevo dai silenzi di mia madre in certi giorni. Avvertivo una presenza nascosta fra le ombre della casa, un’entità senza nome né volto. Una presenza che si rivelava soltanto in sogno.

Allora lo ritrovavo, lo riconoscevo come quando si riconosce il profilo familiare di una montagna, l’odore di un’estate di tanti anni fa, la morbidezza di una coperta di quand’ero bambino. Egli era fermo ad aspettarmi, voleva invitarmi a entrare. Ma il sogno non si apriva, non ne possedevo la chiave ed ero costretto a starne fuori. Eravamo bambini tutti e due, io solo nel sogno, lui per sempre. Non potevo entrare nel suo sogno, lui non sapeva uscirne. L’ingiustizia è quando non c’è via d’uscita.

E io, testardo, mi affannavo a spiegargli il calore del sole, l’azzurro del cielo, l’odore dell’erba fresca, le macchie di colore delle mucche che pascolavano nella vallata. Ma lui non capiva.

Si possono spiegare i colori a un cieco? Si può spiegare la morte a un bambino?

Lui non era di questo mondo, non aveva mai visto il sole, il cielo, l’erba fresca, le mucche. Non si era mai sbucciato le ginocchia, non aveva mai inseguito aquiloni, non aveva mai pescato i pesci dello stagno. Non conosceva le lacrime, le carezze che le consolano, la paura del buio. Lui non sapeva niente. Non conosceva nulla di tutto questo. Lui non era mai nato.

Era mio fratello.

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