“Un riso può aggiungere un filo alla trama
brevissima della vita, ogni lagrima
insegna a’ mortali una verità”
(Ugo
Foscolo, Introduzione alla traduzione del Viaggio
sentimentale di Lawrence Sterne)
Non
se ne parlava mai in famiglia, ma qualcosa aleggiava, un sospetto fugace, un
vago alone di assenza, un barlume di consapevolezza. La sensazione che mancasse
qualcosa. Me ne accorgevo dai silenzi di mia madre in certi giorni. Avvertivo
una presenza nascosta fra le ombre della casa, un’entità senza nome né volto. Una
presenza che si rivelava soltanto in sogno.
Allora
lo ritrovavo, lo riconoscevo come quando si riconosce il profilo familiare di
una montagna, l’odore di un’estate di tanti anni fa, la morbidezza di una
coperta di quand’ero bambino. Egli era fermo ad aspettarmi, voleva invitarmi a
entrare. Ma il sogno non si apriva, non ne possedevo la chiave ed ero costretto
a starne fuori. Eravamo bambini tutti e due, io solo nel sogno, lui per
sempre. Non potevo entrare nel suo sogno, lui non sapeva uscirne. L’ingiustizia è
quando non c’è via d’uscita.
E io,
testardo, mi affannavo a spiegargli il calore del sole, l’azzurro del cielo,
l’odore dell’erba fresca, le macchie di colore delle mucche che pascolavano
nella vallata. Ma lui non capiva.
Si
possono spiegare i colori a un cieco? Si può spiegare la morte a un bambino?
Lui
non era di questo mondo, non aveva mai visto il sole, il cielo, l’erba fresca,
le mucche. Non si era mai sbucciato le ginocchia, non aveva mai inseguito
aquiloni, non aveva mai pescato i pesci dello stagno. Non conosceva le lacrime,
le carezze che le consolano, la paura del buio. Lui non sapeva niente. Non
conosceva nulla di tutto questo. Lui non era mai nato.
Era
mio fratello.
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