lunedì 30 settembre 2013

Alba scura

L’alba quel giorno si faceva attendere.
Gettò un rapido sguardo alle spalle. Si era accorto di essere seguito. L’uomo con la pistola si avvicinava, non gli restava che correre.
L’altro fece lo stesso.
Respirava affannosamente, mordeva l’aria fredda della notte che moriva, inghiottendone grosse porzioni. Il freddo intenso gli bruciava i polmoni.
In breve, si ritrovò in un vicolo cieco. Dal fondo della strada scorse una figura scura. Un altro uomo con la pistola veniva verso di lui. Si guardò intorno, ma non c’erano vie di fuga. Allora si infilò nell’androne di un palazzo e cominciò a salire le scale, svelto come il fulmine. Sentì, poco dopo, sbattere il portone d’ingresso e udì il rumore di passi in corsa, i due uomini erano dietro di lui.
Il suo cuore batteva al ritmo di tamburi di guerra, la corsa lo aveva stremato. Le scale terminarono e si trovò improvvisamente davanti la porta d’accesso al terrazzo. La spalancò con un calcio ben assestato e si proiettò fuori. Il terrazzo era lungo e stretto. Presto giunse al parapetto e i suoi occhi bianchi lampeggiarono nel buio alla ricerca di tetti vicini sui quali saltare, ma non ve n’erano. Un largo fiume d’asfalto lo separava dalla salvezza.
Gli uomini con la pistola erano già sul terrazzo e si avvicinavano.

2.
Quel giorno non era meglio, né peggio degli altri, era uno dei tanti.
Andavo per la mia strada, distratto da impegni e commissioni da svolgere, con quel misto di rabbia e sopportazione che mi portavo sempre dietro per le strade di quella città. Davanti a un bar provai quella sensazione che si avverte dietro la nuca, come un prurito, quando uno sguardo si fissa su di te. Mi voltai.
Un uomo di colore mi guardava con insistenza.
“Che cazzo hai da guardare?” lo apostrofai infastidito.
“Niente amico, niente.” rispose sorridendo.
Il suo sorriso stemperò la mia irritazione all’istante, tanto da indurmi a chiedergli scusa. Gli offrii una sigaretta.
“Grazie amico, ma non fumo”
Allora gli proposi un caffè. Accettò.
Dentro il bar c’era poca gente. Ognuno badava ai cazzi suoi.
Davanti alle tazzine fumanti mi scaldai un pò il cuore e la mente dal freddo dalla giornata, quel tanto sufficiente a mettermi in una disposizione d’animo maggiormente adatta a scambiare qualche parola con un altro essere umano.
“Quanti anni hai?” chiese.
Non risposi.
“Potresti essere mio figlio” aggiunse al mio silenzio.
Lo guardai meglio. E’ difficile attribuire un’età alle persone di colore. Non aveva i capelli bianchi, ma forse le sue mani, forse quelle rughe di espressione sul viso, quei movimenti obliqui dello sguardo, la luce nei suoi occhi, erano tutti elementi che indicavano che avesse raggiunto l’età della saggezza. E si, conclusi, avrebbe potuto tranquillamente essere mio padre.
“Come si chiama tuo figlio?”
“Selim.”
“E dov’è? In Africa?” chiesi per intavolare un brandello di conversazione.
“No, non più.” emise un sonoro sospiro.
 “E’ partito qualche mese fa per raggiungermi, ma non ho più avuto sue notizie.”
“Cazzo, mi dispiace. E non hai provato a cercarlo?”
“Si, tutti i giorni. Ho avuto notizie rotte… “
“Rotte?”
“Si, a pezzi”
Non avevo mai pensato che le notizie si potessero rompere, ma il suo caso dimostrava che avevo torto.
“Vuoi dire frammentarie?”
“Si, notizie frammentarie, ma so che è riuscito ad attraversare il mare e sbarcare sano e salvo”
“E ora dov’è?”
“Non lo so.”
Le tre parole emersero a malapena dal flusso di un altro sospiro.
“Mi dispiace davvero.” dissi.
Non sapevo cos’altro aggiungere. Mi sentivo in imbarazzo, ma m’incuriosiva la sua compostezza, la sua serenità. Il suo portamento non aveva niente di triste o di dolente, la bocca era spesso aperta al sorriso. Aveva un modo dolce di sorridere, che apriva il cuore.
“Non devi dispiacerti. Dalle mie parti si dice che nessuna notizia è uguale a buona notizia.”
“Anche dalle mie parti si dice.”
Ci si schiodarono dalla bocca risate d’intesa, come se ci conoscessimo.
“Adesso devo andare. E’ stato un piacere.” dissi allungando una mano.
Lui me la strinse, con forza sincera. Mi fece un’impressione particolare la vista della mano bianca e della mano nera strette insieme in un nodo simmetrico e le prime parole che mi vennero in mente furono: “Scambiatevi un segno di pace”.
“Anche per me amico. Vai in pace”
“Infatti”, pensai di getto. Mi era sembrata una risposta così naturale, ovvia. Invece, ovvia non era e mi domandai stupito, se per caso mi avesse letto nel pensiero, ma riuscii a farfugliare solo:
“Grazie, ne ho davvero bisogno.”

3.
Uscii di nuovo, al freddo dei marciapiedi, un pò confortato dal sapere che in qualunque angolo di strada, di piazza, di giardino pubblico, insomma in qualsiasi buco merdoso di una miserabile città qualunque o topaia del cazzo, puoi trovare un amico.
Attraversai piazze e strade, svoltai molti angoli e arrivai dove dovevo andare. Sulla via del ritorno un poliziotto fermò bruscamente i miei passi.
“Mi dispiace, ma non posso farla passare” disse in tono cortese, ma risoluto “Abbiamo dovuto chiudere la strada.”
In effetti, alle spalle dell’agente si scorgeva un discreto numero di persone, tutte affaccendate come tante diligenti formiche. Auto della polizia, un’ambulanza e facce torve di sbirri irritati, chiudevano la scena.
Tornai sui miei passi, pensando a vie alternative per tornare a casa. Una signora mi venne dietro tutta trafelata e mi guardò con occhi spaventati.
“Un ragazzo… un ragazzo!” disse agitando in modo curioso le mani e superandomi senza fermarsi.
“Un ragazzo?” chiesi incuriosito alla nuca della donna che si allontanava.

4.
Selim era sul terrazzo, scavalcò il parapetto e si attaccò alla grondaia per calarsi nella strada di sotto. Ma la grondaia si ruppe e restò ancorato con un braccio, appeso a penzoloni nel vuoto. Tra un attimo sarebbe stato raggiunto dagli uomini con la pistola.
In quel momento sorse il sole e illuminò la città. 
Selim si voltò a guardarlo e ne rimase abbagliato.
Era bellissimo.
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lunedì 23 settembre 2013

Nè qui nè altrove

Ho terminato di leggere Né qui né altrove di Gianrico Carofiglio. E’ un libro che mi sento di consigliare a tutti, almeno a quelli che credono di conoscere la propria città, o il luogo in cui vivono, ma che qualche volta si sono persi nelle vie che credevano familiari, in una notte di nebbia o fuori dal tempo, proprio come l’unica, interminabile notte che coinvolge l’autore, insieme a due vecchi amici ritrovati per caso e che io accosto, per carattere e intensità, al notturno ritorno a casa del Leopold Bloom (dall’Ulisse) di James Joyce. Certo, è strano accostare Bari a Dublino, ma credo che sia Joyce, che Carofiglio abbiano amato e amino profondamente la città in cui sono nati e vissuti, i cui confini sono segnati dal mare e ne abbiano conosciuto alla perfezione i mille anfratti.
Ho sentito di molti che si sono smarriti persino nelle vie del loro paese, quando l’oscurità è così densa che la tagli con un coltello, come si suol dire…” diceva Henry David Thoreau nel suo Walden.
Le strade, i palazzi, le prospettive che credevi di conoscere alla perfezione di giorno, di notte si scompongono in migliaia di frammenti sparsi nella memoria, sminuzzati in un caleidoscopio emotivo, come tessere di un puzzle che è arduo comporre. Di notte, la memoria esplode in miriadi di schegge luminose e brucianti come frammenti di fuochi d’artificio e si disperdono nelle ombre delle strade, nei mille recessi nei quali ci si può smarrire per sempre. In frammenti interminabili della notte, quando il tempo sembra incepparsi e arrestare il suo corso e le mille supposizioni sulla piega che avrebbe potuto prendere la nostra esistenza prendono il sopravvento e non si comprende più se quello che stiamo vivendo è davvero la realtà o solo frutto dell’immaginazione. Notti così vengono solo quando soffia vento di mare, oppure, quando s’incontra per caso un vecchio amico dopo tanto tempo, un amico che avevamo perso di vista, quasi dubitavamo che fosse davvero esistito e ci chiedevamo se, per caso, il suo volto sbiadito dal tempo non fosse tornato a confondersi nella folla delle nostre conoscenze. E i ricordi e la realtà si confondono a tal punto da non saper più affermare con certezza, cosa è davvero accaduto e cosa è, invece, solo frutto dell’immaginazione.
Credo che non leggerò i romanzi legal thriller di Carofiglio, quelli con protagonista l’avvocato Guerrieri, ma solo perché non sono il genere di libri che leggo usualmente. Né qui né altrove, invece, è stato per me un tocco di umanità vera e inaspettata, proveniente da Sud. Io lo accosto a un altro bel libro di cui avevo già parlato su questo blog, Non ora, non qui di Erri De Luca. Sono due volumi che potrebbero stare tranquillamente in coppia, hanno quasi lo stesso titolo, che è la metafora dell’esserci e del non esserci, allo stesso tempo, il tempo del Meridione e sono stati scritti da uomini del Mezzogiorno, che sanno bene cos’è il mare e quanto pesa la partenza di un amico che, probabilmente, non rivedremo mai più. Questi libri rappresentano egregiamente le mie origini, sepolte nei meandri della mia anima vagabonda.
De Luca parla con la lingua di mio padre, il napoletano, il dialetto dei pescatori e dei contadini, l’idioma degli emigranti e dei camorristi e quindi, idealmente si situa a occidente, a Napoli e dintorni e il suo mare è il Tirreno.
Carofiglio si esprime, invece, nella lingua della mia patria nativa, Bari, da dove si può spaziare lo sguardo a Levante, all’Adriatico meridionale, e più oltre, fino al Montenegro, all’Albania, alla Grecia e all’Epiro e respirare l’aria esotica e odorosa di polvere delle terre in cui sorge il sole. Ma non si può dimenticare di avere alle spalle quell’entroterra, che per me è il Meridione per eccellenza, le Murge, terra antica, terra amara, ma solida e concreta, il luogo in cui la Puglia si congiunge alla Basilicata, o Lucania, come si chiamava una volta e dove spesso la realtà si trasforma in leggenda e mito.
Io sono nato a Bari, ma sono andato via che ero molto piccolo, avevo poco più di tre anni. Leggere Né qui né altrove è stata l’occasione per recuperare quella “baresità” che mi mancava, che non avevo vissuto, ma che, tuttavia, intuivo esistere in me, a livello più o meno inconscio. Il libro è stato fondamentale per recuperare le mie radici pugliesi e levantine, di uomo di mare a metà, incompiuto, schiacciato tra la terra e il cielo di altri luoghi lontani e antitetici, che la sorte mi ha assegnato in patria.
L’età alla quale appartengono i ricordi di Carofiglio è la stessa dei miei primi anni di vita. Appunto quei tre anni di cui parlavo, la mia mitica età dell’oro, densa di scoperte e segnata delle mie prime prodezze. Io ho aperto gli occhi a Bari, la prima manciata d’aria che mi ha squarciato i polmoni con dolore era vento di mare, lì ho pronunciato le mie prime incomprensibili parole, sempre a Bari ho mosso i miei passi incerti e sono stato battezzato nella basilica di San Nicola, come ogni barese che si rispetti.
E sono fiero di esserlo.
Bari è una città di mare e inaspettatamente, proprio i ricordi del mare sono esplosi nel mio racconto “L’alieno” (che ho pubblicato nella raccolta L’impero del vento). Il mare dei miei ricordi è proprio l’Adriatico meridionale, il mare di Bari.
La scrittura di Carofiglio mi ha preso e mi ha fatto molto incuriosire. Ma ho dovuto chiedere a mia madre di prestarmi i ricordi che non avevo, perché a parte il mare, il palazzo in cui abitavamo in Corso Sicilia e alcuni particolari della strada, non mi ricordo d’altro. Ho chiesto a mia madre e lei mi ha dato le sue memorie, di prima e dopo la mia nascita e ho scoperto che ci muovevamo insieme, all’inizio dentro al suo sacco uterino, poi tra le sue braccia o in un passeggino traballante, o più avanti, quando fui in grado di camminare, mano nella mano, negli stessi luoghi del libro, la Pineta, il faro di San Cataldo, il Castello svevo, il quartiere murattiano, il quartiere Libertà, il Teatro Petruzzelli, il Gran Cinema Oriente, l’aeroporto di Palese, dalla cui strada perimetrale mi portavano a vedere atterrare e decollare gli aerei, il lungomare, i giardini di Piazza Isabella d’Aragona.
Tutti questi luoghi, ogni angolo, ogni prospettiva, erano per noi (per me infante, ma per mia madre, molto di più) “il punto di fuga verso un infinito pieno di promesse”, come dice l’autore. Ma per correre verso l’infinito e raccoglierne le promesse, o almeno tentare di farlo, occorrono due cose, la paura e il coraggio, “che se non vanno insieme non valgono niente. Né l’una né l’altro”.

martedì 10 settembre 2013

Sabotare la TAV? No, grazie!

Solo un brevissimo post per commentare le recenti affermazioni dello scrittore Erri De Luca sull’inutilità della TAV, la conseguente giustificazione o incitamento al sabotaggio e, secondo le ultimissime, addirittura partecipazione ad atti di sabotaggio veri e propri. Questo non è un blog politico, qui si parla di arte, musica, letteratura e voglio che la politica stia alla porta. Ma, qualche mese fa avevo dedicato un post a questo scrittore, parlando, naturalmente, di sola letteratura e volevo precisare il mio pensiero. Continuo a stimare De Luca, come scrittore e come uomo, del quale ho detto di apprezzare la coerenza che a molti difetta, ma le idee che ha espresso sulla TAV, proprio non le condivido. Naturalmente, ritengo che sia libero di esternare tutto ciò che crede, ma che debba anche assumersene la responsabilità, sia nei confronti del suo pubblico di lettori, che, credo, non comprenda solo lettori di sinistra, sia nei confronti della giustizia, qualora le sue dichiarazioni siano ritenute integrare il reato di istigazione a delinquere e i suoi atti concretizzare reati di altro genere. Ma questo compito spetta solo alla Magistratura. Riporto, comunque, alcune sue dichiarazioni, rilasciate al quotidiano La Repubblica. "Un intellettuale deve essere coerente e mettere in pratica ciò che sostiene. Per questo anch'io ho partecipato a forme di sabotaggio in val di Susa". Coerenza e chiarezza si sprecano. Alla domanda: “De Luca, può un intellettuale disinteressarsi delle conseguenze delle parole che pronuncia?”, ha risposto: "La mia risposta è no. Se poi l'intellettuale è uno scrittore, è bene che conosca il significato delle parole: è il suo mestiere. Direi di più: l'intellettuale non dovrebbe mai smentire quel che ha detto e scritto". Che altro aggiungere? E poi: "Certo che l'ho fatto. Ho partecipato ai blocchi dell'autostrada insieme a maestri elementari, vigili urbani, madri di famiglia. Il blocco stradale è certamente un atto di ostruzionismo. Diciamo che è una forma di sabotaggio alla libera circolazione". Ora, quando si parla di sabotaggio mi viene da pensare ai black bloc, ai no global, agli anarchici informali (e meno male che non sono formali, mi viene da dire, altrimenti…!), ai professionisti della protesta e del tafferuglio, non a un intellettuale sessantenne che si agita sulle barricate. Ammettiamolo, quello che ha fatto De Luca, è ben poca cosa in confronto alle famigerate, esecrabili imprese dei manipoli agghindati di nero, lui è stato un signore, anche nel cuore della protesta. Ha avuto il coraggio di mostrarsi in faccia e anche quello di autodenunciarsi. Il sabotaggio che ha posto in essere, credo che rientri appieno nel concetto di resistenza passiva. La resistenza attiva è, invece, tutt’altro. Ma qui finiscono le mie convergenze e le mie simpatie. Sul fronte della TAV io sto dalla parte opposta. Io credo che la Tratta Alta Velocità sia un’opera necessaria, della quale l’Italia ha bisogno, ma che, purtroppo e come accaduto per tante altre grandi opere italiane, arriverà fuori tempo massimo. Ritengo che se il corridoio Lisbona – Kiev, del quale fa parte la tratta Lione – Torino, verrà spostato più a nord, l’Italia sarà tagliata fuori e avremo perduto l’ennesima occasione. Inoltre, non credo che gli abitanti della Val di Susa, pur comprendendo le loro ragioni, abbiano il diritto di bloccare lo sviluppo dell’Italia intera e per tale intendo il Nord, il Centro, il Sud e le Isole, soprattutto, e questo, a De Luca, che è meridionale come me, dovrebbe stare molto a cuore. Quante volte il Mezzogiorno è stato calpestato in ragione degli interessi d’Italia? Sempre. Ogni volta che sono in gioco gli interessi nazionali o del Settentrione, il Meridione soccombe. E perché dovrebbe essere diverso, se a essere calpestate, per una volta, sono le ragioni del Nord? Non condivido, ripeto, le sue idee, io in politica sto, moderatamente, dalla parte opposta, ma la coerenza l’apprezzo in chiunque. Credo però, che De Luca sia figlio del suo tempo, il sessantotto mitizzato, deriso, forse mai studiato a fondo. E ripetere schemi rituali, triti e usuali di occupazione, sabotaggio, resistenza, termini per luminari adusi alla lotta di classe, sia qualcosa fuori dal tempo. Nel frattempo la storia è andata avanti. Sono anche convinto, che le proteste, i sabotaggi e gli attacchi ai cantieri e alle Forze dell’ordine siano organizzate e fomentate da personaggi esterni (e in questa schiera non includo di certo Erri De Luca, che ritengo in buona fede), che poco hanno a che vedere con i valligiani, al solo scopo di perpetuare certe logiche di scontro e meccanismi di lotta tipici degli anni settanta. Insomma, qualcosa di molto vecchio e stantio, con un sapore peggiore della minestra scaldata, propinata da personaggi fuori dal tempo, che non si sono accorti che le cose da trent’anni a questa parte sono cambiate, anche se, purtroppo, non sempre in meglio. Un consiglio spassionato a questi “personaggi” decisamente retrò: andate a rompere il cazzo da un’altra parte!