martedì 29 luglio 2014

L'amore che resta


 

«E poi c'è questo uccello canoro che pensa di morire ogni volta che cala il sole. E la mattina quando si sveglia è così sconvolto di essere vivo che si mette a cantare la sua melodiosa canzone. Io canto ogni mattina da quando ti conosco... »

(Jason Lew, Of winter and water birds)

Ora tutto è chiaro. E io non lo posso accettare. Sono stato cieco, sordo, muto. Se solo avessi saputo, se solo avessi immaginato, intuito…
Ma ora tutto è compiuto. Una sfiga normale.

(17 luglio 2014)

lunedì 21 luglio 2014

Suite francese


 Spezzoni di vite scompaginate dalla guerra si dipanano nella trama e ordito sottile, elegante, della successione dei capitoli. Vite d’altri, all’inizio parallele, s’intrecciano in una matassa inestricabile, pur mantenendo la loro originaria autonomia. Vite d’altri così simili alle nostre, sorprese dalla tragedia della guerra.

Nell’ultimo capitolo, tutto si ricompone, ogni cosa va al suo posto. Sotto la neve, le storie degli altri trovano compimento e diventano finalmente le nostre. Lo scrittore Corte, intirizzito dal freddo, scrive accanto al camino ma, come un lupo che perde il pelo sì, ma non il vizio, tiene lo champagne al fresco nella neve del terrazzo. La neve ricopre anche la tomba del signor Langelet, troppo attento a salvare le sue preziose cose, tanto concentrato a curarsi di se stesso, da non accorgersi di morire. E madame Pericand scavalca tranquillamente la lunga fila al negozio di alimentari, ma è fiera e tranquilla, sa che le è dovuto per il suo rango di madre di famiglia numerosa e fiocchi di neve s’impigliano nel velo nero del lutto. I suoi occhi incrociano per un istante, sfiorano appena le figure curve nel freddo dei coniugi Michaud, eternamente insieme come gemelli siamesi, perfino a tremare nel freddo dell’inverno parigino nella fila per il pane. Anche in campagna, tranquillo rifugio del loro unico figlio scampato alla guerra e alla prigionia, il tempo scorre lento e uniforme sotto il cielo grigio e gelido.

Al termine della narrazione, ci rendiamo conto che queste vite d’altri ci sono familiari, ci sono entrate nel cuore e nell’anima, ci sono familiari come se ci appartenessero, sono un po’ anche le nostre. Perché gli altri siamo noi.

Temporale di giugno fa parte, insieme a Dolce, di Suite francese, un dittico composto da Irène Nèmirovsky, scrittrice ucraina trapiantata in Francia, tra il 1941 e il 1942. E’ la sua ultima opera. Se la possiamo leggere, vuol dire che i miracoli avvengono.

Tempete de juin e Dolce sono stati scritti in grafia fitta e minuta, per risparmiare pagine e inchiostro, su un’agenda che conteneva anche riflessioni e pensieri dell’autrice. Il 13 luglio 1942 la Nèmirovsky fu arrestata e portata a Pithiviers perchè di origine ebraica e l’agenda finì in una valigia che ella non ebbe il tempo o il modo di portarsi dietro. Nonostante innumerevoli tentativi, nessuna notizia pervenne ai familiari circa la sorte della scrittrice.

Ma la situazione, già grave, si fece drammatica. Denise e Elisabeth, figlie della scrittrice, vennero anch’esse perseguitate, nonostante fossero cattoliche, perchè discendenti di ebrei e la valigia, che conteneva, oltre all’agenda, anche i loro effetti personali, le seguì nelle peregrinazioni per tutta la Francia in cerca di salvezza. Finita la guerra, esse preferirono non leggere mai l’agenda della scrittrice, accontentandosi di tenerla tra le mani e inspirarne il profumo di pelle della rilegatura e della carta ingiallita, sperando di sentire, o anche solo d’intuire o immaginare, il profumo della loro madre. Forse, temevano più di tutto di accrescere le loro pene, ripercorrendo nelle pagine del diario i suoi travagli negli ultimi disperati giorni che ne precedettero la scomparsa.

Forse per curiosità, forse perché sentiva in qualche modo di doverlo a sua madre, Denise, la figlia maggiore della scrittrice, vinse le residue resistenze e cominciò a sfogliare quelle vecchie pagine, rovinate dal tempo e dalle troppe fughe disperate e capì subito che quello che riteneva una sorta di diario intimo della scrittrice era, in realtà, una vera e propria opera letteraria, l’ultimo romanzo di Irene Nèmiroksky. Un’opera complessa, una sorta di romanzo sinfonico in cinque movimenti, dei quali, tuttavia, solo i primi due erano stati completati, mentre gli altri, Captivitè, Batailles e La Paix, erano appena abbozzati.

L’opera fu pubblicata con il titolo di Suite francese soltanto nel 2004, come aveva previsto la stessa Nèmirovsky: “Ho scritto molto. Saranno opere postume, temo, ma scrivere mi fa passare il tempo.” Il tempo che la separava dalla deportazione ad Auschwitz, dove venne uccisa, poco dopo il suo arrivo, il 17 agosto 1942.

Sulle tracce di mia madre e di mio padre, per mia sorella Elisabeth, per i miei figli e i miei nipoti, queste Memorie da trasmettere, e per tutti quelli che hanno conosciuto e ancora oggi conoscono il dramma dell’intolleranza”.
(Denise Epstein, dalla prefazione a Suite francese).

giovedì 10 luglio 2014

Làgrimas brasileiras


 
La Germania ha peccato di superbia infliggendo un umiliante 7 – 1 al Brasile, quando le sarebbe bastato un più modesto (si fa per dire) 3 – 0. Avrebbe potuto accontentarsi, dimostrando rispetto per una squadra che è più volte stata grande. Ma il rispetto è un sentimento che appartiene agli uomini, non alle macchine e i calciatori tedeschi si sono comportati come automi, programmati a ripetere all’infinito i loro schemi offensivi, senza un briciolo di calore.

Belli, ma senz’anima.

I tedeschi hanno peccato di tracotanza, ma gli dei non sopportano l’hybris degli uomini e ripagano il peccatore con la stessa moneta. Se c’è un dio nel calcio, un Deus d’o futebol, credo che la sua vendetta non si farà attendere.
E indosserà la maglia dell’Argentina.

Chissa se? Chissà quando? Chissà?


 
Tre domande, sempre le stesse, che ci poniamo da milioni di anni, che sopraggiungono, moleste e furtive, con la grazia di incubi silenziosi a tormentare le nostre notti insonni.

Io non voglio saperlo. Quando sarà, sarà. Giunta l’ora, non vorrò voltarmi indietro, vorrei andarle incontro, a quell’ora, senza rimpianti, senza sensi di colpa, con il cuore leggero e lo sguardo sognante, anche se… di colpe e rimpianti ho accumulato una ricca collezione.

Il vento, nato chissà come, se ne andò, chissà dove”.

E così vorrei sparire, come il vento, nato chissà come, svanito chissà dove.

Chissà se? Chissà quando? Chissà?
(N.d.A. La frase citata tra virgolette è di Irène Nèmirovsky, Tempesta di giugno)

lunedì 7 luglio 2014

Sebastian in sogno


 

Georg Trakl nacque a Salisburgo, città natale di Mozart, il 3 febbraio 1887. Nel 1914 iniziò a cercare un editore per Sebastian in sogno, una raccolta delle sue poesie. Ma, proprio quell’anno, scoppiò la guerra e il 24 agosto fu spedito al fronte, in Galizia. A ottobre, provato fisicamente e mentalmente dagli orrori della guerra e, senza aver avuto più notizie dall’editore, tentò il suicidio. Fu ricoverato in ospedale a Cracovia. Nella primavera del 1915 Sebastian in sogno fu finalmente pubblicato, ma Georg non potè saperlo, poiché era morto l’anno precedente, poco dopo il tentativo di suicidio. Aveva solo ventisette anni.

Perché ho voluto raccontare questa storia?

Perché Georg Trakl è stato riconosciuto, tardivamente, come uno dei maggiori poeti austriaci e la sua breve vita è stata il paradigma delle vite di tanti altri giovani della sua generazione, bruciate nella fucina assurda e incoerente della prima guerra mondiale, della quale quest’anno ricorre il centenario.

Ma, ecco, alcuni dei suoi versi più belli.

 

Un antro nero è il nostro silenzio:

ne esce a volte un animale mite

e lento abbassa le pesanti palpebre.

Nera rugiada bagna le tue tempie,

l’ultimo oro di stelle disfatte.

(An den Knaben Elis)

 

Un animale azzurro

sanguina lievi stille nel roveto.

Segni e stelle

scivolano nello stagno della sera.

Si è fatto inverno dietro la collina.

(Elis)

 

Dietro ai richiami cupi dei barcaioli

sempre vengono

stella e notte.

(Im Fruhling)

 

Il sole è affondato in teli neri.

Nella stanza vicina

la sorella prova una sonata di Schubert.

Ai tuoi piedi la sorgente azzurra,

e colma di mistero

la quiete rossa delle tue labbra.

(Unterwegs)

 

Vagare nell’estate che tramonta,

lungo il grano ingiallito dei covoni.

Sotto archi imbiancati,

dove entrava la rondine e usciva,

vino di fuoco noi bevevamo.

(Abend in Lans)

 

Si è spento l’azzurro dei miei occhi

in questa notte,

il rosso oro del mio cuore.

(Nachts)

 

Sopra lo stagno bianco

sono emigrati gli uccelli selvatici.

A sera soffia dalle nostre stelle

un vento di ghiaccio.

Sopra le nostre tombe

si curva

la fronte fracassata della notte.

(Untergang)

 

La notte abbraccia guerrieri morenti,

il furioso lamento delle loro bocche in frantumi.

Pure silenziosa si raduna fra i salici rossa nube,

soggiorno di un dio furente,

il sangue sparso, argentea frescura;

tutte le strade sfociano in nera putredine.

(Grodek, la sua ultima poesia)

 

Autunno: nero incedere al limite del bosco; attimo di muto sfacimento. Cornacchie che si sperdono: tre. Il loro volo somiglia a una sonata, piena di accordi e di malinconia virile. Dallo stagno stellato il pescatore estrae un grosso pesce nero, il volto carico di crudeltà e follia. Ed egli ondeggia in una barca rossa, sopra i brividi di acque autunnali, vivendo nelle saghe tenebrose della sua stirpe, gli occhi di pietra spalancati su notti e su incubi di vergini.

                                                                                                          (Verwandlung des Bosen)

Questi sono i versi e le parole. Georg Trakl se ne andò in punta di piedi, le sue righe si persero nel silenzio e nell’oblio per molti, lunghi anni. Poi la guerra, e più nulla.

Dietro a lui venne notte senza fine

 

N.d.A. L’ultima frase è tratta da La metamorfosi del male. Nella versione originale il verbo è al tempo presente.

giovedì 3 luglio 2014

Anatomia di un tradimento


I francesi erano stanchi della Repubblica come di una vecchia moglie. Per loro la dittatura era un capriccio, una forma di adulterio. Volevano tradire la moglie, certo, ma non intendevano assassinarla. Adesso la vedono morta, la loro Repubblica, la loro libertà. E la piangono.

Così scriveva Irène Nèmirovsky nel suo diario, nel 1942, mentre stava per terminare Suite francese. La Francia era sotto gli scarponi chiodati della Wehrmacht e una marionetta, i cui fili erano in mano ad Adolf Hitler, era a capo della Repubblica di Vichy.

Con profondo acume e rara intelligenza, un’ucraina ebrea emigrata in Francia solo dieci anni prima, leggeva nel cuore e nelle menti dei francesi, meglio degli stessi francesi.

Per fortuna, i cugini d’oltralpe l’hanno riavuta la loro Repubblica, a prezzo di immani sacrifici e sono, ormai, alla Quinta. Quanto a noi italiani, orfani della Seconda Repubblica e figli ripudiati della Terza, che stenta a nascere, annaspiamo nella Grande Crisi Economica e non sappiamo più a che santo votarci.

E, mi pare che, stanchi di Democrazia e Repubblica, guardiamo con insofferenza e apatia agli appuntamenti elettorali, alle vicende governative e alle regole parlamentari, che ci paiono ormai, arcani riti per adepti.

Sapete cosa mi spaventa? Il fatto che non c’indigniamo più, non ci infuriamo, non imprechiamo, non ci ribelliamo. Niente ci sconvolge, nulla ci scuote più. Tutto scorre sulla nostra pelle senza lasciare tracce, ferite, cicatrici. Siamo assuefatti al male, abituati al peggio, che sarà sempre peggiore se non faremo niente e ogni giorno la nostra indifferenza, la nostra ignavia segna una tacca in più.

Dovremmo, invece, imparare dalla lezione della Nèmirovsky e stare bene attenti alle facili ubriacature dei populismi e dei qualunquismi del passato e del presente. Il “tanto peggio, tanto meglio” è sempre dietro l’angolo. Attenzione all’allentamento delle regole democratiche, occhio all’alleggerimento delle garanzie costituzionali, come fosse la panacea della nostra atavica incapacità di governarci.  

Ma non è con il Senato non elettivo, non è con l’abolizione delle Province, intese come luogo di confronto dialettico e democratico e non semplicemente come incubatori di sprechi, che ci salveremo dal baratro. Se oggi cancelliamo i consigli provinciali, domani il Senato elettivo, tra qualche tempo i consigli regionali e poi quelli comunali e i consigli di quartiere, cosa resterà di noi? Questi luoghi sono le agorà moderne, le piazze dove una volta, al tempo delle democrazie ellenistiche, si decideva, tutti insieme, sulle massime questioni della Comunità.  Le parole non sono mai troppe, gli scambi di opinione sono fondamentali. E’ infinitamente meglio parlarsi, che prendersi a sprangate. E’ meglio sentir dire una cazzata in più in Parlamento, che il silenzio assordante delle aule deserte. Il confronto dialettico è il sale della democrazia. Senza, saremo costretti a mangiare una brodaglia insipida che ci propineranno in nome della sovranità popolare.

Attenzione, passata la sbornia censoria, abbassata la mano che impugnava la falce dei tagli alle spese della politica, potremo trovarci nel letto il cadavere freddo di nostra moglie e scoprire che l’altra con cui l’abbiamo tradita, l’ha fatta fuori e non se ne vuole più andare.
E sarà troppo tardi per piangere. Maledettamente tardi.