“I francesi erano stanchi della Repubblica
come di una vecchia moglie. Per loro la dittatura era un capriccio, una forma
di adulterio. Volevano tradire la moglie, certo, ma non intendevano
assassinarla. Adesso la vedono morta, la loro Repubblica, la loro libertà. E la
piangono.”
Così scriveva Irène Nèmirovsky nel suo diario, nel 1942, mentre stava per
terminare Suite francese. La Francia era sotto gli scarponi chiodati
della Wehrmacht e una marionetta, i
cui fili erano in mano ad Adolf Hitler,
era a capo della Repubblica di Vichy.
Con profondo acume e rara intelligenza,
un’ucraina ebrea emigrata in Francia solo dieci anni prima, leggeva nel cuore e
nelle menti dei francesi, meglio degli stessi francesi.
Per fortuna, i cugini d’oltralpe l’hanno
riavuta la loro Repubblica, a prezzo di immani sacrifici e sono, ormai, alla
Quinta. Quanto a noi italiani, orfani della Seconda Repubblica e figli
ripudiati della Terza, che stenta a nascere, annaspiamo nella Grande Crisi Economica e non sappiamo
più a che santo votarci.
E, mi pare che, stanchi di Democrazia e Repubblica, guardiamo con
insofferenza e apatia agli appuntamenti elettorali, alle vicende governative e
alle regole parlamentari, che ci paiono ormai, arcani riti per adepti.
Sapete cosa mi spaventa? Il fatto che
non c’indigniamo più, non ci infuriamo, non imprechiamo, non ci ribelliamo.
Niente ci sconvolge, nulla ci scuote più. Tutto scorre sulla nostra pelle senza
lasciare tracce, ferite, cicatrici. Siamo assuefatti al male, abituati al
peggio, che sarà sempre peggiore se non faremo niente e ogni giorno la nostra
indifferenza, la nostra ignavia segna una tacca in più.
Dovremmo, invece, imparare dalla lezione
della Nèmirovsky e stare bene
attenti alle facili ubriacature dei populismi e dei qualunquismi del passato e
del presente. Il “tanto peggio, tanto meglio” è sempre dietro l’angolo.
Attenzione all’allentamento delle regole democratiche, occhio
all’alleggerimento delle garanzie costituzionali, come fosse la panacea della
nostra atavica incapacità di governarci.
Ma non è con il Senato non elettivo, non
è con l’abolizione delle Province, intese come luogo di confronto dialettico e
democratico e non semplicemente come incubatori di sprechi, che ci salveremo
dal baratro. Se oggi cancelliamo i consigli provinciali, domani il Senato
elettivo, tra qualche tempo i consigli regionali e poi quelli comunali e i
consigli di quartiere, cosa resterà di noi? Questi luoghi sono le agorà moderne, le piazze dove una
volta, al tempo delle democrazie ellenistiche, si decideva, tutti insieme, sulle
massime questioni della Comunità. Le
parole non sono mai troppe, gli scambi di opinione sono fondamentali. E’
infinitamente meglio parlarsi, che prendersi a sprangate. E’ meglio sentir dire
una cazzata in più in Parlamento, che il silenzio assordante delle aule deserte.
Il confronto dialettico è il sale della democrazia. Senza, saremo costretti a
mangiare una brodaglia insipida che ci propineranno in nome della sovranità
popolare.
Attenzione, passata la sbornia censoria,
abbassata la mano che impugnava la falce dei tagli alle spese della politica,
potremo trovarci nel letto il cadavere freddo di nostra moglie e scoprire che
l’altra con cui l’abbiamo tradita, l’ha fatta fuori e non se ne vuole più
andare.
E sarà
troppo tardi per piangere. Maledettamente tardi.
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