martedì 25 novembre 2014

Costruire la città verticale


 

            Una città va edificata dalle fondamenta, prima lo scavo del terreno, poi la gettata di cemento, la costruzione dei piani intermedi e infine, la conquista del cielo con una scalata di mattoni, blocchetti e tondini di ferro. Nella mia città, invece, si costruiscono prima i tetti e i solai e solo dopo le fondamenta. Nella mia città è tutto sottosopra. le persone oneste stanno in galera, i farabutti e gli assassini girano liberi per strada. E se uno vuole essere libero e non diventare un delinquente, mi dispiace, ma ha sbagliato città, non ha altra scelta che andarsene.

La città verticale è diversa da tutte le altre. Innanzitutto, non esiste in alcun luogo al mondo, ma, al tempo stesso, tutte le città del mondo ne contengono almeno un pezzo che le somiglia in maniera sorprendente. Così, se per caso vi capiterà di aggirarvi per le strade della mia città, troverete dei luoghi che vi sono familiari. Ma, vi consiglio di stare con gli occhi aperti. E’ piena di insidie e pericoli e tentazioni. E si parla una lingua bizzarra, che tronca la coda alle parole per risparmiare; ed è una lingua che ha perso il tempo futuro. Forse perché chi la parla ha perso la speranza.

Così, non ho potuto usarlo neppure io nella narrazione. In compenso, mi sono potuto sbizzarrire con una gamma cromatica infinita: il bianco, il nero e le loro infinite gradazioni. E già, perché io immagino il passato come una foto in bianco e nero e anche le storie scritte al passato assumono questa bicromia illimitata. L’imperfetto è un tempo aperto, alcune cose sono appena accadute o possono ancora accadere e sono i passi degli attori sulla scena a stabilire la differenza fra l’azione in fieri, solo immaginata, e l’azione concreta; il presente, unica eccezione alla consecutio temporum declinata al passato, è schiacciato sul reale e non offre profondità o prospettiva, in compenso, rende le scene molto drammatiche. Il passato remoto è risultato appropriato per modellare la definitività degli eventi: quello che doveva accadere è accaduto, ciò che è stato è ormai incancellabile. A volte li ho mescolati nello stesso capitolo, per dare ritmo, movimento, prospettiva. Spero di non aver pasticciato troppo.

Anche con la caratterizzazione dei personaggi.

Le caratteristiche del personaggio devono emergere dalla storia, da quello che dice, da quello che pensa, da quello che fa, da come interagisce con gli altri attori del copione e non da un approccio descrittivo, come invece eccezionalmente ho fatto ne La città verticale, dedicando quasi un intero capitolo a delineare la figura del protagonista. Ma ciò rispondeva a un’esigenza ben precisa: far risaltare la mancanza di una ferma volontà nel personaggio del prete in crisi, che vacilla nella sua fede. Queste incertezze generano tensione nel raccontare e fanno sì che il tessuto narrativo, che rende monchi gli eventi di qualsiasi motivazione, assuma un sapore alquanto assurdo e grottesco, come io stesso anticipavo in Ubi pus, ibi evacua, prefazione al romanzo, nella quale avevo parlato di vicende che parevano tratte dal teatro dell’assurdo, del grottesco e del surreale, ma che dimostrano quanto, a volte, può essere assurda, grottesca e surreale la vita stessa.

            Ogni trama contiene in sé innumerevoli possibilità di soluzione e sceglierle vuol dire iniziare a scrivere. Non ci sono regole, anche se, spesso, si sceglie la soluzione meno ovvia per spiazzare il lettore, stimolare la sua curiosità, tenerlo legato al testo e dare una risposta alla sua domanda: “come va a finire?”. E io rispondo. Ma non subito. Intanto, bisogna scegliere il punto di vista narrativo. In fondo, è come avere una telecamera e bisogna decidere se puntarla sul protagonista, sul comprimario, sul paesaggio o sullo scrittore, se ha scelto l’io narrante, e anche se accostarsi più a un personaggio e allontanarsi da un altro. Se invece puntiamo la telecamera su noi stessi e ci mettiamo vicino al lettore, al suo livello, diciamo, ma un po’ più avanti, in quanto siamo a conoscenza di qualche elemento in più che fa evolvere e proseguire la narrazione, è come se gli dicessimo: “Dai seguimi, andiamo a vedere quello che succede”. Invece, il punto di vista della narrazione in terza persona scaraventa lo scrittore fuori dalla sua storia, egli la guarda dall’alto, come se fosse Dio, e come Lui, è onnisciente e onnipotente, non interferisce con il suo eroe e ne resta distante. Ma può capitare che, nonostante tutte le cautele, il personaggio sfugga dal controllo e lo scrittore è costretto a inseguirlo, a esortarlo, a supplicarlo a comportarsi in un certo modo desistendo da un altro, ma questi non lo ascolta e continua a fare quello che vuole. Allora, la sua disobbedienza costringe il suo creatore a interferire con lui, a dialogarci, a minacciarlo anche, ma questo fa di lui un narratore impotente, che non ha la forza di dirigere i suoi personaggi entro i confini della trama che ha ipotizzato. A me, per fortuna, capita raramente, riprendo subito le redini dei miei personaggi e il controllo sulla trama. Sono un po’ un tiranno, lo confesso, voglio che facciano quello che dico, altrimenti prendo la gomma e li cancello dalla storia. E infine, non mi piace dialogare con loro, preferisco tenermene discosto, perché credo che queste relazioni conferiscano un sapore ottocentesco, moralistico e didascalico alla narrazione. E poi, i personaggi di un romanzo devono restare chiusi in un libro e non entrare mai nella vita reale. Attenzione, quindi, a chiudere bene i vostri libri dopo averli letti.

            Ma torniamo alla costruzione del personaggio.
Per tutta la vicenda il protagonista principale si dibatte incerto fra l’azione e la desistenza, che equivale a una resa incondizionata alla legge del più forte, e solo il finale rivela che le incertezze vengono da lui superate e che il suo punto di svolta è ancora nella fede. Non più nella fede in Dio, divenuto un simulacro di divinità, assurdo, lontano e falso quanto un crocifisso di plastica made in China, ma nella fede verso il quartiere, la città, la sua gente. In fondo, cos’è la fede se non un atto d’amore? Un amore incondizionato che non ha bisogno di prove e che non ammette esitazioni. Ed è in nome dell’amore per quelle persone, che egli accetta di compiere il sacrificio sublime di distruggere la sua vita e tutto ciò che era stato fino a quel momento, gettando alle ortiche l’abito talare, per salvare il suo popolo e portare a compimento il compito di ogni pastore: condurre al sicuro il suo gregge.

venerdì 21 novembre 2014

Il poeta con picco e pala


 

Pascal D’Angelo, nome d’arte di Pasquale D’Angelo, nato a Introdacqua (AQ), emigrò negli Stati Uniti a sedici anni, da analfabeta, menando una vita durissima per cantieri edili, fabbriche, ferrovie e dovunque vi fosse da lavorare. In America non solo imparò a leggere e scrivere, ma si affermò anche come poeta.

Ecco il racconto straziante del suo addio all’Italia e allo stesso tempo della scoperta del treno e della velocità e infine, del mare, che avrebbe attraversato, da una sponda all’altra, da un continente all’altro.

Sentii il fragore del treno – né muli né cavalli a trascinarlo – quindi la stretta di mio padre che m’incitava a salire in carrozza. L’ultimo bacio di mia madre. Il resto sparì tra la nebbia delle mie lacrime. Stavamo andando verso l’ignoto. Il frastuono della prima galleria e quelle luminose macchie improvvise mi fecero trasalire dallo spavento, e smisi di piangere. Quindi sfrecciammo fuori. Il mondo là attorno sembrava una grande giostra. Colline e montagne ci venivano incontro all’impazzata, si dilatavano, poi si sgonfiavano; le case ci scivolavano accanto: prima bianche, quindi svanivano nuovamente in una verde macchia indistinta. Infine, ci fu uno scenario mozzafiato. Eravamo appena usciti da una galleria ad incredibile altitudine, lanciati a tutta velocità verso la pianura campana. Un abbagliante luccichio dilagava tutto intorno e andava a perdersi ai confini del mondo. Sulle prime ebbi paura. Poi pensai: ‘Il mare! Quella dev’essere la cosa che chiamano mare!’

                                                                                              (Son of Italy)

Quante emozioni deve avere portato quel giorno che lo strappò alla sua terra nel suo cuore di fanciullo: la paura dell’ignoto, mentre tremante di freddo e insonnolito, si separava per sempre da sua madre, un’altra paura, stavolta per l’apparire di un mostro metallico che ruggiva e sbuffava vapore: il treno che lo portava a Napoli, dove lo aspettava il piroscafo per il Nuovo Mondo e, infine, la scoperta del mare, quel luccichio ammaliante che dilagava tutto intorno e che non aveva mai visto.

Non rivide mai più l’Italia e i monti dell’Abruzzo, nè ebbe più le carezze e i baci di sua madre. Mori a soli trentotto anni per una banale occlusione intestinale. Se ne andò così, con la banalità e la noncuranza dei suoi giovani anni, quasi tutti spesi nel Nuovo Mondo, the pick and shovel poet, il poeta con picco e pala.

sabato 15 novembre 2014

Love is like suicide


Love is the first kind of suicide”

said the priestman to the silent bride…

(Love Suicide, Tranzgenic)

 

“L’amore è la prima forma di suicidio” disse il prete alla sposa silenziosa.

Lei sollevò il viso e tirò su dal naso. Aveva gli occhi verdi, notò il sacerdote, arrossati dal pianto. Le lacrime scendevano lente sulle sue gote e liquefacevano il trucco, come una maschera di cera. E rivoli scuri già violavano il bianco vestito nuziale. Si udiva un brusio oltre l’altare. Laggiù, tra le ombre delle navate, i fedeli non osavano esternare il loro stupore, la loro perplessità e, infine, la noia. Essi si contentavano di scambiare commenti sottovoce con il vicino di banco, un bisbiglio, un fiotto di parole veloci nelle orecchie del prossimo, niente di più, ma le voci del niente, a decine, a centinaia, si fondevano in un cupo borbottio, un ronzio d’alveare.

“E ora, che fare?” pensò il prete. Quella era la prima volta che gli capitava una cosa del genere. Certo, era già accaduto che qualche nubendo ci ripensasse e non si presentasse il giorno fatidico e, addirittura, che i dubbi e le perplessità assalissero gli sposi al momento di pronunciare il fatidico sì. Ma erano sempre le spose a piantare i futuri mariti sull’altare, come vecchie cornacchie spelacchiate nei loro impeccabili completi scuri, a beccare ormai inutili e tristi chicchi di riso. Mai, a memoria di prete, la sua infallibile memoria di prete, era capitato che fosse lo sposo a non farsi vedere.

Apollonia, era quello il nome della giovane sposa dal volto liquefatto, singhiozzava in silenzio. Aveva un viso minuto e fresco, che la faceva sembrare quasi una bambina fasciata nel lungo vestito bianco. Un testimone di nozze faceva tintinnare nervosamente le fedi nella tasca dei pantaloni e il suo era un sorriso vacuo e superfluo.

 

Lov is laik suisaaaaid…. ululavano intanto i Tranzgenic alla radio e torturavano le orecchie di un giovane al volante, che cercava di districarsi nel traffico domenicale facendo fischiare le gomme dell’auto. Aveva gli occhi pesti, segno di una notte insonne, l’ennesima e si sentiva un incendio dentro lo stomaco. Era vestito con un completo scuro, elegantissimo, ma i polsini, sguarniti dai gemelli, erano liberi di fluttuare nelle maniche troppo larghe della giacca e dalla camicia sbottonata fuoriusciva un ciuffo scuro di orrendi peli toracici.

Girolamo era in ritardo, maledettamente in ritardo. Era il giorno del suo matrimonio ed era in ritardo. La sera prima aveva avuto luogo l’addio al celibato. Il programma prevedeva che i suoi amici gli pagassero da bere in tutti i bar della città e lo avevano fatto, poi, avevano cantato a squarciagola canzoni oscene per strada e pisciato praticamente dietro ogni albero o siepe che avevano intralciato la loro folle passeggiata. L’unico fuori programma era stato quando gli avevano offerto un coito con l’unica puttana incontrata a quell’ora e fatto il tifo per lui come allo stadio.

Begli amici.

Era rincasato alle sei del mattino, la sbornia era passata, ma gli doleva la testa, un male lancinante, che si riacutizzava ogni volta che pensava che di lì a qualche ora avrebbe dovuto sposarsi. E si che davanti a ogni bicchiere che aveva bevuto, davanti a ogni albero dietro il quale aveva orinato e perfino davanti alla prostituta che aveva inalberato, aveva sempre pensato a lei, soltanto a lei. Apollonia era sempre nei suoi pensieri. Ma era un pensiero strano, a volte gradevole, altre, spiacevole. Sentiva di amarla profondamente, ma gli faceva ribrezzo la sua pelle così chiara e gli occhi, di quella tonalità di verde che gli dava allo stomaco. Poi tornava a pensare a lei con tenerezza ma, subito dopo, tornava a odiarla.

In fondo al viale, si materializzò la sagoma scura e inquietante della cattedrale di San Teodoro. Accelerò, il muso dell’auto si sollevò e la cattedrale prese a ingrandirsi e ad avvicinarsi più velocemente. Più si avvicinava e più premeva il piede sull’acceleratore, più dava gas e più la cattedrale s’ingrandiva e non smise neppure quando l’ebbe superata.

Cosa sto facendo? Si chiese sbalordito, ma invano comandò al piede destro di sollevarsi dall’acceleratore e di pestare sul freno, ma la cattedrale era una sagoma scura e non più inquietante che rimpiccioliva dentro lo specchietto retrovisore.

 

In chiesa faceva caldo. Si era al mese di aprile, ma la primavera era stata molto precoce e già s’intravedevano le dolcezze del cielo di giugno. E, lentamente, madre terra sorgeva, ancora una volta, tra le mura morte di noia della città. Il prete ebbe un lampo di genio, alzò una mano e comandò al coro d’intonare un peana. Ma non era la solita Marcia nuziale di Mendelssohn, o l’Ave Maria di Schubert, si trattava di qualcosa che ricordava stranamente la linea melodica della cucaracha, ma molto più blanda di ritmo. Era indubbiamente una marcia, ma per la sua lentezza, era molto più simile a una marcia funebre, o a un requiem, con il quale gareggiava per solennità e mestizia. Però sortì l’effetto sperato. Il brusìo si placò, i fedeli credettero che lo spettacolo stesse per cominciare e forse lo credette anche la sposa, perché smise di piangere. Ma la marcia non finiva, lo spettacolo non cominciava e ben presto tutti si resero conto che si trattava solo di uno stratagemma per far passare il tempo.

 

Una distesa biancolatte fuggiva rapida a lato della strada. Erano mucche al pascolo. Beate loro, pensò Girolamo, che non dovevano pensare al lavoro, alla casa, al mutuo, al matrimonio, ma solo a ingurgitare quintali e quintali di buona erba e la sera, nella quiete tiepida e vaporosa della stalla, farsi strizzare le tette da una specie di piovra metallica che si nutriva del loro caldo latte e non dovevano mica sposarsi.

Sposarsi? La parola gli provocò un tuffo al cuore e lo precipitò nell’angoscia. Era il giorno del suo matrimonio e si trovava chilometri lontano dalla sposa, dalla cattedrale, dalla città. Controllò l’orologio. Era mezzogiorno. Sicuramente Apollonia era in lacrime, disperata, a chiedersi che fine avesse fatto, e i genitori di lei ad augurarsi che la fine che avesse fatto fosse stata davvero brutta, mentre i suoi genitori, che speravano il contrario, per poco non venivano alle mani con i consuoceri. Gli invitati, ormai sfatti nei loro eleganti vestiti attillati e scomodi, certamente fremevano per prendere la via del portale, ma anche le uscite laterali avrebbero fatto al caso, però, non si arrischiavano a muoversi dal banco per non prendersi la responsabilità di quella fuga che tutti agognavano e che avrebbe messo la parola fine su quel matrimonio. Solo i bambini, che possedevano il dono dell’innocenza ma non ancora quello della pazienza, frignavano annoiati e importunavano tutti i parenti che capitavano loro a tiro: “Mamma, papà, nonno, zia, non si sposano più?” E i familiari interpellati cercavano di zittirli con sorrisi ipocriti e risposte che suonavano sciocche e pretenziose.

Il tempo, in effetti, era passato. Ben venti minuti, tanto era durata la nenia funeral – psichedelica che il prete aveva fatto propinare agli invitati. Ma ora non si poteva più fingere, non si poteva più attendere. Il sacerdote impugnò il microfono e con voce decisa disse: “Signori, il matrimonio è annullato. Questo è tutto. Dio vi benedica” E levò in alto l’indice e il medio uniti. Per un istante restò fermo con le dita in alto, come in una sorta di minaccia, poi le abbassò lentamente, quindi le volse dapprima a destra e poi a sinistra, completando in fretta la benedizione. Si levò ancora un mormorio tra i fedeli, stavolta di soddisfazione. Poi gli invitati sciamarono per il portale e le uscite laterali, lasciandosi dietro un silenzio cupo. Andò via anche il prete. Apollonia rimase sola all’altare.

 

Girolamo non sapeva dove andare, voleva soltanto fuggire via, lontano, via dalla città corrosa dall’ipocrisia della gente perbene, via da quella società putrefatta che si sgretolava senza motivo. E anche la sua vita si stava sbriciolando, come un idolo di pietra abbattuto dal peso della ragione. Intanto il panorama scorreva silenzioso oltre il finestrino. Il vetro si riempì di goccioline, cominciava a piovere. Si sentì un perfetto idiota a vagare nelle campagne senza meta, senza scopo, fuggendo dal nulla, il nulla che era dentro di sè, il nulla che sentiva di essere.

“Sono un fallito” disse tra sé “Fallito come fidanzato, fallito come amante e, anche come marito sono un fallito. Fallito senza neppure aver cominciato.”

Quando era un marmocchio si era messo in testa di diventare scrittore. Voleva scrivere un successo letterario, un romanzo che facesse ridere, che facesse piangere e anche arrabbiare e commuovere.

Bene, ora poteva farlo.

Bastava che scrivesse della sua vita, che faceva ridere, che faceva piangere e anche arrabbiare e, a volte, commuovere. Però, non aveva mai avuto manie di grandezza, non si era mai sentito tanto autorevole e megalomane da permettersi un’autobiografia e ne aveva sempre rimandato la redazione a quando sarebbe stato vecchio. I vecchi sono noiosi, più dei giovani in crisi. E anche megalomani. In ogni caso, se uno vuole diventare scrittore, prima o poi deve pur scrivere e l’unico modo per iniziare a scrivere è scrivere. Ma Girolamo non l’aveva mai fatto.

 

Apollonia non aprì il portale. Lo spalancò letteralmente, pensando di trovarsi davanti una folla di volti e di doverli affrontare.  La luce del giorno tumefatto di pioggia e di nuvole l’abbagliò e quando i suoi occhi si adattarono, vide che non c’era nessuno. Nessuno l’aveva attesa, nessuno aveva aspettato per sussurrarle una parola gentile o per un gesto di conforto, o almeno, per porgerle un ombrello. Neppure i suoi genitori. Bè, quanto a loro, non c’era da farsi illusioni. Era l’ultima arrivata di una famiglia numerosa e si era sempre sentita un’intrusa. Una bocca in più da sfamare, una femmina per giunta, da tirar su in fretta per sbatterla fuori di casa il prima possibile. Suo padre e sua madre avevano accolto la notizia del suo fidanzamento con Girolamo con le lacrime agli occhi. Ma quelli non erano lucciconi di felicità, nelle loro pupille brillava il riflesso dei quattrini. I simboli degli euro, dei dollari e delle sterline giravano vorticosamente nei loro occhi come in una slot machine: erano i bigliettoni che suo padre e sua madre avrebbero risparmiato accollando al futuro marito il suo sostentamento. Da quell’istante avevano atteso con febbrile impazienza il giorno del suo matrimonio. Apollonia aveva il vago sentore che non sarebbe potuta tornare a casa.

Fuori diluviava come se il cielo cadesse a pezzi. Dove andare? Grosse gocce di pioggia la colpirono con il fremito di dita gelide, i capelli le s’inzupparono e la magnifica acconciatura, costata tre ore di torture sulla sedia del parrucchiere, crollò senza gloria. La pioggia punteggiò di macchie più scure il vestito da sposa, Apollonia gettò via il velo, ridotto a un asciugamani bagnato, tirò su con entrambe le mani la gonna e cominciò a camminare.

Non sapeva dove andare, la pioggia non accennava a smettere e iniziava a farsi prendere dallo sconforto, quando la sua attenzione fu richiamata da una gigantografia su un muro, anch’essa solcata da rivoli d’acqua piovana. Nell’immagine, una bottiglia di Southern Comfort vuota a metà, una chitarra elettrica dalla superficie scrostata, una ragazza ripiegata su se stessa, in ginocchio sul pavimento, e non si capiva se vomitasse o inseguisse un sogno con gli occhi aperti, perso, chissà come, tra le mattonelle del pavimento. Sul manifesto campeggiava, a caratteri cubitali, una scritta: LOVE IS LIKE SUICIDE.

 

La ragazza si rimise in piedi. No, decisamente non stava vomitando. Prese la chitarra, si avvicinò al microfono e cominciò a cantare.

Love is the first kind of suicide, said the priestman to the silent bride…

Aveva una voce limpida e seducente. La chitarra spargeva uno strato armonico, un po’ ruvido, che tuttavia non sovrastava la sua voce, anzi, si fondeva magnificamente con essa. Non era blues, ma avrebbe potuto esserlo. Non era rock, ma qualcosa che gli somigliava molto. Girolamo non aveva mai sentito nulla del genere. Era un patito di musica, anzi, la sua passione a volte sconfinava nell’ossessione, ma erano anni che non ascoltava qualcosa di veramente nuovo, qualcosa di originale. I suoni che udiva si nascondevano sotto una densa patina di dejà vu, o meglio, di dejà entendu, tanto da fargli credere che il rock fosse un genere musicale sorpassato e morente. Eppure, una cosa così non l’aveva mai udita. Dunque, asciugandosi gli occhiali maculati di gocce di pioggia, si avvicinò per vedere meglio, per sentire meglio.

Sunday morning and the rain begins to fall…

Aveva scorto un luccicore in fondo alla strada, nel tramonto fosco della sera, si era avvicinato e le luci si erano rivelate l’insegna di un locale, qualcosa a metà strada fra un bar e un ristorante e forse era entrambe le cose, o forse, nessuna di esse. Era uno di quei locali che si trovano all’improvviso in mezzo al nulla, aggrappati a una provinciale qualunque, un ristoro per i viaggiatori, anche se di viaggiatori non se ne vede neanche l’ombra. Solo poveri cristi parcheggiati che attendono la fine del giorno. E la strada da qualche parte viene e da qualche parte va. Si materializza dal nulla, scorre attraverso il nulla e, sempre nel nulla, svanisce.

And I must be an acrobat to talk like this and act like that…

Amore e suicidio, eros e thanatos, due forze antitetiche in perenne conflitto, come un acrobata che sfida la forza di gravità su un filo sottile teso nel vuoto. Ma ora Girolamo vedeva chiaro nel buio della sua indecisione che l’amore e la morte sono due facce della stessa medaglia. Amore è morte, morte è amore. La morte spinge verso l’amore e l’amore spinge verso la morte, all’annullamento del se fra le braccia dell’altra. E, non sapere più chi siamo è come morire.

Girolamo si avvicinò al banco e ordinò un caffè. Un caffè? A quell’ora? In quel luogo? Il barista lo guardò come si guarda un unicorno, ma gli servì il caffè. Girolamo avvicinò la tazzina e intinse le labbra nel liquido nero e oleoso. Aveva un sapore improbabile. E quell’odore di muffa, di chiuso e stantio, che impregnava anche le vesti del barista e la polvere sul bancone e le ragnatele tra le bottiglie dei liquori e anche sui volti dei radi avventori, che lo scrutavano, lo indagavano con curiosità viva, perché, in fondo, loro erano sempre gli stessi, ormai quasi complementi d’arredo, ci si accorgeva di loro solo quando erano assenti, e Girolamo invece no, lui era quello nuovo, il cittadino, il forestiero. E analizzavano ogni suo gesto, lo sondavano per capire se la loro cupa disperazione equivaleva alla sua, se in fondo alla sua anima si annidasse ancora qualche residuo d’umanità che puzzava come la loro.

 

Apollonia trasalì. Qualcuno le aveva toccato una spalla.

“Signora… ehm… signorina…” si corresse.

C’era un uomo davanti a lei, un tipo alto, più del suo Girolamo, con gli occhi scuri, più del suo Girolamo, era bello, molto bello, più del suo Girolamo – o avrebbe dovuto dire Girolamo e basta, senza aggettivi possessivi – e alla sua apparizione la pioggia era cessata.

Apollonia gli sorrise, un po’ imbarazzata, quando si rese conto che il tizio non aveva il potere di fermare la pioggia, ma la sua unica virtù era il possesso di un ombrello. Quell’uomo era bello come un peccato, anzi, di più, era bello come un sogno, e nel sogno udì la sua voce chiederle di sposarlo. I sogni non sono la realtà, ma solo il riflesso di quest’ultima sulle tempeste dell’inconscio, eppure lei arrossì ugualmente alla domanda e si costrinse a tornare al mondo reale.

 

La ragazza smise di cantare e si avvicinò. Girolamo scoprì in quell’istante di avere il testosterone alle stelle. Pensò di avere mal di testa proprio per quello, e anche i testicoli gli dolevano, pieni com’erano di lattescente, sacro seme della vita. A volte i suoi sogni erano popolati dalle femmine più luride e lascive e anche quando vegliava la sua mente era ottenebrata da contorte fantasie sessuali. Il membro si ergeva solo a sfiorarlo e l’antica arte di Onan stentava a placare la fame e la sete. Questa condizione sopraggiungeva una o due volte al mese, e quella sera era una di esse. La ragazza era vicinissima, poteva sentire il suo profumo dolciastro, che non copriva il sentore di ascelle sudate. La sua presenza lo ammaliava e lo turbava, al tempo stesso, e generava in lui un torrente impetuoso, un fiume sul punto di straripare.

Supercalifragilistichespiralisexy fu l’unica parola che gli sbucò fra le labbra e che cercò, invano, di pronunciare.

 

“Vuole sposarmi?” chiese l’uomo bello come un sogno. Però non veniva dall’etereo mondo dei sogni, era una persona in carne e ossa e si chiamava Fausto. “Poiché indossa già l’abito da sposa e c’è una chiesa proprio dietro l’angolo…”

“Non mi prenda in giro, non sono in vena, come potrà immaginare”

Ma era in vena più di quanto non desse a vedere. Difatti, già si asciugava le lacrime, perché quell’uomo era alto ed elegante e le sue mani curate annunciavano una casa calda e accogliente e un florido conto in banca. Ma non fu solo per i soldi che Apollonia si risvegliò nel suo letto, il giorno seguente. La notte era scorsa fluida e senza intoppi, un fiume di dolcezze tra guanciali tiepidi e lenzuola disfatte. Non era stato solo sesso, ma neppure amore. Il modo migliore per ricominciare.

 

“Forse dovresti osare… “ Le sue sopracciglia s’inarcarono due volte, per meglio accentuare quanto stava per aggiungere “… di più”. E sorrise.

Girolamo sorrise a sua volta, ma si smarrì subito nel candore dei suoi denti, arse nel rosso vivo delle sue labbra, la cantante coprofaga, mangiatrice d’uomini, che merda siamo. E intanto ripensò a quel suo amore fasullo, quell’amore farlocco che l’aveva quasi condotto all’altare, quell’amore “sperpero dell’anima nello scempio d’ogni pudore[1] e, al tempo stesso, alla sua morte fra le braccia di un’altra donna, la sua dissoluzione e, infine, la sua assenza. Un non esistere, che era anche peggiore della morte. Uno sperpero, un vero scempio.

Stava per cadere ancora, stava per morire ancora, ma non ne era poi così afflitto. C’è un uccello notturno, non ne ricordava il nome, che crede di rinascere ogni volta che sorge la luna, ma all’alba giace nel suo ultimo sonno. E il suo nome non è Araba Fenice. Si nasce, si vive e si muore, una volta sola. E per quel poco di marito che era stato, una parvenza, un simulacro appena accettabile per le convenzioni sociali, si affrettò a precipitare nell’abisso oscuro di un altro essere umano.

Si risvegliò in un letto umido e disfatto, nella plumbea luce del mattino e lei non c’era più. Come da programma, pensò. Il piano di sopra era un albergo a ore e altri come lui si stavano risvegliando come naufraghi, fuggitivi, evasi per qualche ora dalla cella di un’esistenza decorosa e uniforme come una coltre di neve, creature che per abitudine avrebbero ingurgitato tazzine di caffè bollente scottandosi la gola e addentato di fretta i loro stracchi cornetti surgelati, senza sentirne il gusto, come tutti i giorni, prima di ripartire.

Si rivestì alla meglio, si sciacquò il viso e scese da basso. Lo aspettava la sua dose di caffè bollente per ustionarsi la gola e il cornetto surgelato da sbocconcellare in fretta, prima di svanire anche lui sulla strada del nulla, confuso agli altri viaggiatori. Il barista, gli occhi divorati dal sonno, gli porse un foglietto. C’erano scritti un nome e un numero di telefono. Girolamo lesse, finì il caffè, salutò il barista e lo gettò via. Non aveva alcuna intenzione di morire un’altra volta, di legare a doppio filo la sua vita a quella di una donna.

Eppure, era stato più reale quel sogno di bambola che aveva tenuto tra le braccia e tra le gambe quella notte, di milioni di altre donne in milioni di altre notti che l’avevano preceduta. Ma era giunta l’ora di aprire gli occhi e riprendere il cammino.

Si avviò verso la sua automobile e la raggiunse, degnandola di una sola, breve occhiata, ma continuò a camminare. Incedeva lento sotto la pioggia, dentro il fango viscido, come in un sogno balordo del mattino, untuoso e ambiguo, ma non si fermò. Raggiunse il ciglio della strada, oltrepassò la striscia d’erba ingiallita, ma non si fermò. Non si fermò neppure quando i suoi piedi invasero l’asfalto nero e lucido della provinciale.

Non vide il tir che sopraggiungeva alle sue spalle, non udì l’urlo greve e lacerante del claxon, né l’aspro stridio dei freni. Non sentì nulla.

Nelle sue orecchie riecheggiavano le note di una canzone.

Love is like suicide…

 

COPYRIGHT 2014 ANGELO MEDICI

Tutti i diritti riservati
                                         Riproduzione vietata





[1] William Shakespeare, Sonetto CXXIX.

 

sabato 8 novembre 2014

Avventure marinare



 
Sempre il mare, uomo libero, amerai.
(Charles Baudelaire)
 
 
 
Perché quest’improvvisa fascinazione per il mare? Non è come una scoperta, è piuttosto un ritorno, un riaffiorare di antichi, spenti ricordi. Forse sto diventando vecchio e sento il bisogno di tornare alle acque, là dove tutto ebbe inizio.

Non siamo gente di mare. Le nostre impronte sanno di terra e del fango che resta attaccato sotto le suole delle scarpe. Le nostre impronte sono larghe e pesanti e violentano la terra con rudi scarponi di contadini. I nostri passi non sono eleganti, i nostri piedi non sono abituati a star in equilibrio su assi scricchiolanti d’imbarcazioni e natanti.

Dove vivo non c’è mare, solo una pianura infinita e escrescenze geologiche che chiamano Colli Euganei. La pianura era una volta il fondo del mare e i Colli erano isole. A volte quando corro nella bassa mi viene da pensarci su, soprattutto se c’è nebbia, e m’immagino dentro uno scafandro a correre con grande fatica sui fondali marini. Oppure, sulla superficie, a navigare tra le isole dell’arcipelago.

Se i Colli Euganei fossero isole spuntate nel bel mezzo della notte, ne circumnavigherei le coste alla luce delle stelle. E questa notte saprebbe d’infinito.

Forse la pianura è una donna addormentata nell’acqua e i Colli sono i suoi seni che spuntano dal verde mare dei campi.

E’ sufficiente nascere in una città di mare per essere considerato un uomo di mare?

Io non credo.

Sento che è una pazzia, eppure sono le quattro del mattino, fuori è buio pesto, ma sono già sveglio a chiedermi cosa ci faccio davanti a una tazza di caffè bollente e un bicchiere di succo d’arancia gelato.

La risposta giunge con lo strana mistura di caffè bollente e succo d’arancia gelato, che ingurgito insieme per fare presto. Non ce la faccio più a stare seduto dentro questa cucina buia, scalpito, fremo.

E’ ora d’andare.

Apro la porta di casa. Fuori l’oscurità si stende placida e uniforme sulle cose come un manto nero. Sembra ieri, ma è già oggi.

I fari dell’auto tagliano il buio a grandi fette d’ombra. La strada che conduce al mare è rettilinea e vuota e a un tratto mi sento solo. Ma non è una sensazione spiacevole. Una vettura incrocia il mio passaggio. Un contadino mattiniero, ragazzi che tornano dalla discoteca, o forse solo qualcuno che non riesce a dormire e cerca una giustificazione per il sonno che non viene a ingannarlo con la nebbia oscura dei sogni.

Senza preavviso, da un’oscurità che non sa di notte, mi ritrovo sul lungomare illuminato. Coni di luce inondano di gialle pozze le auto parcheggiate. Osservo ogni anfratto, ogni cassonetto della spazzatura, ogni gatto randagio e l’ombra degli oleandri sull’asfalto è scura e rassicurante.   Parcheggio e apro il finestrino. L’aria umida e pesante prende il posto dell’aria secca dell’abitacolo e mi rinfresca il volto. Il mare è nero e rumoreggia poco oltre la striscia di sabbia. Mi vengono i brividi.

La spiaggia è buia e deserta, ma manca circa mezz’ora al sorgere del sole, che illuminerà la mia prima rotta solitaria. Il tempo delle effemeridi, così mi hanno insegnato al corso, è l’ultimo scampolo di tenebre prima del giorno.

Vado avanti e dietro più volte, dall’auto alla spiaggia, all’andata sovraccarico come un mulo delle più stravaganti carabattole marinare, torno alla spiaggia carico solo dei miei sogni. Finalmente, il bagagliaio è stato svuotato. Davanti a me e al mare c’è un mucchio di materiale che mi arriva quasi al petto. La barca sul fondo, il motore, taniche di benzina e latte d’olio, corde, ehm... cime per ormeggio, cime d’ancora e cime di riserva e poi, drizze e scotte e sartie. Un giubbotto salvagente, un giubbotto salvagente di riserva e un altro giubbotto salvagente, riserva della riserva. E poi, razzi di segnalazione, trombe di avviso e fumogeni, manco fossi allo stadio. Mi fermo a guardare il mucchio scuro e silenzioso. Sembra quel che resta di un naufragio.

Il mio.

Il mare mi lambisce i piedi e pare voglia prendersi gioco di me. Forza e coraggio, c’è ancora tanto lavoro da fare. Mi rimbocco le maniche e mi metto all’opera.  

Sono stanco e sudato, ma la barca è pronta, proprio mentre sorge il sole. Mi attacco alla cima di prora e la traino fino al mare. L’acqua fredda e scura mi bagna i piedi e le caviglie. E’ gelida. Avanzo ancora, fino a quando l’acqua mi arriva alla cintola e la mia imbarcazione comincia a galleggiare. E’ un momento emozionante, è l’inizio del viaggio. Monto a bordo, insieme capitano, mozzo e passeggero e inizio a remare per prendere il largo. Mi sento un deficiente a remare come un forsennato, quando ho un motore che mi ci porterebbe in pochi minuti. In acqua non c’è nessuno, chi è che controlla se sono già a trecento metri regolamentari dalla spiaggia o non ancora? Sono stanco, remare è un affare per veri marinai. Mi decido e agguanto la corda d’accensione. E se il motore non partisse? Proprio ora che ci siamo! Dovrei rifarmi il percorso inverso a remi. Sono sudato come dentro una sauna e sono già spossato.

Il motore parte al primo colpo, che bello sentirlo rombare ritmico e regolare. M’ero mentalmente preparato una sfilza di bestemmie e imprecazioni contro il dio del mare, ma le accantono, non sono state necessarie. Apro il gas e incominciamo davvero a navigare.

Da dietro la diga foranea sbuca l’imbarcazione della Guardia Costiera. Mi viene un tuffo al cuore. Mi hanno visto accendere il motore entro la fascia di sicurezza e ora sono guai. Ma dal battello mi guardano appena, un breve cenno di saluto dell’uomo al timone e vanno via placidi, senza fretta.

Io punto decisamente verso il largo. Le onde hanno un periodo più lungo, qualche spruzzo mi raggiunge mentre sono impegnato con le manovre. Stimo di essere a un miglio circa dalla terra e metto la barca in rotta. Volgo la barra a levante e la poppa segue il moto rotatorio. Subito dopo lo fa anche la prua, compiendo un ampio arco di cerchio verso ponente. Ecco, ancora qualche piccola correzione di rotta e navighiamo paralleli alla costa.

E’ facile tenere la rotta. Se ho la terra a destra e il mare a sinistra, sto andando a sud. Finchè mantengo il contatto visivo con il litorale è impossibile sbagliarsi, mi sento sicuro per la presenza di quella sottile linea verde, un lembo di costa bassa che si distende su tutto l’orizzonte occidentale, mi sembra quasi di poterla toccare. In caso di problemi, un breve colpetto al timone e in poco tempo toccherei terra.

Il mare è calmo, l’atmosfera tranquilla e mi sto rilassando. Ma è meglio non perdere la concentrazione e mantenere la barra dritta, come si dice. E anche gli occhi aperti, e… il culo stretto, perché non si sa mai. Il fato potrebbe riservarmi qualche sorpresa. Magari, una bella sirena viene a stendersi mezza nuda sulla prua del mio naviglio, ammaliandomi con il suo canto.

O un sireno.

Ora capisco il consiglio di tenere il culo stretto. Bè per come ho la strizza oggi, tutto solo in mezzo al mare, dal mio sfintere non passerebbe neppure la cruna di un ago, mmm… Non erano i cammelli a non passare per la cruna degli aghi? Oggi, tra onde, punti cardinali, aghi, cammelli e sfinteri, non c’è che l’imbarazzo della scelta per creare confusione.

E, se invece, incontrassi una selkie? Mi rendo conto che a queste latitudini sarebbe alquanto improbabile imbattersi nella protagonista di numerose leggende delle Isole Orcadi, ma per una bella come la mitica Ondine, farei volentieri un sogno a occhi aperti, un volo pindarico tra i flutti marini abbracciato a lei.

Secondo le leggende nordiche, la selkie è una foca che si è trasformata in donna per far innamorare i marinai col suo canto dolce e ammaliatore, ma dopo aver giaciuto col prescelto per una notte, riassume il suo aspetto di sirenide e scivola via tra le acque bagnate di luna piena, lasciandosi dietro solo un letto bagnato di lacrime. Quelle del derelitto marinaio dal cuore straziato, o le sue. Ma pare che ci sia un modo per trattenerle a terra. Se si sotterra il manto di foca del quale si spogliano per assumere sembianze umane, non torneranno mai più al mare.

Sono solo in mezzo ai flutti e mi rendo conto che ho davvero tanto da imparare. Ma non posso affidarmi al mare. Come dice Erri De Luca, "Sul mare non è come a scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare e ci stai tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua." Come un novizio, spero d’imparare presto, prima di andare a fare compagnia ai pesci.

Sospeso sull’abisso, a volteggiare sulle acque trasparenti con il mio fragile guscio di noce, m’afferra il cuore uno sgomento e sprofondo in un vago senso di vertigine al pensiero che se l’acqua si prosciugasse di colpo, precipiterei sul fondo, trenta metri più in basso. E’ solo acqua e sale, ma è profondo, è molto profondo. Ma non accade, l’acqua mi sostiene e non è un miracolo il principio di Archimede.

Nella solitudine delle acque nascono le leggende più spaventose, però i mostri marini non sorgono dal fondo dell’oceano, ma dalle profondità della nostra anima.

A proposito di abissi e mostri marini, mi vengono in mente quei versi dell’Eneide sui due serpenti. Come fanno?

Ah ecco, ora ricordo.

Sul profondo e calmo mare,

            incombono due serpenti con immense volute.

E poi, come continua? Ah si!

I petti irti tra i flutti e le creste sanguigne sovrastano le onde.

Mentre il resto del loro corpo si snoda a fior d'acqua,

uno di essi ora mi avvinghia la vita due volte

e mi opprime col doppio nodo del suo amore

e io mi sforzo di svellere il suo nodo.

Virgilio, sei un grande. Devo ricomprarmi l’Eneide. Credo che nelle case italiane ci siano più Bibbie e Vangeli che Eneidi e Odissee e i risultati si vedono, la poesia, il classicismo, la mitologia finiscono nel pattume e nessuno più le cerca. E poi, i pagani siamo noi!

Scruto l’orizzonte, ma di serpenti marini e creste sanguigne neanche l’ombra. Mi dispiace Virgilio, ma credo che oggi non sia la tua giornata. In compenso, al posto dei serpenti si avvicinano due pescherecci mantenendo rotte parallele. A separare i natanti, ci sarà una via d’acqua, si e no, di cinquecento metri, ops… in mare si usano le miglia e non i metri, quindi, mi correggo e stimo un quarto di miglio. Solo che ora mi sono agitato e non ricordo più la precedenza, ops… ancora un errore! In strada c’è la precedenza, in mare le regole per prevenire gli abbordi.

Per fortuna, mi viene in mente che in una situazione del genere, ognuno di noi deve mantenere la rotta. Le rotte sono parallele e non s’intersecano, ergo, non c’è rischio di collisione. La mia barca scivola silenziosamente tra i due pescherecci, mentre incrocio le dita sperando di averci preso. Prima da una barca, poi dall’altra a dritta si levano in alto bianche palme in segno di saluto. Saluto a mia volta, felice. Ci ho imbroccato e ne vado fiero.

I pescherecci spariscono alle mie spalle, anzi, dovevo dire a poppa e mi ritrovo, ancora solo, sul profondo e calmo mare. Mi è venuta voglia di galoppare un po’ sulle onde. Apro con decisione la manetta. Ora andiamo più veloci.

La prua fende il mare, che s’increspa appena. Controllo la scia che mi lascio dietro, una gigantesca V bianca e piatta che incido sulla pelle delle onde. Dalla forza del vento che mi sbatte sulla faccia, giudico che venti nodi ci sono tutti. Con un discreto sobbalzo – sembra un calcio sferrato sotto lo scafo – e una decisa deriva a est, mi accorgo della foce dell’Adige. Il flusso d’acqua dolce è largo e si avverte in anticipo rispetto alla parentesi d’acqua del fiume che interrompe il profilo della costa. Si scorge nitida la terra da qui, a due miglia al largo.

Riprendo subito il controllo e correggo la rotta. E’ come se un fiume sotterraneo scorresse sotto il mare, la corrente è forte e mi sospinge al largo. Il mare è subdolo e ingannatore e vuole portarmi dove dice lui. Ecco perché si consiglia: mantenere la barra dritta. Ma io sono nuovo e lui se n’è accorto, sa che può ingannarmi facilmente. Vedrai, mi ha avvertito un amico, vedrai, oltre i venti metri di profondità il mare cambia, te ne accorgerai. Me ne sono accorto, infatti. Le onde rinforzano, non è tempesta, ma gli spruzzi mi bagnano il volto e i capelli. Eppure, di tutto questo sulla terra non v’è traccia. E’ tutto calmo e tranquillo e la riva sembra addormentata.
Che fare? Invertire la rotta e rifugiarmi nelle acque sicure del porto? Da qui saranno sì e no un’ora scarsa di navigazione. Se invece continuo, tra un po’ compariranno le secche davanti a Porto Caleri e l’acqua bassa frenerà l’impeto del mare, regalandomi una navigazione più tranquilla. Decido di proseguire, non voglio arrendermi troppo presto in questa prima uscita in solitario. Se dovesse mettersi al brutto potrò sempre infilarmi nella laguna e attendere che passi per tornare indietro, o chiamare qualcuno che mi venga a prendere. Ma, se il motore si piantasse? Di sicuro con questo tempo non ce la farei a tornare a terra a remi, sono due miglia, quasi quattro chilometri di onde e correnti, resterei per sempre al largo, mi ritroveranno tra una settimana in Croazia. Ma il motore ronza sicuro e affidabile, sembra chiedermi: perché dovrei piantarmi? col suo gambo lungo e affilato, alla cui estremità l’elica scintillante batte l’acqua sorniona e regolare, come uno che sa il fatto suo. E’ deciso, si va avanti. Manca poco ormai, tra poco vedrò le dune bianche e deserte e sarà il momento d’invertire la rotta e tornare a casa.
 
 

Un’onda mi esplode in faccia all’improvviso. Il mare è forte e me lo ricorda ogni momento. E ogni momento mi può sbattere a calci fuori dalle sue acque, come un impudente moscerino che abbia osato violare il suo regno, e fare di me un naufrago. Lecco dalle labbra il suo dono salino, sapido e pungente che m’invade la bocca, è un sapore primordiale.

Ci sono tre specie di uomini: quelli vivi, quelli morti e quelli che vanno per mare”. Questa frase non so chi l’abbia scritta, ma mi piace, la sento mia. Ecco, a terra non mi sentivo del tutto vivo, quasi un ondivago zombie a cavalcioni tra la vita e la morte, ma oggi che vado per mare non ho la mente ottenebrata dall’odio, dalle delusioni, dall’amarezza e dai sensi di colpa, oggi in mezzo al mare sono ineluttabilmente vivo.

L’acqua gorgoglia dietro la poppa, il vento sta cambiando. E’ quasi tempesta, ma mi sento vivo. Il vento rinforza, da che parte andare? Mi pare che spiri dal mare, se mi metto poppa al vento mi condurrà a terra senza che me ne accorga, se invece continuo a tenere una rotta parallela alla costa sarà difficile navigare, il mio fragile vascello scarroccerà per la forza del mare e scadrà al vento. Sarà arduo mantenere la rotta. Già, ma che direzione conviene seguire? Cerco di richiamare alla mente la rosa dei venti, però non mi è di aiuto. Ma in quel momento, sopravviene un’altra riflessione, quella del famoso marinaio di Seneca, per il quale nessun vento era favorevole, perché non sapeva dove andare. Ma io non farò come il marinaio di Seneca, ora so dove andare. Verso il porto. Il mare ha rinforzato troppo, meglio rientrare.

La barca ballonzola sulle onde, vi si arrampica e ne ridiscende agile, ma già un’altra è da presso, pronta a sferrare il suo liquido attacco. Il vento scompone le onde e bianca spuma risale il profilo dei flutti e si scontra in alto col livido del cielo opaco, che si sta chiudendo sopra la mia testa. Il mare è, a tratti, grigio e verde scuro e in esso si specchia la pesantezza del cielo.

E come quando partivamo per la Cina

Gli occhi fissi al largo e i capelli al vento

C’imbarcheremo sul Mare delle Tenebre

Col cuore allegro di un passeggero giovane.

Credo che se Baudelaire non avesse fatto il poeta, sarebbe stato un marinaio. Di sicuro, però, se ne intendeva di tenebre e tempeste.

Il cielo s’apre e si chiude, come se Dio stesse strizzando una spugna. Le nuvole cavalcano veloci sulle onde e superano con facilità la mia barchetta. Quando il cielo si apre, il sole scaglia dardi accecanti sulla superficie delle acque. Quando si richiude, l’ombra è netta e definitiva come il coperchio di una tomba.

Non la mia.

Non fioriscono rose sulla tomba del marinaio, l’unico ornamento sono il battito d’ali di bianchi gabbiani e la lacrima che una fanciulla ha pianto.

Davanti a me la lunga linea grigia del porto. E la città distesa al sole. Emerge dalle acque insieme alla fine di questo primo viaggio. Non sono le bianche mura di Odessa, ma va più che bene. Penso di essermi meritato il panino, oggi. Lo ripesco dal gavone di prua, dove l’avevo riposto tra la cima dell’ancora e i razzi di segnalazione e lo addento. Sa di sale. Nel fondo del gavone ci sono due dita d’acqua. Non andrò certo a fondo, questa barca è garantita inaffondabile, ma vedere l’acqua sporca, quasi nera, che ha invaso il fondo della mia piccola nave, che sono ancora tra i flutti, mi dà i brividi.

Il sole è alto e nel riflesso del mare si scompone in migliaia di frammenti, come fossero schegge di vetro. Si sbarca, il viaggio è finito. Ormeggio la mia bagnarola e metto piede a terra. Provo una strana sensazione, quasi quasi, mi sentivo meglio prima. Al largo, tra le onde, mi ero abituato al loro dondolio e la terraferma mi sembra di colpo troppo ferma e stabile. Mi volto a guardare la barca e mi si chiude lo stomaco, se penso che l’ho condotta in mezzo al mare, io, da solo. E’ così piccola e fragile, che anche un’onda minuscola la può rovesciare, ma è la mia e mi rattrista abbandonarla nelle acque livide del porto. In quel momento mi sgorgano dal cuore altri versi.

Tutto quello che chiedo è una piccola nave

e una stella per fare la rotta.

Neppure in questo caso mi ricordo di chi sono, però mi accorgo all’improvviso che la mia piccola nave non ha ancora un nome. Mi piacerebbe darle un nome di donna, un nome grazioso e ricercato, così che possa ergersi impettita come una polena sulle onde e fendere col suo petto i flutti, una dama che danza sulle acque.

Credo che Ondine sarebbe un nome appropriato.

 

COPYRIGHT 2013 ANGELO MEDICI

Tutti i diritti riservati

Riproduzione vietata