sabato 15 novembre 2014

Love is like suicide


Love is the first kind of suicide”

said the priestman to the silent bride…

(Love Suicide, Tranzgenic)

 

“L’amore è la prima forma di suicidio” disse il prete alla sposa silenziosa.

Lei sollevò il viso e tirò su dal naso. Aveva gli occhi verdi, notò il sacerdote, arrossati dal pianto. Le lacrime scendevano lente sulle sue gote e liquefacevano il trucco, come una maschera di cera. E rivoli scuri già violavano il bianco vestito nuziale. Si udiva un brusio oltre l’altare. Laggiù, tra le ombre delle navate, i fedeli non osavano esternare il loro stupore, la loro perplessità e, infine, la noia. Essi si contentavano di scambiare commenti sottovoce con il vicino di banco, un bisbiglio, un fiotto di parole veloci nelle orecchie del prossimo, niente di più, ma le voci del niente, a decine, a centinaia, si fondevano in un cupo borbottio, un ronzio d’alveare.

“E ora, che fare?” pensò il prete. Quella era la prima volta che gli capitava una cosa del genere. Certo, era già accaduto che qualche nubendo ci ripensasse e non si presentasse il giorno fatidico e, addirittura, che i dubbi e le perplessità assalissero gli sposi al momento di pronunciare il fatidico sì. Ma erano sempre le spose a piantare i futuri mariti sull’altare, come vecchie cornacchie spelacchiate nei loro impeccabili completi scuri, a beccare ormai inutili e tristi chicchi di riso. Mai, a memoria di prete, la sua infallibile memoria di prete, era capitato che fosse lo sposo a non farsi vedere.

Apollonia, era quello il nome della giovane sposa dal volto liquefatto, singhiozzava in silenzio. Aveva un viso minuto e fresco, che la faceva sembrare quasi una bambina fasciata nel lungo vestito bianco. Un testimone di nozze faceva tintinnare nervosamente le fedi nella tasca dei pantaloni e il suo era un sorriso vacuo e superfluo.

 

Lov is laik suisaaaaid…. ululavano intanto i Tranzgenic alla radio e torturavano le orecchie di un giovane al volante, che cercava di districarsi nel traffico domenicale facendo fischiare le gomme dell’auto. Aveva gli occhi pesti, segno di una notte insonne, l’ennesima e si sentiva un incendio dentro lo stomaco. Era vestito con un completo scuro, elegantissimo, ma i polsini, sguarniti dai gemelli, erano liberi di fluttuare nelle maniche troppo larghe della giacca e dalla camicia sbottonata fuoriusciva un ciuffo scuro di orrendi peli toracici.

Girolamo era in ritardo, maledettamente in ritardo. Era il giorno del suo matrimonio ed era in ritardo. La sera prima aveva avuto luogo l’addio al celibato. Il programma prevedeva che i suoi amici gli pagassero da bere in tutti i bar della città e lo avevano fatto, poi, avevano cantato a squarciagola canzoni oscene per strada e pisciato praticamente dietro ogni albero o siepe che avevano intralciato la loro folle passeggiata. L’unico fuori programma era stato quando gli avevano offerto un coito con l’unica puttana incontrata a quell’ora e fatto il tifo per lui come allo stadio.

Begli amici.

Era rincasato alle sei del mattino, la sbornia era passata, ma gli doleva la testa, un male lancinante, che si riacutizzava ogni volta che pensava che di lì a qualche ora avrebbe dovuto sposarsi. E si che davanti a ogni bicchiere che aveva bevuto, davanti a ogni albero dietro il quale aveva orinato e perfino davanti alla prostituta che aveva inalberato, aveva sempre pensato a lei, soltanto a lei. Apollonia era sempre nei suoi pensieri. Ma era un pensiero strano, a volte gradevole, altre, spiacevole. Sentiva di amarla profondamente, ma gli faceva ribrezzo la sua pelle così chiara e gli occhi, di quella tonalità di verde che gli dava allo stomaco. Poi tornava a pensare a lei con tenerezza ma, subito dopo, tornava a odiarla.

In fondo al viale, si materializzò la sagoma scura e inquietante della cattedrale di San Teodoro. Accelerò, il muso dell’auto si sollevò e la cattedrale prese a ingrandirsi e ad avvicinarsi più velocemente. Più si avvicinava e più premeva il piede sull’acceleratore, più dava gas e più la cattedrale s’ingrandiva e non smise neppure quando l’ebbe superata.

Cosa sto facendo? Si chiese sbalordito, ma invano comandò al piede destro di sollevarsi dall’acceleratore e di pestare sul freno, ma la cattedrale era una sagoma scura e non più inquietante che rimpiccioliva dentro lo specchietto retrovisore.

 

In chiesa faceva caldo. Si era al mese di aprile, ma la primavera era stata molto precoce e già s’intravedevano le dolcezze del cielo di giugno. E, lentamente, madre terra sorgeva, ancora una volta, tra le mura morte di noia della città. Il prete ebbe un lampo di genio, alzò una mano e comandò al coro d’intonare un peana. Ma non era la solita Marcia nuziale di Mendelssohn, o l’Ave Maria di Schubert, si trattava di qualcosa che ricordava stranamente la linea melodica della cucaracha, ma molto più blanda di ritmo. Era indubbiamente una marcia, ma per la sua lentezza, era molto più simile a una marcia funebre, o a un requiem, con il quale gareggiava per solennità e mestizia. Però sortì l’effetto sperato. Il brusìo si placò, i fedeli credettero che lo spettacolo stesse per cominciare e forse lo credette anche la sposa, perché smise di piangere. Ma la marcia non finiva, lo spettacolo non cominciava e ben presto tutti si resero conto che si trattava solo di uno stratagemma per far passare il tempo.

 

Una distesa biancolatte fuggiva rapida a lato della strada. Erano mucche al pascolo. Beate loro, pensò Girolamo, che non dovevano pensare al lavoro, alla casa, al mutuo, al matrimonio, ma solo a ingurgitare quintali e quintali di buona erba e la sera, nella quiete tiepida e vaporosa della stalla, farsi strizzare le tette da una specie di piovra metallica che si nutriva del loro caldo latte e non dovevano mica sposarsi.

Sposarsi? La parola gli provocò un tuffo al cuore e lo precipitò nell’angoscia. Era il giorno del suo matrimonio e si trovava chilometri lontano dalla sposa, dalla cattedrale, dalla città. Controllò l’orologio. Era mezzogiorno. Sicuramente Apollonia era in lacrime, disperata, a chiedersi che fine avesse fatto, e i genitori di lei ad augurarsi che la fine che avesse fatto fosse stata davvero brutta, mentre i suoi genitori, che speravano il contrario, per poco non venivano alle mani con i consuoceri. Gli invitati, ormai sfatti nei loro eleganti vestiti attillati e scomodi, certamente fremevano per prendere la via del portale, ma anche le uscite laterali avrebbero fatto al caso, però, non si arrischiavano a muoversi dal banco per non prendersi la responsabilità di quella fuga che tutti agognavano e che avrebbe messo la parola fine su quel matrimonio. Solo i bambini, che possedevano il dono dell’innocenza ma non ancora quello della pazienza, frignavano annoiati e importunavano tutti i parenti che capitavano loro a tiro: “Mamma, papà, nonno, zia, non si sposano più?” E i familiari interpellati cercavano di zittirli con sorrisi ipocriti e risposte che suonavano sciocche e pretenziose.

Il tempo, in effetti, era passato. Ben venti minuti, tanto era durata la nenia funeral – psichedelica che il prete aveva fatto propinare agli invitati. Ma ora non si poteva più fingere, non si poteva più attendere. Il sacerdote impugnò il microfono e con voce decisa disse: “Signori, il matrimonio è annullato. Questo è tutto. Dio vi benedica” E levò in alto l’indice e il medio uniti. Per un istante restò fermo con le dita in alto, come in una sorta di minaccia, poi le abbassò lentamente, quindi le volse dapprima a destra e poi a sinistra, completando in fretta la benedizione. Si levò ancora un mormorio tra i fedeli, stavolta di soddisfazione. Poi gli invitati sciamarono per il portale e le uscite laterali, lasciandosi dietro un silenzio cupo. Andò via anche il prete. Apollonia rimase sola all’altare.

 

Girolamo non sapeva dove andare, voleva soltanto fuggire via, lontano, via dalla città corrosa dall’ipocrisia della gente perbene, via da quella società putrefatta che si sgretolava senza motivo. E anche la sua vita si stava sbriciolando, come un idolo di pietra abbattuto dal peso della ragione. Intanto il panorama scorreva silenzioso oltre il finestrino. Il vetro si riempì di goccioline, cominciava a piovere. Si sentì un perfetto idiota a vagare nelle campagne senza meta, senza scopo, fuggendo dal nulla, il nulla che era dentro di sè, il nulla che sentiva di essere.

“Sono un fallito” disse tra sé “Fallito come fidanzato, fallito come amante e, anche come marito sono un fallito. Fallito senza neppure aver cominciato.”

Quando era un marmocchio si era messo in testa di diventare scrittore. Voleva scrivere un successo letterario, un romanzo che facesse ridere, che facesse piangere e anche arrabbiare e commuovere.

Bene, ora poteva farlo.

Bastava che scrivesse della sua vita, che faceva ridere, che faceva piangere e anche arrabbiare e, a volte, commuovere. Però, non aveva mai avuto manie di grandezza, non si era mai sentito tanto autorevole e megalomane da permettersi un’autobiografia e ne aveva sempre rimandato la redazione a quando sarebbe stato vecchio. I vecchi sono noiosi, più dei giovani in crisi. E anche megalomani. In ogni caso, se uno vuole diventare scrittore, prima o poi deve pur scrivere e l’unico modo per iniziare a scrivere è scrivere. Ma Girolamo non l’aveva mai fatto.

 

Apollonia non aprì il portale. Lo spalancò letteralmente, pensando di trovarsi davanti una folla di volti e di doverli affrontare.  La luce del giorno tumefatto di pioggia e di nuvole l’abbagliò e quando i suoi occhi si adattarono, vide che non c’era nessuno. Nessuno l’aveva attesa, nessuno aveva aspettato per sussurrarle una parola gentile o per un gesto di conforto, o almeno, per porgerle un ombrello. Neppure i suoi genitori. Bè, quanto a loro, non c’era da farsi illusioni. Era l’ultima arrivata di una famiglia numerosa e si era sempre sentita un’intrusa. Una bocca in più da sfamare, una femmina per giunta, da tirar su in fretta per sbatterla fuori di casa il prima possibile. Suo padre e sua madre avevano accolto la notizia del suo fidanzamento con Girolamo con le lacrime agli occhi. Ma quelli non erano lucciconi di felicità, nelle loro pupille brillava il riflesso dei quattrini. I simboli degli euro, dei dollari e delle sterline giravano vorticosamente nei loro occhi come in una slot machine: erano i bigliettoni che suo padre e sua madre avrebbero risparmiato accollando al futuro marito il suo sostentamento. Da quell’istante avevano atteso con febbrile impazienza il giorno del suo matrimonio. Apollonia aveva il vago sentore che non sarebbe potuta tornare a casa.

Fuori diluviava come se il cielo cadesse a pezzi. Dove andare? Grosse gocce di pioggia la colpirono con il fremito di dita gelide, i capelli le s’inzupparono e la magnifica acconciatura, costata tre ore di torture sulla sedia del parrucchiere, crollò senza gloria. La pioggia punteggiò di macchie più scure il vestito da sposa, Apollonia gettò via il velo, ridotto a un asciugamani bagnato, tirò su con entrambe le mani la gonna e cominciò a camminare.

Non sapeva dove andare, la pioggia non accennava a smettere e iniziava a farsi prendere dallo sconforto, quando la sua attenzione fu richiamata da una gigantografia su un muro, anch’essa solcata da rivoli d’acqua piovana. Nell’immagine, una bottiglia di Southern Comfort vuota a metà, una chitarra elettrica dalla superficie scrostata, una ragazza ripiegata su se stessa, in ginocchio sul pavimento, e non si capiva se vomitasse o inseguisse un sogno con gli occhi aperti, perso, chissà come, tra le mattonelle del pavimento. Sul manifesto campeggiava, a caratteri cubitali, una scritta: LOVE IS LIKE SUICIDE.

 

La ragazza si rimise in piedi. No, decisamente non stava vomitando. Prese la chitarra, si avvicinò al microfono e cominciò a cantare.

Love is the first kind of suicide, said the priestman to the silent bride…

Aveva una voce limpida e seducente. La chitarra spargeva uno strato armonico, un po’ ruvido, che tuttavia non sovrastava la sua voce, anzi, si fondeva magnificamente con essa. Non era blues, ma avrebbe potuto esserlo. Non era rock, ma qualcosa che gli somigliava molto. Girolamo non aveva mai sentito nulla del genere. Era un patito di musica, anzi, la sua passione a volte sconfinava nell’ossessione, ma erano anni che non ascoltava qualcosa di veramente nuovo, qualcosa di originale. I suoni che udiva si nascondevano sotto una densa patina di dejà vu, o meglio, di dejà entendu, tanto da fargli credere che il rock fosse un genere musicale sorpassato e morente. Eppure, una cosa così non l’aveva mai udita. Dunque, asciugandosi gli occhiali maculati di gocce di pioggia, si avvicinò per vedere meglio, per sentire meglio.

Sunday morning and the rain begins to fall…

Aveva scorto un luccicore in fondo alla strada, nel tramonto fosco della sera, si era avvicinato e le luci si erano rivelate l’insegna di un locale, qualcosa a metà strada fra un bar e un ristorante e forse era entrambe le cose, o forse, nessuna di esse. Era uno di quei locali che si trovano all’improvviso in mezzo al nulla, aggrappati a una provinciale qualunque, un ristoro per i viaggiatori, anche se di viaggiatori non se ne vede neanche l’ombra. Solo poveri cristi parcheggiati che attendono la fine del giorno. E la strada da qualche parte viene e da qualche parte va. Si materializza dal nulla, scorre attraverso il nulla e, sempre nel nulla, svanisce.

And I must be an acrobat to talk like this and act like that…

Amore e suicidio, eros e thanatos, due forze antitetiche in perenne conflitto, come un acrobata che sfida la forza di gravità su un filo sottile teso nel vuoto. Ma ora Girolamo vedeva chiaro nel buio della sua indecisione che l’amore e la morte sono due facce della stessa medaglia. Amore è morte, morte è amore. La morte spinge verso l’amore e l’amore spinge verso la morte, all’annullamento del se fra le braccia dell’altra. E, non sapere più chi siamo è come morire.

Girolamo si avvicinò al banco e ordinò un caffè. Un caffè? A quell’ora? In quel luogo? Il barista lo guardò come si guarda un unicorno, ma gli servì il caffè. Girolamo avvicinò la tazzina e intinse le labbra nel liquido nero e oleoso. Aveva un sapore improbabile. E quell’odore di muffa, di chiuso e stantio, che impregnava anche le vesti del barista e la polvere sul bancone e le ragnatele tra le bottiglie dei liquori e anche sui volti dei radi avventori, che lo scrutavano, lo indagavano con curiosità viva, perché, in fondo, loro erano sempre gli stessi, ormai quasi complementi d’arredo, ci si accorgeva di loro solo quando erano assenti, e Girolamo invece no, lui era quello nuovo, il cittadino, il forestiero. E analizzavano ogni suo gesto, lo sondavano per capire se la loro cupa disperazione equivaleva alla sua, se in fondo alla sua anima si annidasse ancora qualche residuo d’umanità che puzzava come la loro.

 

Apollonia trasalì. Qualcuno le aveva toccato una spalla.

“Signora… ehm… signorina…” si corresse.

C’era un uomo davanti a lei, un tipo alto, più del suo Girolamo, con gli occhi scuri, più del suo Girolamo, era bello, molto bello, più del suo Girolamo – o avrebbe dovuto dire Girolamo e basta, senza aggettivi possessivi – e alla sua apparizione la pioggia era cessata.

Apollonia gli sorrise, un po’ imbarazzata, quando si rese conto che il tizio non aveva il potere di fermare la pioggia, ma la sua unica virtù era il possesso di un ombrello. Quell’uomo era bello come un peccato, anzi, di più, era bello come un sogno, e nel sogno udì la sua voce chiederle di sposarlo. I sogni non sono la realtà, ma solo il riflesso di quest’ultima sulle tempeste dell’inconscio, eppure lei arrossì ugualmente alla domanda e si costrinse a tornare al mondo reale.

 

La ragazza smise di cantare e si avvicinò. Girolamo scoprì in quell’istante di avere il testosterone alle stelle. Pensò di avere mal di testa proprio per quello, e anche i testicoli gli dolevano, pieni com’erano di lattescente, sacro seme della vita. A volte i suoi sogni erano popolati dalle femmine più luride e lascive e anche quando vegliava la sua mente era ottenebrata da contorte fantasie sessuali. Il membro si ergeva solo a sfiorarlo e l’antica arte di Onan stentava a placare la fame e la sete. Questa condizione sopraggiungeva una o due volte al mese, e quella sera era una di esse. La ragazza era vicinissima, poteva sentire il suo profumo dolciastro, che non copriva il sentore di ascelle sudate. La sua presenza lo ammaliava e lo turbava, al tempo stesso, e generava in lui un torrente impetuoso, un fiume sul punto di straripare.

Supercalifragilistichespiralisexy fu l’unica parola che gli sbucò fra le labbra e che cercò, invano, di pronunciare.

 

“Vuole sposarmi?” chiese l’uomo bello come un sogno. Però non veniva dall’etereo mondo dei sogni, era una persona in carne e ossa e si chiamava Fausto. “Poiché indossa già l’abito da sposa e c’è una chiesa proprio dietro l’angolo…”

“Non mi prenda in giro, non sono in vena, come potrà immaginare”

Ma era in vena più di quanto non desse a vedere. Difatti, già si asciugava le lacrime, perché quell’uomo era alto ed elegante e le sue mani curate annunciavano una casa calda e accogliente e un florido conto in banca. Ma non fu solo per i soldi che Apollonia si risvegliò nel suo letto, il giorno seguente. La notte era scorsa fluida e senza intoppi, un fiume di dolcezze tra guanciali tiepidi e lenzuola disfatte. Non era stato solo sesso, ma neppure amore. Il modo migliore per ricominciare.

 

“Forse dovresti osare… “ Le sue sopracciglia s’inarcarono due volte, per meglio accentuare quanto stava per aggiungere “… di più”. E sorrise.

Girolamo sorrise a sua volta, ma si smarrì subito nel candore dei suoi denti, arse nel rosso vivo delle sue labbra, la cantante coprofaga, mangiatrice d’uomini, che merda siamo. E intanto ripensò a quel suo amore fasullo, quell’amore farlocco che l’aveva quasi condotto all’altare, quell’amore “sperpero dell’anima nello scempio d’ogni pudore[1] e, al tempo stesso, alla sua morte fra le braccia di un’altra donna, la sua dissoluzione e, infine, la sua assenza. Un non esistere, che era anche peggiore della morte. Uno sperpero, un vero scempio.

Stava per cadere ancora, stava per morire ancora, ma non ne era poi così afflitto. C’è un uccello notturno, non ne ricordava il nome, che crede di rinascere ogni volta che sorge la luna, ma all’alba giace nel suo ultimo sonno. E il suo nome non è Araba Fenice. Si nasce, si vive e si muore, una volta sola. E per quel poco di marito che era stato, una parvenza, un simulacro appena accettabile per le convenzioni sociali, si affrettò a precipitare nell’abisso oscuro di un altro essere umano.

Si risvegliò in un letto umido e disfatto, nella plumbea luce del mattino e lei non c’era più. Come da programma, pensò. Il piano di sopra era un albergo a ore e altri come lui si stavano risvegliando come naufraghi, fuggitivi, evasi per qualche ora dalla cella di un’esistenza decorosa e uniforme come una coltre di neve, creature che per abitudine avrebbero ingurgitato tazzine di caffè bollente scottandosi la gola e addentato di fretta i loro stracchi cornetti surgelati, senza sentirne il gusto, come tutti i giorni, prima di ripartire.

Si rivestì alla meglio, si sciacquò il viso e scese da basso. Lo aspettava la sua dose di caffè bollente per ustionarsi la gola e il cornetto surgelato da sbocconcellare in fretta, prima di svanire anche lui sulla strada del nulla, confuso agli altri viaggiatori. Il barista, gli occhi divorati dal sonno, gli porse un foglietto. C’erano scritti un nome e un numero di telefono. Girolamo lesse, finì il caffè, salutò il barista e lo gettò via. Non aveva alcuna intenzione di morire un’altra volta, di legare a doppio filo la sua vita a quella di una donna.

Eppure, era stato più reale quel sogno di bambola che aveva tenuto tra le braccia e tra le gambe quella notte, di milioni di altre donne in milioni di altre notti che l’avevano preceduta. Ma era giunta l’ora di aprire gli occhi e riprendere il cammino.

Si avviò verso la sua automobile e la raggiunse, degnandola di una sola, breve occhiata, ma continuò a camminare. Incedeva lento sotto la pioggia, dentro il fango viscido, come in un sogno balordo del mattino, untuoso e ambiguo, ma non si fermò. Raggiunse il ciglio della strada, oltrepassò la striscia d’erba ingiallita, ma non si fermò. Non si fermò neppure quando i suoi piedi invasero l’asfalto nero e lucido della provinciale.

Non vide il tir che sopraggiungeva alle sue spalle, non udì l’urlo greve e lacerante del claxon, né l’aspro stridio dei freni. Non sentì nulla.

Nelle sue orecchie riecheggiavano le note di una canzone.

Love is like suicide…

 

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[1] William Shakespeare, Sonetto CXXIX.

 

1 commento:

  1. I Tranzgenic erano un mio progetto, la canzone “Love Suicide” l’avevo scritta io e ora si è trasformata in racconto. Questo è un esempio del mio lavoro di contaminazione e ricombinazione di generi e forme artistiche diverse, come rock e letteratura, metal e novella, in questo caso.
    https://myspace.com/tranzgenic

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