“Love is the first kind of suicide”
said
the priestman to the silent bride…
(Love Suicide, Tranzgenic)
“L’amore
è la prima forma di suicidio” disse il prete alla sposa silenziosa.
Lei
sollevò il viso e tirò su dal naso. Aveva gli occhi verdi, notò il sacerdote,
arrossati dal pianto. Le lacrime scendevano lente sulle sue gote e
liquefacevano il trucco, come una maschera di cera. E rivoli scuri già
violavano il bianco vestito nuziale. Si udiva un brusio oltre l’altare. Laggiù,
tra le ombre delle navate, i fedeli non osavano esternare il loro stupore, la
loro perplessità e, infine, la noia. Essi si contentavano di scambiare commenti
sottovoce con il vicino di banco, un bisbiglio, un fiotto di parole veloci
nelle orecchie del prossimo, niente di più, ma le voci del niente, a decine, a
centinaia, si fondevano in un cupo borbottio, un ronzio d’alveare.
“E
ora, che fare?” pensò il prete. Quella era la prima volta che gli capitava una
cosa del genere. Certo, era già accaduto che qualche nubendo ci ripensasse e
non si presentasse il giorno fatidico e, addirittura, che i dubbi e le
perplessità assalissero gli sposi al momento di pronunciare il fatidico sì. Ma erano
sempre le spose a piantare i futuri mariti sull’altare, come vecchie cornacchie
spelacchiate nei loro impeccabili completi scuri, a beccare ormai inutili e
tristi chicchi di riso. Mai, a memoria di prete, la sua infallibile memoria di
prete, era capitato che fosse lo sposo a non farsi vedere.
Apollonia,
era quello il nome della giovane sposa dal volto liquefatto, singhiozzava in
silenzio. Aveva un viso minuto e fresco, che la faceva sembrare quasi una
bambina fasciata nel lungo vestito bianco. Un testimone di nozze faceva
tintinnare nervosamente le fedi nella tasca dei pantaloni e il suo era un
sorriso vacuo e superfluo.
Lov is laik suisaaaaid…. ululavano intanto
i Tranzgenic alla radio e torturavano
le orecchie di un giovane al volante, che cercava di districarsi nel traffico
domenicale facendo fischiare le gomme dell’auto. Aveva gli occhi pesti, segno
di una notte insonne, l’ennesima e si sentiva un incendio dentro lo stomaco.
Era vestito con un completo scuro, elegantissimo, ma i polsini, sguarniti dai
gemelli, erano liberi di fluttuare nelle maniche troppo larghe della giacca e dalla
camicia sbottonata fuoriusciva un ciuffo scuro di orrendi peli toracici.
Girolamo
era in ritardo, maledettamente in ritardo. Era il giorno del suo matrimonio ed
era in ritardo. La sera prima aveva avuto luogo l’addio al celibato. Il
programma prevedeva che i suoi amici gli pagassero da bere in tutti i bar della
città e lo avevano fatto, poi, avevano cantato a squarciagola canzoni oscene per
strada e pisciato praticamente dietro ogni albero o siepe che avevano
intralciato la loro folle passeggiata. L’unico fuori programma era stato quando
gli avevano offerto un coito con l’unica puttana incontrata a quell’ora e fatto
il tifo per lui come allo stadio.
Begli
amici.
Era
rincasato alle sei del mattino, la sbornia era passata, ma gli doleva la testa,
un male lancinante, che si riacutizzava ogni volta che pensava che di lì a
qualche ora avrebbe dovuto sposarsi. E si che davanti a ogni bicchiere che
aveva bevuto, davanti a ogni albero dietro il quale aveva orinato e perfino
davanti alla prostituta che aveva inalberato, aveva sempre pensato a lei, soltanto
a lei. Apollonia era sempre nei suoi pensieri. Ma era un pensiero strano, a
volte gradevole, altre, spiacevole. Sentiva di amarla profondamente, ma gli
faceva ribrezzo la sua pelle così chiara e gli occhi, di quella tonalità di verde
che gli dava allo stomaco. Poi tornava a pensare a lei con tenerezza ma, subito
dopo, tornava a odiarla.
In
fondo al viale, si materializzò la sagoma scura e inquietante della cattedrale
di San Teodoro. Accelerò, il muso dell’auto si sollevò e la cattedrale prese a
ingrandirsi e ad avvicinarsi più velocemente. Più si avvicinava e più premeva
il piede sull’acceleratore, più dava gas e più la cattedrale s’ingrandiva e non
smise neppure quando l’ebbe superata.
Cosa
sto facendo? Si chiese sbalordito, ma invano comandò al piede destro di
sollevarsi dall’acceleratore e di pestare sul freno, ma la cattedrale era una
sagoma scura e non più inquietante che rimpiccioliva dentro lo specchietto
retrovisore.
In
chiesa faceva caldo. Si era al mese di aprile, ma la primavera era stata molto
precoce e già s’intravedevano le dolcezze del cielo di giugno. E, lentamente,
madre terra sorgeva, ancora una volta, tra le mura morte di noia della città. Il
prete ebbe un lampo di genio, alzò una mano e comandò al coro d’intonare un
peana. Ma non era la solita Marcia
nuziale di Mendelssohn, o l’Ave Maria
di Schubert, si trattava di qualcosa che ricordava stranamente la linea
melodica della cucaracha, ma molto
più blanda di ritmo. Era indubbiamente una marcia, ma per la sua lentezza, era
molto più simile a una marcia funebre, o a un requiem, con il quale gareggiava
per solennità e mestizia. Però sortì l’effetto sperato. Il brusìo si placò, i
fedeli credettero che lo spettacolo stesse per cominciare e forse lo credette anche
la sposa, perché smise di piangere. Ma la marcia non finiva, lo spettacolo non
cominciava e ben presto tutti si resero conto che si trattava solo di uno
stratagemma per far passare il tempo.
Una
distesa biancolatte fuggiva rapida a lato della strada. Erano mucche al
pascolo. Beate loro, pensò Girolamo, che non dovevano pensare al lavoro, alla
casa, al mutuo, al matrimonio, ma solo a ingurgitare quintali e quintali di
buona erba e la sera, nella quiete tiepida e vaporosa della stalla, farsi strizzare
le tette da una specie di piovra metallica che si nutriva del loro caldo latte
e non dovevano mica sposarsi.
Sposarsi?
La parola gli provocò un tuffo al cuore e lo precipitò nell’angoscia. Era il
giorno del suo matrimonio e si trovava chilometri lontano dalla sposa, dalla
cattedrale, dalla città. Controllò l’orologio. Era mezzogiorno. Sicuramente
Apollonia era in lacrime, disperata, a chiedersi che fine avesse fatto, e i
genitori di lei ad augurarsi che la fine che avesse fatto fosse stata davvero
brutta, mentre i suoi genitori, che speravano il contrario, per poco non
venivano alle mani con i consuoceri. Gli invitati, ormai sfatti nei loro
eleganti vestiti attillati e scomodi, certamente fremevano per prendere la via
del portale, ma anche le uscite laterali avrebbero fatto al caso, però, non si
arrischiavano a muoversi dal banco per non prendersi la responsabilità di
quella fuga che tutti agognavano e che avrebbe messo la parola fine su quel
matrimonio. Solo i bambini, che possedevano il dono dell’innocenza ma non
ancora quello della pazienza, frignavano annoiati e importunavano tutti i
parenti che capitavano loro a tiro: “Mamma, papà, nonno, zia, non si sposano
più?” E i familiari interpellati cercavano di zittirli con sorrisi ipocriti e
risposte che suonavano sciocche e pretenziose.
Il
tempo, in effetti, era passato. Ben venti minuti, tanto era durata la nenia
funeral – psichedelica che il prete aveva fatto propinare agli invitati. Ma ora
non si poteva più fingere, non si poteva più attendere. Il sacerdote impugnò il
microfono e con voce decisa disse: “Signori, il matrimonio è annullato. Questo
è tutto. Dio vi benedica” E levò in alto l’indice e il medio uniti. Per un
istante restò fermo con le dita in alto, come in una sorta di minaccia, poi le abbassò
lentamente, quindi le volse dapprima a destra e poi a sinistra, completando in
fretta la benedizione. Si levò ancora un mormorio tra i fedeli, stavolta di
soddisfazione. Poi gli invitati sciamarono per il portale e le uscite laterali,
lasciandosi dietro un silenzio cupo. Andò via anche il prete. Apollonia rimase
sola all’altare.
Girolamo
non sapeva dove andare, voleva soltanto fuggire via, lontano, via dalla città
corrosa dall’ipocrisia della gente perbene, via da quella società putrefatta
che si sgretolava senza motivo. E anche la sua vita si stava sbriciolando, come
un idolo di pietra abbattuto dal peso della ragione. Intanto il panorama
scorreva silenzioso oltre il finestrino. Il vetro si riempì di goccioline,
cominciava a piovere. Si sentì un perfetto idiota a vagare nelle campagne senza
meta, senza scopo, fuggendo dal nulla, il nulla che era dentro di sè, il nulla
che sentiva di essere.
“Sono
un fallito” disse tra sé “Fallito come fidanzato, fallito come amante e, anche
come marito sono un fallito. Fallito senza neppure aver cominciato.”
Quando
era un marmocchio si era messo in testa di diventare scrittore. Voleva scrivere
un successo letterario, un romanzo che facesse ridere, che facesse piangere e
anche arrabbiare e commuovere.
Bene,
ora poteva farlo.
Bastava
che scrivesse della sua vita, che faceva ridere, che faceva piangere e anche
arrabbiare e, a volte, commuovere. Però, non aveva mai avuto manie di
grandezza, non si era mai sentito tanto autorevole e megalomane da permettersi un’autobiografia
e ne aveva sempre rimandato la redazione a quando sarebbe stato vecchio. I
vecchi sono noiosi, più dei giovani in crisi. E anche megalomani. In ogni caso,
se uno vuole diventare scrittore, prima o poi deve pur scrivere e l’unico modo
per iniziare a scrivere è scrivere. Ma Girolamo non l’aveva mai fatto.
Apollonia
non aprì il portale. Lo spalancò letteralmente, pensando di trovarsi davanti
una folla di volti e di doverli affrontare.
La luce del giorno tumefatto di pioggia e di nuvole l’abbagliò e quando
i suoi occhi si adattarono, vide che non c’era nessuno. Nessuno l’aveva attesa,
nessuno aveva aspettato per sussurrarle una parola gentile o per un gesto di
conforto, o almeno, per porgerle un ombrello. Neppure i suoi genitori. Bè,
quanto a loro, non c’era da farsi illusioni. Era l’ultima arrivata di una
famiglia numerosa e si era sempre sentita un’intrusa. Una bocca in più da
sfamare, una femmina per giunta, da tirar su in fretta per sbatterla fuori di
casa il prima possibile. Suo padre e sua madre avevano accolto la notizia del
suo fidanzamento con Girolamo con le lacrime agli occhi. Ma quelli non erano lucciconi
di felicità, nelle loro pupille brillava il riflesso dei quattrini. I simboli degli
euro, dei dollari e delle sterline giravano vorticosamente nei loro occhi come in una
slot machine: erano i bigliettoni che suo padre e sua madre avrebbero
risparmiato accollando al futuro marito il suo sostentamento. Da quell’istante avevano
atteso con febbrile impazienza il giorno del suo matrimonio. Apollonia aveva il
vago sentore che non sarebbe potuta tornare a casa.
Fuori
diluviava come se il cielo cadesse a pezzi. Dove andare? Grosse gocce di
pioggia la colpirono con il fremito di dita gelide, i capelli le s’inzupparono
e la magnifica acconciatura, costata tre ore di torture sulla sedia del
parrucchiere, crollò senza gloria. La pioggia punteggiò di macchie più scure il
vestito da sposa, Apollonia gettò via il velo, ridotto a un asciugamani
bagnato, tirò su con entrambe le mani la gonna e cominciò a camminare.
Non
sapeva dove andare, la pioggia non accennava a smettere e iniziava a farsi
prendere dallo sconforto, quando la sua attenzione fu richiamata da una
gigantografia su un muro, anch’essa solcata da rivoli d’acqua piovana.
Nell’immagine, una bottiglia di Southern
Comfort vuota a metà, una chitarra elettrica dalla superficie scrostata,
una ragazza ripiegata su se stessa, in ginocchio sul pavimento, e non si capiva
se vomitasse o inseguisse un sogno con gli occhi aperti, perso, chissà come,
tra le mattonelle del pavimento. Sul manifesto campeggiava, a caratteri
cubitali, una scritta: LOVE IS LIKE SUICIDE.
La
ragazza si rimise in piedi. No, decisamente non stava vomitando. Prese la
chitarra, si avvicinò al microfono e cominciò a cantare.
Love is the first kind of suicide, said
the priestman to the silent bride…
Aveva
una voce limpida e seducente. La chitarra spargeva uno strato armonico, un po’
ruvido, che tuttavia non sovrastava la sua voce, anzi, si fondeva magnificamente
con essa. Non era blues, ma avrebbe potuto esserlo. Non era rock, ma qualcosa
che gli somigliava molto. Girolamo non aveva mai sentito nulla del genere. Era
un patito di musica, anzi, la sua passione a volte sconfinava nell’ossessione,
ma erano anni che non ascoltava qualcosa di veramente nuovo, qualcosa di originale.
I suoni che udiva si nascondevano sotto una densa patina di dejà vu, o meglio, di dejà entendu, tanto da fargli credere
che il rock fosse un genere musicale sorpassato e morente. Eppure, una cosa
così non l’aveva mai udita. Dunque, asciugandosi gli occhiali maculati di gocce
di pioggia, si avvicinò per vedere meglio, per sentire meglio.
Sunday morning and the rain begins to
fall…
Aveva
scorto un luccicore in fondo alla strada, nel tramonto fosco della sera, si era
avvicinato e le luci si erano rivelate l’insegna di un locale, qualcosa a metà
strada fra un bar e un ristorante e forse era entrambe le cose, o forse,
nessuna di esse. Era uno di quei locali che si trovano all’improvviso in mezzo
al nulla, aggrappati a una provinciale qualunque, un ristoro per i viaggiatori,
anche se di viaggiatori non se ne vede neanche l’ombra. Solo poveri cristi
parcheggiati che attendono la fine del giorno. E la strada da qualche parte
viene e da qualche parte va. Si materializza dal nulla, scorre attraverso il
nulla e, sempre nel nulla, svanisce.
And I must be an acrobat to talk like this
and act like that…
Amore
e suicidio, eros e thanatos, due forze antitetiche in
perenne conflitto, come un acrobata che sfida la forza di gravità su un filo
sottile teso nel vuoto. Ma ora Girolamo vedeva chiaro nel buio della sua
indecisione che l’amore e la morte sono due facce della stessa medaglia. Amore
è morte, morte è amore. La morte spinge verso l’amore e l’amore spinge verso la
morte, all’annullamento del se fra le braccia dell’altra. E, non sapere più chi
siamo è come morire.
Girolamo
si avvicinò al banco e ordinò un caffè. Un caffè? A quell’ora? In quel luogo? Il
barista lo guardò come si guarda un unicorno, ma gli servì il caffè. Girolamo
avvicinò la tazzina e intinse le labbra nel liquido nero e oleoso. Aveva un
sapore improbabile. E quell’odore di muffa, di chiuso e stantio, che impregnava
anche le vesti del barista e la polvere sul bancone e le ragnatele tra le
bottiglie dei liquori e anche sui volti dei radi avventori, che lo scrutavano,
lo indagavano con curiosità viva, perché, in fondo, loro erano sempre gli
stessi, ormai quasi complementi d’arredo, ci si accorgeva di loro
solo quando erano assenti, e Girolamo invece no, lui era quello nuovo, il cittadino,
il forestiero. E analizzavano ogni suo gesto, lo sondavano per capire se la
loro cupa disperazione equivaleva alla sua, se in fondo alla sua anima si annidasse
ancora qualche residuo d’umanità che puzzava come la loro.
Apollonia
trasalì. Qualcuno le aveva toccato una spalla.
“Signora…
ehm… signorina…” si corresse.
C’era
un uomo davanti a lei, un tipo alto, più del suo Girolamo, con gli occhi scuri,
più del suo Girolamo, era bello, molto bello, più del suo Girolamo – o avrebbe
dovuto dire Girolamo e basta, senza aggettivi possessivi – e alla sua
apparizione la pioggia era cessata.
Apollonia
gli sorrise, un po’ imbarazzata, quando si rese conto che il tizio non aveva il
potere di fermare la pioggia, ma la sua unica virtù era il possesso di un
ombrello. Quell’uomo era bello come un peccato, anzi, di più, era bello come un
sogno, e nel sogno udì la sua voce chiederle di sposarlo. I sogni non sono la
realtà, ma solo il riflesso di quest’ultima sulle tempeste dell’inconscio, eppure
lei arrossì ugualmente alla domanda e si costrinse a tornare al mondo reale.
La
ragazza smise di cantare e si avvicinò. Girolamo scoprì in quell’istante di
avere il testosterone alle stelle. Pensò di avere mal di testa proprio per
quello, e anche i testicoli gli dolevano, pieni com’erano di lattescente, sacro
seme della vita. A volte i suoi sogni erano popolati dalle femmine più luride e
lascive e anche quando vegliava la sua mente era ottenebrata da contorte
fantasie sessuali. Il membro si ergeva solo a sfiorarlo e l’antica arte di Onan stentava a placare la fame e la
sete. Questa condizione sopraggiungeva una o due volte al mese, e quella sera
era una di esse. La ragazza era vicinissima, poteva sentire il suo profumo
dolciastro, che non copriva il sentore di ascelle sudate. La sua presenza lo ammaliava
e lo turbava, al tempo stesso, e generava in lui un torrente impetuoso, un fiume
sul punto di straripare.
Supercalifragilistichespiralisexy fu l’unica parola
che gli sbucò fra le labbra e che cercò, invano, di pronunciare.
“Vuole
sposarmi?” chiese l’uomo bello come un sogno. Però non veniva dall’etereo mondo
dei sogni, era una persona in carne e ossa e si chiamava Fausto. “Poiché
indossa già l’abito da sposa e c’è una chiesa proprio dietro l’angolo…”
“Non
mi prenda in giro, non sono in vena, come potrà immaginare”
Ma
era in vena più di quanto non desse a vedere. Difatti, già si asciugava le
lacrime, perché quell’uomo era alto ed elegante e le sue mani curate annunciavano
una casa calda e accogliente e un florido conto in banca. Ma non fu solo per i
soldi che Apollonia si risvegliò nel suo letto, il giorno seguente. La notte
era scorsa fluida e senza intoppi, un fiume di dolcezze tra guanciali tiepidi e
lenzuola disfatte. Non era stato solo sesso, ma neppure amore. Il modo migliore
per ricominciare.
“Forse
dovresti osare… “ Le sue sopracciglia s’inarcarono due volte, per meglio
accentuare quanto stava per aggiungere “… di più”. E sorrise.
Girolamo
sorrise a sua volta, ma si smarrì subito nel candore dei suoi denti, arse nel
rosso vivo delle sue labbra, la cantante coprofaga, mangiatrice d’uomini, che
merda siamo. E intanto ripensò a quel suo amore fasullo, quell’amore farlocco che
l’aveva quasi condotto all’altare, quell’amore “sperpero dell’anima nello scempio d’ogni pudore”[1]
e, al tempo stesso, alla sua morte fra le braccia di un’altra donna, la sua
dissoluzione e, infine, la sua assenza. Un non esistere, che era anche peggiore
della morte. Uno sperpero, un vero scempio.
Stava
per cadere ancora, stava per morire ancora, ma non ne era poi così afflitto. C’è
un uccello notturno, non ne ricordava il nome, che crede di rinascere ogni
volta che sorge la luna, ma all’alba giace nel suo ultimo sonno. E il suo nome
non è Araba Fenice. Si nasce, si vive e si muore, una volta sola. E per quel
poco di marito che era stato, una parvenza, un simulacro appena accettabile per
le convenzioni sociali, si affrettò a precipitare nell’abisso oscuro di un
altro essere umano.
Si
risvegliò in un letto umido e disfatto, nella plumbea luce del mattino e lei
non c’era più. Come da programma, pensò. Il piano di sopra era un albergo a ore
e altri come lui si stavano risvegliando come naufraghi, fuggitivi, evasi per
qualche ora dalla cella di un’esistenza decorosa e uniforme come una coltre di neve,
creature che per abitudine avrebbero ingurgitato tazzine di caffè bollente
scottandosi la gola e addentato di fretta i loro stracchi cornetti surgelati, senza
sentirne il gusto, come tutti i giorni, prima di ripartire.
Si
rivestì alla meglio, si sciacquò il viso e scese da basso. Lo aspettava la sua
dose di caffè bollente per ustionarsi la gola e il cornetto surgelato da
sbocconcellare in fretta, prima di svanire anche lui sulla strada del nulla,
confuso agli altri viaggiatori. Il barista, gli occhi divorati dal sonno, gli
porse un foglietto. C’erano scritti un nome e un numero di telefono. Girolamo
lesse, finì il caffè, salutò il barista e lo gettò via. Non aveva alcuna intenzione
di morire un’altra volta, di legare a doppio filo la sua vita a quella di una
donna.
Eppure,
era stato più reale quel sogno di bambola che aveva tenuto tra le braccia e tra
le gambe quella notte, di milioni di altre donne in milioni di altre notti che
l’avevano preceduta. Ma era giunta l’ora di aprire gli occhi e riprendere il
cammino.
Si avviò
verso la sua automobile e la raggiunse, degnandola di una sola, breve occhiata,
ma continuò a camminare. Incedeva lento sotto la pioggia, dentro il fango
viscido, come in un sogno balordo del mattino, untuoso e ambiguo, ma non si
fermò. Raggiunse il ciglio della strada, oltrepassò la striscia d’erba
ingiallita, ma non si fermò. Non si fermò neppure quando i suoi piedi invasero
l’asfalto nero e lucido della provinciale.
Non
vide il tir che sopraggiungeva alle sue spalle, non udì l’urlo greve e
lacerante del claxon, né l’aspro stridio dei freni. Non sentì nulla.
Nelle
sue orecchie riecheggiavano le note di una canzone.
Love is like suicide…
COPYRIGHT 2014
ANGELO MEDICI
Tutti
i diritti riservati
Riproduzione vietata
I Tranzgenic erano un mio progetto, la canzone “Love Suicide” l’avevo scritta io e ora si è trasformata in racconto. Questo è un esempio del mio lavoro di contaminazione e ricombinazione di generi e forme artistiche diverse, come rock e letteratura, metal e novella, in questo caso.
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