Una città va edificata dalle
fondamenta, prima lo scavo del terreno, poi la gettata di cemento, la
costruzione dei piani intermedi e infine, la conquista del cielo con una
scalata di mattoni, blocchetti e tondini di ferro. Nella mia città, invece, si
costruiscono prima i tetti e i solai e solo dopo le fondamenta. Nella mia città
è tutto sottosopra. le persone oneste stanno in galera, i farabutti e gli
assassini girano liberi per strada. E se uno vuole essere libero e non
diventare un delinquente, mi dispiace, ma ha sbagliato città, non ha altra
scelta che andarsene.
La città
verticale è diversa da tutte le altre. Innanzitutto, non esiste in alcun luogo
al mondo, ma, al tempo stesso, tutte le città del mondo ne contengono almeno un
pezzo che le somiglia in maniera sorprendente. Così, se per caso vi capiterà di
aggirarvi per le strade della mia città, troverete dei luoghi che vi sono
familiari. Ma, vi consiglio di stare con gli occhi aperti. E’ piena di insidie
e pericoli e tentazioni. E si parla una lingua bizzarra, che tronca la coda
alle parole per risparmiare; ed è una lingua che ha perso il tempo futuro. Forse
perché chi la parla ha perso la speranza.
Così,
non ho potuto usarlo neppure io nella narrazione. In compenso, mi sono potuto
sbizzarrire con una gamma cromatica infinita: il bianco, il nero e le loro
infinite gradazioni. E già, perché io immagino il passato come una foto in
bianco e nero e anche le storie scritte al passato assumono questa bicromia illimitata.
L’imperfetto è un tempo aperto, alcune cose sono appena accadute o possono
ancora accadere e sono i passi degli attori sulla scena a stabilire la
differenza fra l’azione in fieri, solo immaginata, e l’azione concreta; il
presente, unica eccezione alla consecutio temporum declinata al
passato, è schiacciato sul reale e non offre profondità o prospettiva, in
compenso, rende le scene molto drammatiche. Il passato remoto è risultato
appropriato per modellare la definitività degli eventi: quello che doveva
accadere è accaduto, ciò che è stato è ormai incancellabile. A volte li ho
mescolati nello stesso capitolo, per dare ritmo, movimento, prospettiva. Spero
di non aver pasticciato troppo.
Anche
con la caratterizzazione dei personaggi.
Le
caratteristiche del personaggio devono emergere dalla storia, da quello che
dice, da quello che pensa, da quello che fa, da come interagisce con gli altri
attori del copione e non da un approccio descrittivo, come invece
eccezionalmente ho fatto ne La città verticale, dedicando quasi un
intero capitolo a delineare la figura del protagonista. Ma ciò rispondeva a un’esigenza
ben precisa: far risaltare la mancanza di una ferma volontà nel personaggio del
prete in crisi, che vacilla nella sua fede. Queste incertezze generano tensione
nel raccontare e fanno sì che il tessuto narrativo, che rende monchi gli eventi
di qualsiasi motivazione, assuma un sapore alquanto assurdo e grottesco, come
io stesso anticipavo in Ubi pus, ibi evacua, prefazione al
romanzo, nella quale avevo parlato di vicende che parevano tratte dal teatro
dell’assurdo, del grottesco e del surreale, ma che dimostrano quanto, a
volte, può essere assurda, grottesca e surreale la vita stessa.
Ogni trama contiene in sé
innumerevoli possibilità di soluzione e sceglierle vuol dire iniziare a
scrivere. Non ci sono regole, anche se, spesso, si sceglie la soluzione meno
ovvia per spiazzare il lettore, stimolare la sua curiosità, tenerlo legato al
testo e dare una risposta alla sua domanda: “come va a finire?”. E io rispondo.
Ma non subito. Intanto, bisogna scegliere il punto di vista narrativo. In
fondo, è come avere una telecamera e bisogna decidere se puntarla sul
protagonista, sul comprimario, sul paesaggio o sullo scrittore, se ha scelto
l’io narrante, e anche se accostarsi più a un personaggio e allontanarsi da un
altro. Se invece puntiamo la telecamera su noi stessi e ci mettiamo vicino al
lettore, al suo livello, diciamo, ma un po’ più avanti, in quanto siamo a
conoscenza di qualche elemento in più che fa evolvere e proseguire la
narrazione, è come se gli dicessimo: “Dai seguimi, andiamo a vedere quello che
succede”. Invece, il punto di vista della narrazione in terza persona
scaraventa lo scrittore fuori dalla sua storia, egli la guarda dall’alto,
come se fosse Dio, e come Lui, è onnisciente e onnipotente, non interferisce
con il suo eroe e ne resta distante. Ma può capitare che, nonostante tutte le
cautele, il personaggio sfugga dal controllo e lo scrittore è costretto a
inseguirlo, a esortarlo, a supplicarlo a comportarsi in un certo modo
desistendo da un altro, ma questi non lo ascolta e continua a fare quello che
vuole. Allora, la sua disobbedienza costringe il suo creatore a interferire con
lui, a dialogarci, a minacciarlo anche, ma questo fa di lui un narratore
impotente, che non ha la forza di dirigere i suoi personaggi entro i confini
della trama che ha ipotizzato. A me, per fortuna, capita raramente, riprendo
subito le redini dei miei personaggi e il controllo sulla trama. Sono un po’ un
tiranno, lo confesso, voglio che facciano quello che dico, altrimenti prendo la
gomma e li cancello dalla storia. E infine, non mi piace dialogare con loro,
preferisco tenermene discosto, perché credo che queste relazioni conferiscano
un sapore ottocentesco, moralistico e didascalico alla narrazione. E poi, i
personaggi di un romanzo devono restare chiusi in un libro e non entrare mai
nella vita reale. Attenzione, quindi, a chiudere bene i vostri libri dopo
averli letti.
Ma torniamo alla costruzione del
personaggio.
Per tutta la vicenda il protagonista principale si
dibatte incerto fra l’azione e la desistenza, che equivale a una resa
incondizionata alla legge del più forte, e solo il finale rivela che le
incertezze vengono da lui superate e che il suo punto di svolta è ancora nella
fede. Non più nella fede in Dio, divenuto un simulacro di divinità, assurdo,
lontano e falso quanto un crocifisso di plastica made in China, ma nella fede verso il quartiere, la città, la sua
gente. In fondo, cos’è la fede se non un atto d’amore? Un amore incondizionato
che non ha bisogno di prove e che non ammette esitazioni. Ed è in nome
dell’amore per quelle persone, che egli accetta di compiere il sacrificio
sublime di distruggere la sua vita e tutto ciò che era stato fino a quel
momento, gettando alle ortiche l’abito talare, per salvare il suo popolo e
portare a compimento il compito di ogni pastore: condurre al sicuro il suo
gregge.
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