Sempre il mare, uomo libero, amerai.
(Charles Baudelaire)
Perché
quest’improvvisa fascinazione per il mare? Non è come una scoperta, è piuttosto
un ritorno, un riaffiorare di antichi, spenti ricordi. Forse sto diventando
vecchio e sento il bisogno di tornare alle acque, là dove tutto ebbe inizio.
Non
siamo gente di mare. Le nostre impronte sanno di terra e del fango che resta
attaccato sotto le suole delle scarpe. Le nostre impronte sono larghe e pesanti
e violentano la terra con rudi scarponi di contadini. I nostri passi non sono
eleganti, i nostri piedi non sono abituati a star in equilibrio su assi
scricchiolanti d’imbarcazioni e natanti.
Dove
vivo non c’è mare, solo una pianura infinita e escrescenze geologiche che
chiamano Colli Euganei. La pianura era una volta il fondo del mare e i Colli
erano isole. A volte quando corro nella bassa mi viene da pensarci su,
soprattutto se c’è nebbia, e m’immagino dentro uno scafandro a correre con
grande fatica sui fondali marini. Oppure, sulla superficie, a navigare tra le
isole dell’arcipelago.
Se i
Colli Euganei fossero isole spuntate nel bel mezzo della notte, ne
circumnavigherei le coste alla luce delle stelle. E questa notte saprebbe
d’infinito.
Forse
la pianura è una donna addormentata nell’acqua e i Colli sono i suoi seni che
spuntano dal verde mare dei campi.
E’
sufficiente nascere in una città di mare per essere considerato un uomo di
mare?
Io
non credo.
Sento
che è una pazzia, eppure sono le quattro del mattino, fuori è buio pesto, ma sono
già sveglio a chiedermi cosa ci faccio davanti a una tazza di caffè bollente e
un bicchiere di succo d’arancia gelato.
La
risposta giunge con lo strana mistura di caffè bollente e succo d’arancia
gelato, che ingurgito insieme per fare presto. Non ce la faccio più a stare
seduto dentro questa cucina buia, scalpito, fremo.
E’
ora d’andare.
Apro
la porta di casa. Fuori l’oscurità si stende placida e uniforme sulle cose come
un manto nero. Sembra ieri, ma è già oggi.
I
fari dell’auto tagliano il buio a grandi fette d’ombra. La strada che conduce
al mare è rettilinea e vuota e a un tratto mi sento solo. Ma non è una
sensazione spiacevole. Una vettura incrocia il mio passaggio. Un contadino
mattiniero, ragazzi che tornano dalla discoteca, o forse solo qualcuno che non
riesce a dormire e cerca una giustificazione per il sonno che non viene a
ingannarlo con la nebbia oscura dei sogni.
Senza
preavviso, da un’oscurità che non sa di notte, mi ritrovo sul lungomare
illuminato. Coni di luce inondano di gialle pozze le auto parcheggiate. Osservo
ogni anfratto, ogni cassonetto della spazzatura, ogni gatto randagio e l’ombra degli
oleandri sull’asfalto è scura e rassicurante.
Parcheggio e apro il finestrino. L’aria umida e pesante prende il posto dell’aria
secca dell’abitacolo e mi rinfresca il volto. Il mare è nero e rumoreggia poco
oltre la striscia di sabbia. Mi vengono i brividi.
La
spiaggia è buia e deserta, ma manca circa mezz’ora al sorgere del sole, che
illuminerà la mia prima rotta solitaria. Il tempo delle effemeridi, così mi
hanno insegnato al corso, è l’ultimo scampolo di tenebre prima del giorno.
Vado
avanti e dietro più volte, dall’auto alla spiaggia, all’andata sovraccarico
come un mulo delle più stravaganti carabattole marinare, torno alla spiaggia carico
solo dei miei sogni. Finalmente, il bagagliaio è stato svuotato. Davanti a me e
al mare c’è un mucchio di materiale che mi arriva quasi al petto. La barca sul
fondo, il motore, taniche di benzina e latte d’olio, corde, ehm... cime per
ormeggio, cime d’ancora e cime di riserva e poi, drizze e scotte e sartie. Un
giubbotto salvagente, un giubbotto salvagente di riserva e un altro giubbotto
salvagente, riserva della riserva. E poi, razzi di segnalazione, trombe di
avviso e fumogeni, manco fossi allo stadio. Mi fermo a guardare il mucchio
scuro e silenzioso. Sembra quel che resta di un naufragio.
Il
mio.
Il
mare mi lambisce i piedi e pare voglia prendersi gioco di me. Forza e coraggio,
c’è ancora tanto lavoro da fare. Mi rimbocco le maniche e mi metto all’opera.
Sono
stanco e sudato, ma la barca è pronta, proprio mentre sorge il sole. Mi attacco
alla cima di prora e la traino fino al mare. L’acqua fredda e scura mi bagna i
piedi e le caviglie. E’ gelida. Avanzo ancora, fino a quando l’acqua mi arriva
alla cintola e la mia imbarcazione comincia a galleggiare. E’ un momento
emozionante, è l’inizio del viaggio. Monto a bordo, insieme capitano, mozzo e
passeggero e inizio a remare per prendere il largo. Mi sento un deficiente a
remare come un forsennato, quando ho un motore che mi ci porterebbe in pochi
minuti. In acqua non c’è nessuno, chi è che controlla se sono già a trecento
metri regolamentari dalla spiaggia o non ancora? Sono stanco, remare è un
affare per veri marinai. Mi decido e agguanto la corda d’accensione. E se il
motore non partisse? Proprio ora che ci siamo! Dovrei rifarmi il percorso
inverso a remi. Sono sudato come dentro una sauna e sono già spossato.
Il
motore parte al primo colpo, che bello sentirlo rombare ritmico e regolare. M’ero
mentalmente preparato una sfilza di bestemmie e imprecazioni contro il dio del
mare, ma le accantono, non sono state necessarie. Apro il gas e incominciamo
davvero a navigare.
Da
dietro la diga foranea sbuca l’imbarcazione della Guardia Costiera. Mi viene un
tuffo al cuore. Mi hanno visto accendere il motore entro la fascia di sicurezza
e ora sono guai. Ma dal battello mi guardano appena, un breve cenno di saluto
dell’uomo al timone e vanno via placidi, senza fretta.
Io
punto decisamente verso il largo. Le onde hanno un periodo più lungo, qualche
spruzzo mi raggiunge mentre sono impegnato con le manovre. Stimo di essere a un
miglio circa dalla terra e metto la barca in rotta. Volgo la barra a levante e
la poppa segue il moto rotatorio. Subito dopo lo fa anche la prua, compiendo un
ampio arco di cerchio verso ponente. Ecco, ancora qualche piccola correzione di
rotta e navighiamo paralleli alla costa.
E’
facile tenere la rotta. Se ho la terra a destra e il mare a sinistra, sto
andando a sud. Finchè mantengo il contatto visivo con il litorale è impossibile
sbagliarsi, mi sento sicuro per la presenza di quella sottile linea verde, un
lembo di costa bassa che si distende su tutto l’orizzonte occidentale, mi sembra
quasi di poterla toccare. In caso di problemi, un breve colpetto al timone e in
poco tempo toccherei terra.
Il
mare è calmo, l’atmosfera tranquilla e mi sto rilassando. Ma è meglio non
perdere la concentrazione e mantenere la barra dritta, come si dice. E anche
gli occhi aperti, e… il culo stretto, perché non si sa mai. Il fato potrebbe
riservarmi qualche sorpresa. Magari, una bella sirena viene a stendersi mezza nuda
sulla prua del mio naviglio, ammaliandomi con il suo canto.
O un
sireno.
Ora
capisco il consiglio di tenere il culo stretto. Bè per come ho la strizza oggi,
tutto solo in mezzo al mare, dal mio sfintere non passerebbe neppure la cruna
di un ago, mmm… Non erano i cammelli a non passare per la cruna degli aghi? Oggi,
tra onde, punti cardinali, aghi, cammelli e sfinteri, non c’è che l’imbarazzo della
scelta per creare confusione.
E,
se invece, incontrassi una selkie? Mi rendo conto che a queste
latitudini sarebbe alquanto improbabile imbattersi nella protagonista di numerose
leggende delle Isole Orcadi, ma per una bella come la mitica Ondine, farei volentieri un sogno a
occhi aperti, un volo pindarico tra i flutti marini abbracciato a lei.
Secondo
le leggende nordiche, la selkie è una foca che si è
trasformata in donna per far innamorare i marinai col suo canto dolce e
ammaliatore, ma dopo aver giaciuto col prescelto per una notte, riassume il suo
aspetto di sirenide e scivola via tra le acque bagnate di luna piena, lasciandosi
dietro solo un letto bagnato di lacrime. Quelle del derelitto marinaio dal
cuore straziato, o le sue. Ma pare che ci sia un modo per trattenerle a terra.
Se si sotterra il manto di foca del quale si spogliano per assumere sembianze
umane, non torneranno mai più al mare.
Sono
solo in mezzo ai flutti e mi rendo conto che ho davvero tanto da imparare. Ma
non posso affidarmi al mare. Come dice Erri
De Luca, "Sul mare non è come a scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare
e ci stai tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua."
Come un novizio, spero d’imparare presto, prima di andare a fare compagnia ai
pesci.
Sospeso
sull’abisso, a volteggiare sulle acque trasparenti con il mio fragile guscio di
noce, m’afferra il cuore uno sgomento e sprofondo in un vago senso di vertigine
al pensiero che se l’acqua si prosciugasse di colpo, precipiterei sul fondo,
trenta metri più in basso. E’ solo acqua e sale, ma è profondo, è molto
profondo. Ma non accade, l’acqua mi sostiene e non è un miracolo il principio
di Archimede.
Nella
solitudine delle acque nascono le leggende più spaventose, però i mostri marini
non sorgono dal fondo dell’oceano, ma dalle profondità della nostra anima.
A
proposito di abissi e mostri marini, mi vengono in mente quei versi dell’Eneide
sui due serpenti. Come fanno?
Ah
ecco, ora ricordo.
Sul
profondo e calmo mare,
incombono
due serpenti con immense volute.
E
poi, come continua? Ah si!
I
petti irti tra i flutti e le creste sanguigne sovrastano le onde.
Mentre
il resto del loro corpo si snoda a fior d'acqua,
uno
di essi ora mi avvinghia la vita due volte
e mi
opprime col doppio nodo del suo amore
e io
mi sforzo di svellere il suo nodo.
Virgilio, sei un grande. Devo ricomprarmi
l’Eneide.
Credo che nelle case italiane ci siano più Bibbie e Vangeli che Eneidi e
Odissee e i risultati si vedono, la poesia, il classicismo, la mitologia
finiscono nel pattume e nessuno più le cerca. E poi, i pagani siamo noi!
Scruto
l’orizzonte, ma di serpenti marini e creste sanguigne neanche l’ombra. Mi
dispiace Virgilio, ma credo che oggi
non sia la tua giornata. In compenso, al posto dei serpenti si avvicinano due
pescherecci mantenendo rotte parallele. A separare i natanti, ci sarà una via
d’acqua, si e no, di cinquecento metri, ops… in mare si usano le miglia e non i
metri, quindi, mi correggo e stimo un quarto di miglio. Solo che ora mi sono
agitato e non ricordo più la precedenza, ops… ancora un errore! In strada c’è
la precedenza, in mare le regole per prevenire gli abbordi.
Per
fortuna, mi viene in mente che in una situazione del genere, ognuno di noi deve
mantenere la rotta. Le rotte sono parallele e non s’intersecano, ergo, non c’è
rischio di collisione. La mia barca scivola silenziosamente tra i due
pescherecci, mentre incrocio le dita sperando di averci preso. Prima da una
barca, poi dall’altra a dritta si levano in alto bianche palme in segno di
saluto. Saluto a mia volta, felice. Ci ho imbroccato e ne vado fiero.
I
pescherecci spariscono alle mie spalle, anzi, dovevo dire a poppa e mi ritrovo,
ancora solo, sul profondo e calmo mare. Mi è venuta voglia di galoppare un po’
sulle onde. Apro con decisione la manetta. Ora andiamo più veloci.
La
prua fende il mare, che s’increspa appena. Controllo la scia che mi lascio
dietro, una gigantesca V bianca e piatta che incido sulla pelle delle onde.
Dalla forza del vento che mi sbatte sulla faccia, giudico che venti nodi ci
sono tutti. Con un discreto sobbalzo – sembra un calcio sferrato sotto lo scafo
– e una decisa deriva a est, mi accorgo della foce dell’Adige. Il flusso d’acqua dolce è largo e si avverte in anticipo
rispetto alla parentesi d’acqua del fiume che interrompe il profilo della
costa. Si scorge nitida la terra da qui, a due miglia al largo.
Riprendo
subito il controllo e correggo la rotta. E’ come se un fiume sotterraneo
scorresse sotto il mare, la corrente è forte e mi sospinge al largo. Il mare è
subdolo e ingannatore e vuole portarmi dove dice lui. Ecco perché si consiglia:
mantenere la barra dritta. Ma io sono nuovo e lui se n’è accorto, sa che può
ingannarmi facilmente. Vedrai, mi ha avvertito un amico, vedrai, oltre i venti
metri di profondità il mare cambia, te ne accorgerai. Me ne sono accorto,
infatti. Le onde rinforzano, non è tempesta, ma gli spruzzi mi bagnano il volto
e i capelli. Eppure, di tutto questo sulla terra non v’è traccia. E’ tutto
calmo e tranquillo e la riva sembra addormentata.
Che fare? Invertire la rotta e rifugiarmi nelle acque sicure del porto? Da qui saranno sì e no un’ora scarsa di navigazione. Se invece continuo, tra un po’ compariranno le secche davanti a Porto Caleri e l’acqua bassa frenerà l’impeto del mare, regalandomi una navigazione più tranquilla. Decido di proseguire, non voglio arrendermi troppo presto in questa prima uscita in solitario. Se dovesse mettersi al brutto potrò sempre infilarmi nella laguna e attendere che passi per tornare indietro, o chiamare qualcuno che mi venga a prendere. Ma, se il motore si piantasse? Di sicuro con questo tempo non ce la farei a tornare a terra a remi, sono due miglia, quasi quattro chilometri di onde e correnti, resterei per sempre al largo, mi ritroveranno tra una settimana in Croazia. Ma il motore ronza sicuro e affidabile, sembra chiedermi: perché dovrei piantarmi? col suo gambo lungo e affilato, alla cui estremità l’elica scintillante batte l’acqua sorniona e regolare, come uno che sa il fatto suo. E’ deciso, si va avanti. Manca poco ormai, tra poco vedrò le dune bianche e deserte e sarà il momento d’invertire la rotta e tornare a casa.
Un’onda
mi esplode in faccia all’improvviso. Il mare è forte e me lo ricorda ogni
momento. E ogni momento mi può sbattere a calci fuori dalle sue acque, come un
impudente moscerino che abbia osato violare il suo regno, e fare di me un
naufrago. Lecco dalle labbra il suo dono salino, sapido e pungente che m’invade
la bocca, è un sapore primordiale.
“Ci
sono tre specie di uomini: quelli vivi, quelli morti e quelli che vanno per
mare”. Questa frase non so chi l’abbia scritta, ma mi piace, la sento
mia. Ecco, a terra non mi sentivo del tutto vivo, quasi un ondivago zombie a
cavalcioni tra la vita e la morte, ma oggi che vado per mare non ho la mente
ottenebrata dall’odio, dalle delusioni, dall’amarezza e dai sensi di colpa,
oggi in mezzo al mare sono ineluttabilmente vivo.
L’acqua
gorgoglia dietro la poppa, il vento sta cambiando. E’ quasi tempesta, ma mi
sento vivo. Il vento rinforza, da che parte andare? Mi pare che spiri dal mare,
se mi metto poppa al vento mi condurrà a terra senza che me ne accorga, se
invece continuo a tenere una rotta parallela alla costa sarà difficile
navigare, il mio fragile vascello scarroccerà per la forza del mare e scadrà al
vento. Sarà arduo mantenere la rotta. Già, ma che direzione conviene seguire?
Cerco di richiamare alla mente la rosa dei venti, però non mi è di aiuto. Ma in
quel momento, sopravviene un’altra riflessione, quella del famoso marinaio di Seneca, per il quale nessun vento era
favorevole, perché non sapeva dove andare. Ma io non farò come il marinaio di Seneca, ora so dove andare. Verso il
porto. Il mare ha rinforzato troppo, meglio rientrare.
La
barca ballonzola sulle onde, vi si arrampica e ne ridiscende agile, ma già
un’altra è da presso, pronta a sferrare il suo liquido attacco. Il vento
scompone le onde e bianca spuma risale il profilo dei flutti e si scontra in
alto col livido del cielo opaco, che si sta chiudendo sopra la mia testa. Il
mare è, a tratti, grigio e verde scuro e in esso si specchia la pesantezza del
cielo.
E
come quando partivamo per la Cina
Gli
occhi fissi al largo e i capelli al vento
C’imbarcheremo
sul Mare delle Tenebre
Col
cuore allegro di un passeggero giovane.
Credo
che se Baudelaire non avesse fatto il
poeta, sarebbe stato un marinaio. Di sicuro, però, se ne intendeva di tenebre e
tempeste.
Il
cielo s’apre e si chiude, come se Dio stesse strizzando una spugna. Le nuvole
cavalcano veloci sulle onde e superano con facilità la mia barchetta. Quando il
cielo si apre, il sole scaglia dardi accecanti sulla superficie delle acque.
Quando si richiude, l’ombra è netta e definitiva come il coperchio di una
tomba.
Non
la mia.
Non
fioriscono rose sulla tomba del marinaio, l’unico ornamento sono il battito d’ali
di bianchi gabbiani e la lacrima che una fanciulla ha pianto.
Davanti
a me la lunga linea grigia del porto. E la città distesa al sole. Emerge dalle
acque insieme alla fine di questo primo viaggio. Non sono le bianche mura di Odessa, ma va più che bene. Penso di
essermi meritato il panino, oggi. Lo ripesco dal gavone di prua, dove l’avevo
riposto tra la cima dell’ancora e i razzi di segnalazione e lo addento. Sa di
sale. Nel fondo del gavone ci sono due dita d’acqua. Non andrò certo a fondo,
questa barca è garantita inaffondabile, ma vedere l’acqua sporca, quasi nera,
che ha invaso il fondo della mia piccola nave, che sono ancora tra i flutti, mi
dà i brividi.
Il
sole è alto e nel riflesso del mare si scompone in migliaia di frammenti, come
fossero schegge di vetro. Si sbarca, il viaggio è finito. Ormeggio la mia
bagnarola e metto piede a terra. Provo una strana sensazione, quasi quasi, mi
sentivo meglio prima. Al largo, tra le onde, mi ero abituato al loro dondolio e
la terraferma mi sembra di colpo troppo ferma e stabile. Mi volto a guardare la
barca e mi si chiude lo stomaco, se penso che l’ho condotta in mezzo al mare,
io, da solo. E’ così piccola e fragile, che anche un’onda minuscola la può
rovesciare, ma è la mia e mi rattrista abbandonarla nelle acque livide del
porto. In quel momento mi sgorgano dal cuore altri versi.
Tutto
quello che chiedo è una piccola nave
e
una stella per fare la rotta.
Neppure
in questo caso mi ricordo di chi sono, però mi accorgo all’improvviso che la
mia piccola nave non ha ancora un nome. Mi piacerebbe darle un nome di donna,
un nome grazioso e ricercato, così che possa ergersi impettita come una polena sulle
onde e fendere col suo petto i flutti, una dama che danza sulle acque.
Credo
che Ondine
sarebbe un nome appropriato.
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ANGELO MEDICI
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