sabato 27 agosto 2016

Il ponte


Il ponte era il cordone ombelicale fra le due rive. Di qua la vita. Di là la morte. Mi fermai nel mezzo, guardai giù nei vortici d'inchiostro e vidi le cose capovolte.

Ebbi freddo.

Un gelo mai provato prima s'impadronì del mio cuore. Forse avevo sempre guardato il mondo dalla parte sbagliata.

Il silenzio mi avvolse con la noncuranza con cui avvolge le persone senza speranza.

Mi sentivo senza pace, inquieto, lacerato dalla voglia di restare e dal desiderio di partire. Non ero riuscito ad accettare passivamente il male del mondo. Non riuscivo a farmene una ragione. Le persone che incontravo erano come condomini dispettosi. Mi odiavano senza ragione. La mia vita era sospesa fra un presente immobile e un passato che non passava. Quanto avrei pagato una sola misera bottiglia di oblio! Soltanto l'alcol cancella il dolore. Ma ciò che desideravo davvero era una sorta di perdita di controllo controllata.

La prossima vita, pensai, voglio rinascere sasso, così non sento più niente.

Mi ha sempre fatto paura l'acqua di notte, il velo di mistero della superficie a celare chissà quali segreti inconfessabili. Cose che devono restare nascoste.

Qualcosa si mosse nell'oscurità, una massa più scura dell'ombra, e lentamente quel profilo informe prese le sembianze d'un grande uccello notturno. Con un balzo si staccò imperioso dalla terra, le sue ali si aprirono e vorticò in una larga virata verso la luna, proiettandone l'ombra sulla mia faccia mentre mi sorvolava.

Spentosi il vibrare del volo, il silenzio ritessè la sua tela d'organza.

I flutti mi chiamavano, il vortice era più chiassoso e felice che mai nel suo idrico tumulto. Vieni, vieni a raggiungerci, cosa aspetti? Tu ci appartieni.

Noi ti apparteniamo...

Avevo sempre desiderato vedere il mondo a testa in giù. Così mi sporsi ancora un po'.

Qual è il vero e quale il falso? Come si può distinguere il torto dalla ragione? Cosa sono la gioia e il dolore, la verità e la menzogna, la vita e la morte?

La risposta venne mentre precipitavo a testa in giù.

Niente?

Niente.


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mercoledì 17 agosto 2016

Signora Ava


E' difficile mettere un mondo in un libro, ma Jovine ci è riuscito. Un piccolo mondo antico, meridionale e molisano, un Mezzogiorno misconosciuto ai più, già a quell'epoca, quando, allora come ora, la Storia scorreva altrove. Un mondo meridionale e contadino, in cui il tempo pare essersi fermato ai tempi della mitica 'gnora Ava, l'età dell'oro in cui i mazzamaurriè (1) si divertivano a fare piccoli dispetti nelle case e un contadino poteva innamorarsi di una ninfa dei boschi. Un universo in palmo di mano, che sarebbe stato, di lì a poco, spazzato via dalla furia della modernità e dal vento della rivoluzione, come altri microcosmi in epoche successive, anch'essi in bilico fra la dura realtà dei campi, le superstizioni e le leggende - come non pensare al Singer de L'ultimo demone? (2) -.
Anche Jovine è scomparso, è svanito prima di essere scoperto, in quest'Italia che “coperta di capolavori, non sa né amarli né perfino conservarli e lascia un Tintoretto scomparire a poco a poco sotto la pioggia...” (3). Spentosi il clamore del Premio Viareggio 1950, il silenzio ritessè una tela di polvere sulle sue opere. Scivolò presto nel dimenticatoio, in compagnia di tanti giganti; sopra tutti, John Fante (4), lo scrittore più famoso caduto in oblio e Pascal d'Angelo, il poeta con picco e pala (the pick and shovel poet) (5), guarda caso, tutti abruzzesi e molisani.
Signora Ava è stato definito (6), per la ricchezza espressiva, la lucidità narrativa, l'universalità del dramma e il suo realismo magico, il nostro Cent'anni di solitudine (7). Io credo che non vi sia alcuna esagerazione. Anche perchè mi scatena un piacere sottile e perverso accostare la letteratura italo-meridionale a quella sudamericana.
Il romanzo di Jovine costituisce l'episodio meno celebre, ma centrale, in un trittico ideale aperto da I vicerè di De Roberto e chiuso da Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Un affresco niente affatto patriottico e celebrativo, e per questo motivo, tanto aderente alla realtà storica dei giorni fatidici e feroci in cui nacque l'Italia.
Cambiare tutto perchè nulla cambi.
In realtà, le cose cambiarono, e come cambiarono! Mutarono drasticamente, e niente fu più lo stesso. Soprattutto per la povera gente. Dagli errori di allora nacque l'Italia di oggi, una donna invecchiata precocemente, con il bel volto deturpato dalle cicatrici e un po' zoppa, figlia illegittima di quegli anni.
Signora Ava, rispetto agli altri due romanzi, è l'unico scritto dalla parte dei poveretti, dei contadini e dei cafoni, che subirono sulla loro pelle le novità del Risorgimento.
Concetta, alta, solenne, col capo chiuso in bende nere, gridò: Allegri figlioli, è arrivata la repubblica!” Una sagoma scura e dolente, che sembra ritagliata con forbici d'ingegno direttamente dalle pagine di una tragedia greca, fa il suo ingresso sulla scena, annunciando quello che non venne.
I poveri cafoni l'avrebbero scoperto presto e a loro spese.
Di lì a poco una guerra civile avrebbe dilaniato l'Italia meridionale – come altro si può chiamare lo scontro aspro e sanguinoso fra i nuovi padroni e i vecchi sudditi, passato alla storia come brigantaggio? -, si sarebbero aperte le cateratte dell'emigrazione, a milioni avrebbero attraversato gli oceani per le Americhe e l'Oceania. La nuova Italia nasceva piena di debiti e senza neppure gli occhi per piangere. E la casata maledetta che permise tutto questo fece ridere a crepapelle Guglielmo, imperatore di Germania, quando iscrisse d'ufficio la nostra Patria al club delle potenze coloniali: “L’Italia, un paese che cercava le colonie in Africa, quando le colonie ce le aveva a casa propria.
Se l'arte è un lavoro di scelta, come nel gioco delle carte, bisogna saper 'scegliere e scartare'. E Francesco Jovine è un grande giocatore. Eccovi qualche bella giocata.
La campagna addormentata sotto la neve: “Tutto bianco, tutto bianco avanti, indietro, all'infinito: il Signore fa di un colore unico le cose veramente misteriose, terribili. La varietà dei colori il Signore la offre per il nostro gioco di vecchi bambini. Ma il mare, il cielo, la neve, un colore solo.
Il sentore della fine: “La morte non aveva persuaso i nostri muscoli e le nostre anime che quello era il luogo per ricongiungerci col Tutto”.
Riflessioni sul senso della vita e della morte: “...si nasce dalle tenebre e ci si prepara lentamente a morire. Tra i due punti, tra il nascere e il morire c'è la vita: il nostro lungo errore. La morte ci riporta al punto di partenza ed elimina l'errore... La vita, troppo lunga, piena di rumori, di urla, di risa, di vanità, di delitti”.
E micro incursioni etico-esistenzialiste e sogni cosmogonici di concordia discors: “...buono, cattivo, angelico, diabolico, fuggire, credere, dubitare, sperare: ogni tanto tutto si fonde; per un attimo nasce l'armonia...”.
Grandi pagine di letteratura dal Molise, una terra ancora poco conosciuta.
E un accorato appello ai tecnocrati del Ministero della Pubblica istruzione. Per favore, mandate in pensione I promessi sposi e rimpiazzatelo con Signora Ava.
  1. Folletti delle credenze popolari del Molise, simili ai troll.

  2. Isaac Singer scriveva in una lingua che non esisteva più, l’antico yiddish e raccontava di un mondo che, al pari del suo linguaggio, non c’era più: il mondo contadino dell’Europa orientale, popolato da angeli e demoni.
  3. Marcel Proust, Lettere.

  4. Capolavori dimenticati come Chiedi alla polvere, Sogni di Bunker Hill e Full of life chiedono vendetta. Per la (ri)scoperta di Fante siamo tutti debitori a Charles Bukowsky.


  5. Goffredo Fofi, Prefazione a Signora Ava (Donzelli Editore, 2010).

  6. Gabriel Garcia Marquez; titolo originale Cien anos de soledad (1967).