domenica 31 agosto 2014

L'ultimo blues


Dio fece Adamo, poi Eva, infine,

si costruì una chitarra e cominciò a suonare.

Era blues.

 

Tom Hancock era un bambino come tutti gli altri, forse un po’ più silenzioso e più basso dei suoi compagni, ma nient’altro di particolare. Almeno fino a quel giorno, il giorno in cui aveva visto Elvis Presley in televisione impugnare la chitarra e intonare Heartbreak Hotel, dimenandosi come un forsennato. Tom era rimasto incantato dai suoi abiti assurdi, ricoperti di borchie e lustrini, dall’acconciatura che sfidava la forza di gravità e soprattutto da quella musica farcita di riff selvaggi e lancinanti, sparati a raffica dalla sua chitarra. Aveva stabilito che se quel signore dalla capigliatura improbabile e vestito in modo così eccentrico poteva imbracciare una chitarra a quel modo e cantare a squarciagola, allora poteva farlo anche lui.

Ancora non lo sapeva, ma da quel giorno niente sarebbe stato più lo stesso.

Cominciò a costruire chitarre elettriche. Le faceva, a imitazione di quelle vere, con cartone e legno e quanto alle corde, bastava il fil di ferro, che solo a sfiorarlo tagliava le dita. Dopo averle suonate a piacimento, le fracassava in terra a mò di zappa e appiccava il fuoco con i miseri resti, proprio come aveva visto fare in tivù da un altro strano personaggio, che con quegli occhi spiritati poteva essere solo venuto da un altro pianeta. Poi prendeva un altro pezzo di legno, un altro pezzo di cartone e ricominciava daccapo.

Dopo aver assistito alla distruzione della decima chitarra, suo padre disse a sua madre: “Donna, sta cercando di dirci qualcosa” e decise che era arrivato il momento di iscriverlo a una scuola di musica.

L’insegnante di musica nella scuola della città era un uomo onesto, che conosceva bene i propri limiti. Alla prima lezione, iniziò da dove avrebbero iniziato tutti, cioè dalla teoria. Mostrò a Tom Hancock come era fatto un pentagramma, gli spiegò cosa fossero le chiavi, gli insegnò a riconoscere la notazione, esaltò le potenzialità del sistema dodecafonico. Ma questo non era suonare la chitarra e a Tom questo non poteva bastare. Il maestro fu onesto e invece di cercare di guadagnare qualche soldo in più, propinandogli altre inutili lezioni di solfeggi, comprese che era meglio cominciare a insegnargli davvero a suonare. Così Tom poté finalmente impugnare una vera chitarra elettrica e il maestro gli mostrò i primissimi rudimenti di arte chitarristica, diteggiature, scale e gli accordi più semplici.

L’allievo era dotato. In pochi giorni si era impadronito di tutte le tecniche che il maestro gli aveva insegnato e suonava già con discreta perizia. L’insegnante era stupefatto, per anni giurò di non avere mai avuto uno studente così abile. Decise quindi di proseguire con cose molto più difficili e sospinse Tom verso accordi estesi e irregolari, armonici, none aggiunte, quarte e seste sospese, sovrapposizioni tonali.

Il ragazzo seguiva senza alcun problema il suo maestro, anche nelle scale più impervie o negli accordi più complessi, stava sviluppando un’eccellente tecnica ed era orgoglioso del lavoro svolto. Ben presto giunsero al confine delle conoscenze chitarristiche dell’insegnante. Così un giorno, al termine della lezione, che sarebbe stata anche l’ultima, ma questo Tom ancora non lo sapeva, mentre riponevano gli strumenti, il maestro gli disse con franchezza, che non aveva più nulla da insegnargli. In pochissimo tempo aveva raggiunto livelli inimmaginabili, non si era mai visto un ragazzo imparare a suonare la chitarra in tre giorni.

“Tom, lascia perdere il rock’n roll” disse, tuttavia, il maestro “Il rock’n roll è per fare soldi e sfilare le mutandine alle ragazzine.”

Si accese una sigaretta. “Tu sei molto dotato, sei un musicista vero, puoi andare oltre.” Aspirò una boccata e riprese la chitarra. “Devi suonare il blues” concluse. E con la sigaretta in bocca strimpellò un riff in mi maggiore.

“Perché, maestro dovrei suonare il blues?” chiese Tom.

“Perché il blues è tutto, senza blues non ci sarebbe nulla”

Gli spiegò che suonare il blues non era poi così complicato, perché in fondo, bastavano tre accordi e dodici battute. Per diventare un chitarrista qualunque era sufficiente conoscere a menadito tutte le posizioni delle mani sulla tastiera, imparare a memoria tutti gli accordi dell’universo, gli intervalli, i rivolti, le triadi e le scale, incatenare note su note agli assolo, sempre più veloci.

Per suonare il blues ci volevano tre accordi.

E l’anima.

Gli spiegò che era necessario tormentarsi, contorcersi, vomitare l’anima, per poter suonare il blues. Assorbire tutto il dolore del mondo e l’amarezza, la malinconia e il rimpianto, imbeversene come una spugna e restituirlo goccia a goccia, nota su nota, alle nostre sconfinate pianure terrene. E mai un attimo di tregua. Mai.

Perché suonare il blues era sentire il mondo. Quella era la differenza fra un chitarrista qualunque e un bluesman.

Il maestro fu onesto anche stavolta e glielo spiegò per bene. Ma ci sono due cose non si possono insegnare, gli disse, o ce le hai o non ce le hai e la prima cosa che non si poteva insegnare si chiamava talento e Tom il talento ce l’aveva innato, solo che non lo sapeva e l’altra cosa che non si poteva insegnare era suonare con l’anima e anche questa cosa, Tom ce l’aveva da quando era nato. Tom Hancock suonava con l’anima, come fosse la cosa più naturale del mondo.

Il maestro lo congedò.

Tom si esercitava dalla mattina alla sera. Non faceva altro che suonare tutto il santo giorno, fino a che le dita non gli sanguinavano e il fianco della chitarra, voluttuoso come quello di una bella donna, ma non altrettanto morbido, non gli lasciava un segno violaceo impresso sul costato. Progrediva rapidamente nella pratica dello strumento, le dita della mano sinistra acquisivano velocità e destrezza, la mano destra sviluppava la leggerezza necessaria per compiere vere e proprie scorribande sulle corde e maturare il tocco, quel modo personale di approcciarle, che è unico ed esclusivo per ogni chitarrista.

Un giorno prese la chitarra e andò in strada. Si sedette sul marciapiedi e iniziò a suonare. Era la prima volta che suonava quel brano. La musica fluiva potente dallo strumento acustico, evocava radici lontane, viaggi senza ritorno attraverso gli oceani, la dura fatica dei campi, nostalgia di tempi andati. Era la musica degli schiavi, andava avanti e indietro seguendo il ritmo del lavoro come un pendolo regolare e affondava vigorosa le radici in terra d’Africa.

Cominciò a radunarsi una piccola folla. Tom non se ne accorse e continuò a suonare. Ora fluivano echi di foreste, orge di timbri cupi e intensi risuonavano grevi per i tronchi, si disperdevano dentro i fusti impregnandone le fibre e dalle radici risalivano come linfa spinta nei dotti osmotici, fino ai rami più alti, ai ramoscelli teneri e alle giovani foglie, sempre più verso l’alto, sempre più su, fino a raggiungere la luce vivida ed eterna del sole.

Tom smise di suonare e restò a guardare lo sporco dei marciapiedi.

Il piccolo pubblico si era ammutolito. La gente era assorta e immobile. Nessuno parlava, non osavano quasi respirare per non sciupare la bellezza del momento. Dopo quella musica, ogni parola sarebbe stata vana e irriguardosa. Le parole avrebbero violentato l’aria con la loro approssimazione semiotica, l’avrebbero sporcata con i loro suoni aspri e gutturali, avrebbero cozzato contro mura d’incomunicabilità e si sarebbero perse nell’eco, come piccoli fiori neri d’inchiostro, recisi e dispersi nel vento, strappati dalle pagine di un libro che nessuno avrebbe mai letto. Ma le note no, non si sarebbero mai dissipate nel vuoto, non sarebbero state uccise dal silenzio. Avrebbero risuonato per sempre nell’aria, nella purezza e nella perfezione della luce, in quell’aria increspata appena come un mare calmo dalle onde sonore della chitarra di Tom. Esse avrebbero vibrato per sempre nei corpi attraversati dal blues, come un balsamo che lenisce le ferite e rende sopportabili anche le fatiche più dure. Questo la gente lo sapeva e per questo, continuava a tacere.

Tom Hancock scese in strada per suonare molte altre volte e molte altre volte ancora soggiogò il suo pubblico in quel modo gentile e profondo. Ogni volta la folla aumentava e i poliziotti spesso dovevano disperdere quegli assembramenti non autorizzati. Ma lo facevano solo quando la musica era finita. Anche loro restavano assorti ad ascoltare. Quella musica non poteva essere interrotta, era qualcosa di sacro e profano al tempo stesso, bianco e nero, vita e morte, salvezza e dannazione. Era maestosa e dimessa, solenne e dolce. Era come se promanasse da tutta l’umanità, come se il mondo intero danzasse a ritmo di blues. A volte, qualcuno tra il pubblico non riusciva a trattenere le lacrime.

A Tom piaceva quel contatto profondo con la gente, fatto di parole non dette e di sguardi non ricambiati, perché era intenso e violento, acuto e lancinante come una coltellata, sebbene preferisse non andare oltre certi limiti. Non gli piaceva mescolarsi alla folla e quando si accingeva a suonare, faceva in modo che vi fosse sempre uno spazio vuoto e sgombro, quasi una zona d’ombra, fra lui e gli altri. La gente si disponeva in cerchio intorno a lui, rimanendo a debita distanza, si attestava spontaneamente ai margini di una immaginaria linea di confine, sufficiente a rispettare il suo tacito imperativo, che pretendeva assenza di contatti diretti.

Al termine dei concerti Tom si sentiva sfinito, svuotato e prosciugato come al termine dell’amore. Ma non riusciva ad abbandonarsi completamente in nome dell’amore che provava per quelle persone, a offrirsi, inerme e indifeso, a quegli sguardi indiscreti che lo sezionavano, che penetravano fin nel profondo del suo essere. Non era in grado di sostenerli quegli sguardi, si sentiva nudo sotto la danza di centinaia d’occhi, spiato e osservato quasi fosse un animale raro rinchiuso in una scatola di vetro, esposto, traboccante d’imbarazzo, al pubblico ludibrio. Non era capace di parlare a quella gente, anche se desiderava molto farlo. Le parole che avrebbe voluto pronunciare gli si bloccavano in gola. Non era in grado di instaurare alcuna comunicazione diretta. Sapeva solo suonare il blues. Ma quando la musica finiva, lui restava a testa bassa, senza avere il coraggio di sollevare il capo e incontrare quegli occhi. Rimaneva immobile e solo, incapace di uscire dal cerchio magico disegnato dalla folla.

Al termine della musica, restava irrimediabilmente solo.

A Tom tutto questo non bastava, voleva di più, voleva attraversare quella zona d’ombra ancorata ai suoi piedi, tra sé e la gente, desiderava spezzare il cerchio delle ombre, irrompere al di là della muraglia dei corpi degli spettatori, devastare quell’agorafobia asfissiante per sfuggire al tormento di una clausura rigida e deliberata. Non sapeva neppure lui dire con certezza cosa desiderasse, tuttavia, era sicuro che quella cosa nessuno avrebbe potuto dargliela. A parte, forse qualcuno.

Anzi, solo uno avrebbe potuto.

Una sera, mentre suonava, aveva notato una figura tra il pubblico fissarlo intensamente, una persona mai vista prima. Tom non riusciva a vederla con chiarezza, poiché si trovava nel diaframma d’ombra fra un lampione e l’altro, ma era rimasto ugualmente colpito dall’intensità di quelle occhiate penetranti. Aveva subito abbassato gli occhi, ma avvertiva ugualmente la spiacevole sensazione di essere come traversato da parte a parte, nel corpo e nella mente, da quello sguardo magnetico, inevitabile, ammaliatore, mentre armeggiava con il suo strumento. Poco prima di distogliere lo sguardo, aveva notato che quello sconosciuto aveva gli occhi pieni di lacrime, ma, cosa che gli era parsa molto strana, neppure una cadeva sul suo viso. Al termine di quell’improvvisato concerto, quella persona, che alla luce dei lampioni si era rivelata essere un signore molto distinto, si asciugò una lacrima sul bordo della palpebra e si avvicinò.

“Ti ho ascoltato con attenzione Tom Hancock” esordì “Suoni molto bene”

“Grazie” rispose Tom alle sue scarpe, alquanto stupito per il fatto che conoscesse il suo nome.

“Suoni con l’anima. Davvero” proseguì quel signore elegante “Si percepisce in ogni nota, in ogni accordo, in ogni pausa. E’ molto bella la tua anima, amico mio”

Fece una breve pausa, come per trovare le parole adatte.

“Io posso farti suonare ovunque, Tom. Posso farti incidere dischi, farti diventare famoso” proseguì “Posso darti tutto quello che vuoi, io posso farti entrare negli occhi e nel cuore della gente, se tu suoni e dai l’anima, la tua grande anima, come facevi prima”

Tom finalmente lo guardò negli occhi – aveva occhi strani, chiarissimi e trasparenti come acquamarina - e annuì con un movimento appena percettibile del capo. Bastò questo e il signore distinto e vestito di nero lo fece salire sulla sua auto e lo portò lontano dalla folla.

Si fermarono poco dopo, al centro di un incrocio deserto. Arrestò il motore. Era una bella notte, silenziosa e piena di stelle.

Chi era quel misterioso personaggio? Si chiese. Un millantatore, un venditore di fumo? Oppure, con tutta probabilità, un povero mentecatto fuggito da uno dei tanti manicomi della zona? O, più semplicemente, uno che sapeva il fatto suo? Quest’ultima domanda gli diede i brividi, perché non sapeva quale potesse essere il fatto suo.

Il signore elegante e con il cappello in testa lo guardò “Tutto quello che devi fare è firmare il contratto” disse “Al resto penso io”

“Suonare il blues è tutto quello che voglio” disse Tom.

“Molto bene” rispose il signore distinto e con un grosso anello al dito “Allora firma qui, qui e qui”

Tom firmò ogni pagina del contratto, poi la copia e infine, un’altra copia e l’accordo fu concluso.

L’auto ripartì sgommando e lui rimase ritto sul marciapiedi a fissarla. La scia d’aria calda che si era lasciata dietro gli carezzò dolcemente il viso. Era una notte stupenda, su di lui le stelle incombevano con il loro mistero di bellezza.

Tom ebbe un vago presentimento, vide davanti a sé immagini confuse, urla, gente disperata, volti orribili che digrignavano i denti, immersi nella profondità di notti eterne.

Ripensò al misterioso personaggio. Non riusciva neppure a ricordare il suo volto. Qualcosa non andava, certe cose non capitano per caso. La notte era immobile, l’aria calma pareva l’avesse ingoiato col suo carico di misteri. Non aveva neppure una copia del contratto, nessuna prova che l’incontro fosse realmente avvenuto, non c’erano neppure tracce di pneumatici, la strada sterrata era intatta. Chiamò a testimonio le stelle e il vento del deserto e gli alberi immobili. Non risposero. Si sentì estraneo, assente, separato dal mondo e dalla vita, come se la natura stessa si rifiutasse di avere a che fare con quel distinto signore. Era svanito, inghiottito dalle viscere della terra. Per quanto ne sapesse, non era mai esistito.

Ma ormai era tardi e il contratto era stato firmato.

Tom era partito e la città era diventata all’improvviso più silenziosa.

Gli anni passavano, veloci come auto sportive in corsa su un’autostrada qualunque all’ora del tramonto, anni gravidi di folle adulanti, di vino, donne e canzoni, anni di lussuria sfrenata di musica e di vita, anni di luce, di stelle e denaro e le donne andavano e venivano come le onde del mare e per una che andava, ce n’era sempre una che tornava e su tutto questo c’era il blues, c’era soltanto il blues a imperare sovrano sulla sua vita e sulla sua anima.

La sua musica aveva girato il mondo e gli aveva fatto girare il mondo. Faceva quello che aveva sempre voluto fare: suonare il blues in giro per il mondo e il blues aveva suonato in giro per il mondo. Il suo nome era conosciuto ovunque e ovunque c’era una casa, una chiesa, una camera d’albergo, una cella di prigione, un angolo di bar in cui qualcuno stava ascoltando uno dei suoi dischi.

Tom cresceva, maturava, fioriva e si faceva uomo in quel marasma, ma ben presto si stancò di tutto questo. Era annoiato a morte dalla gente, da quelle persone tutte uguali che gli chiedevano l’autografo, che gli facevano sempre le stesse domande, che battevano le mani tutte allo stesso modo al termine dei concerti, gli pareva che avessero perfino tutte la stessa faccia. A Tom interessava il blues e al blues interessava Tom, così decise che quella gente, quelle donne, quelle facce, quelle luci, quei soldi e quegli anni che avevano girato così vorticosamente intorno a lui come uragani furiosi, mentre se ne stava calmo e tranquillo nell’occhio del suo ciclone personale, non c’entravano niente con il blues. Piantò tutto e tutti e se ne andò, insieme alla sua chitarra.

Tom era tornato e la città era diventata all’improvviso più vecchia.

Girò per le sue strade deserte, passò sotto i caseggiati familiari e sotto quelli dimenticati – una volta aveva amici, ora non aveva più nessuno - e raggiunse la strada principale. Alle cinque del mattino, al centro della città, c’era solo il rumore del vento.

Il blues scorreva lento e inarrestabile attraverso la chitarra, come un fiume dalle mille anse che si rigenera dopo ogni meandro. Tutto nasce dal blues, tutto torna nel blues, meditava il barista, mentre ascoltava assorto la canzone del ritorno di Tom Hancock e guardava le sue dita creare veloci fraseggi sulle corde, come uno sciamano che chiamasse gli angeli a danzare sulla tastiera della chitarra, solo per farli scacciare subito dopo da mostruosi sabba infernali, evocati dalla sei corde. Il blues è la lotta fra il bene e il male. Angeli e demoni danzavano nelle tenebre alle sue spalle e Tom cercava d’ingraziarsi gli uni e di esorcizzare gli altri.

Appollaiato sul suo sgabello, in quel bar polveroso e dimenticato anche dalla polizia, Tom Hancock suonava come un dio precipitato sulla terra per i pochi clienti presenti, pidocchiosi alcolizzati, cacciati a calci in culo da tutti gli altri locali della città. Si schiarì la voce e cominciò il canto.

La canzone parlava di un uomo piantato dalla sua donna, che bussava alla porta della casa di lei, ma nessuno veniva ad aprire. Il blues nacque quando Adamo ed Eva si videro per la prima volta, diceva John. E’ sempre la solita storia: un uomo, una donna, un cuore spezzato. Così diceva John Lee Hooker e sapeva di dire la verità.

La voce di Tom intonava la malinconia e il rimpianto, evocava l’amore trovato e perduto e mentre cantava era il ragazzo della canzone, il protagonista dal cuore spezzato. Attraverso la sua voce filtrava tutto il dolore del mondo.

Una donna si fece largo tra il pubblico e andò a sedersi sullo sgabello più vicino al bancone del bar. Accavallò con voluta lentezza le gambe e inarcò la schiena. Era una donna che sapeva di essere donna.

Tom non si voltò e continuò a suonare. Ora la sua voce esprimeva rabbia e sconforto, il ragazzo abbandonato prendeva a calci un barattolo e malediceva il proprio destino. La donna ascoltava rapita, si teneva il viso tra le mani, i gomiti appoggiati al bancone, le gambe accavallate. Nessun altro tra il pubblico presente era così attento alla musica. Erano quasi tutti ubriachi. I suoi occhi si riempirono di lacrime.

La canzone ebbe termine. La donna si asciugò velocemente una lacrima e si avvicinò.

“E’ molto bello quello che hai suonato”

Tom la guardò e non disse nulla. Era bella come un peccato, non aveva mai visto prima una bellezza simile, eppure aveva conosciuto molte donne. 

“Hai scritto tu la canzone?” chiese “E’ così bella, mi sono commossa, sai?”

“Si, è mia la canzone” rispose Tom. La donna aveva occhi così chiari e trasparenti, che gli parve di guardare il cielo dalla parte sbagliata. Ma c’era qualcosa in quegli occhi, qualcosa di indecifrabile e oscuro. Tom distolse lo sguardo. Poi, aggiunse un grazie.

“Sei tu il ragazzo della canzone?” chiese ancora la donna.

“Può darsi”

“Vorrei tanto essere io la donna della canzone” disse quella. Poi aggiunse: “Vorrei esserlo e dirti che sono tornata.”

Uscirono insieme dal bar. Montarono sul veloce roadster di Tom e sgommarono sulla strada. Mentre correvano via il tettuccio abbassato permise loro di ammirare la volta della notte, che si estendeva sul paesaggio come una coperta trapuntata di stelle. Si fermarono nei pressi di un incrocio deserto. Un’altra notte, un altro incrocio, un’altra vita balenarono fugaci fra i ricordi di Tom.

La donna gli accarezzò i capelli e lo attirò a se. Il suo corpo era morbido e caldo, i suoi capelli profumavano di fiori di campo.

La donna lo baciò. Lo strinse tra le braccia. Ma a Tom parve che quelle braccia lo cingessero con vigore eccessivo, quasi fuori misura per una donna. La sua mano trovò subito la sua carne viva, liscia come seta. Lei era nuda, morbida, piena, calda di miele. Il desiderio era una domanda silenziosa che urlava nel suo cervello. Si proiettarono in un vortice, in un turbine di vento e di fiamme. Poi esplosero insieme in schegge di stelle.

La donna lo guardava intensamente negli occhi, con quegli occhi che ora parevano verdi come il mare, come l’erba delle praterie, come i riflessi di uno smeraldo.

Tom li trovava bellissimi, eppure c’era qualcosa in quegli occhi, qualcosa che non riusciva a decifrare, ma che era al tempo stesso familiare e oscuro, qualcosa da cui stare alla larga, ma che lo attirava come una fiamma attira la falena, disposta a sacrificare la sua breve vita, a divampare come una meteora per un breve istante, pur di potersi solo avvicinare, sfiorare soltanto la bellezza delle fiamme.

“Ti ricordi di me, Tom?” chiese la donna.

“No” rispose Tom.

“Davvero non ti ricordi?” insisté la donna “Hai firmato un contratto, dovresti ricordartene, anche se è passato un po’ di tempo”

Tom ristette incerto.

“Guarda meglio” ingiunse la donna e spalancò gli occhi.

Egli guardò nuovamente in quegli occhi. Erano grandi, vasti come lune gemelle, satelliti di un pianeta sconosciuto. Erano belli. Ma qualcosa si agitava nella loro profondità come un riflesso in fondo a un pozzo, qualcosa si nascondeva oltre la verde cortina delle iridi. Qualcosa di strano e oscuro. Tom aguzzò lo sguardo, si sforzò di scrutare in fondo a quegli occhi misteriosi e finalmente vide.

E vide quello che non voleva vedere.

Oltre il verde smeraldo, attraverso le pupille nere come il carbone, nel fitto reticolo di sangue in fondo alle retine, Tom vide quel luogo il cui nome è misterioso e impronunciabile, vide il regno di Geenna, l’abisso della disperazione e del dolore, la bolgia oscura del tormento e della perdizione, l’orgia assetata di sangue, l’orrendo sabba dei lemuri. Vide l’oscurità. Vide il regno delle fiamme.  

Fu allora che Tom comprese. Comprese chi fosse davvero quella donna e che era giunta l’ora di saldare un vecchio debito.

La donna tirò fuori alcuni fogli dalla borsetta e glieli sventolò sotto il naso. Tom sfogliò quelle pagine ingiallite dal tempo e riconobbe la sua firma. Aveva scritto il suo nome sotto ogni pagina con inchiostro scuro, che alla luce della luna si era acceso di rosso scarlatto, il colore del sangue. Erano tre copie del contratto, ciascuna di sei pagine. Aveva firmato tre volte sei, il numero della bestia.

Non ebbe paura, non cercò di fuggire. Una strana calma si era impadronita delle sue membra. Si sentì solo, distante dal mondo, lontano dal suo pubblico, dalla gente. Sapeva che nessuno avrebbe potuto aiutarlo. Neppure Dio. Si rese conto in quell’istante che il Signore di tutte le cose, il Padre di tutti gli esseri, soffriva della sua stessa solitudine.

La donna lo strinse più forte fra le braccia, come un’amante troppo focosa e passionale. Tom tentò di divincolarsi, ma la stretta era più forte di una morsa e più si dibatteva e cercava di divincolarsi, più si accorgeva che le sue forze venivano meno, si indeboliva a ogni tentativo. Quegli occhi terribili lo fissavano e lui ne era affascinato. Quegli occhi lo ipnotizzavano, come fa il cobra con la vittima, prima di morderla. La bocca della donna si attaccò alla sua e sentì quelle labbra infuocate, la lingua in fiamme, la saliva rovente e il fiato, caldo come il vento del deserto, arroventato dal sole e dimenticato dalla pioggia. Quel respiro che non era respiro, che avrebbe ucciso in miserabili frazioni di secondo milioni di esseri umani, sembrava provenire dalle viscere della terra come un orribile miasma rigurgitato dalle profondità nascoste. Quella donna risucchiava il suo respiro, lo lasciava senza fiato, come quando, poco prima, ne aveva ammirato l’eccezionale bellezza. Respirare era impossibile, i fluidi corporei si prosciugavano in lui come fiumi in secca, la pelle inaridiva. Tom restituiva l’anima e la deponeva nel calice prezioso, tempestato di rubini e avorio, che era la bocca di quella donna.

La bocca dell’inferno.

Tom si afflosciò, come un palloncino sgonfio e ricadde su sè stesso. Fu come cadere all’indietro, precipitare all’interno di sè, in un pozzo senza fondo.

Tom Hancock chiuse gli occhi per sempre.

La donna svanì. E il signore dell’ombra, che era sorto dalle profondità spaventose della terra per incarnarsi in quel corpo splendente di femmina, comparve al suo posto in tutta la sua maestà e tristezza infinita. Vestito di nero, con il cappello in testa e il grosso anello al dito, era proprio quel signore elegante e distinto di tanti anni prima venuto a riscuotere il suo credito e la sua figura malinconica e imponente ristette immobile ed eterna presso il corpo del musicista.

Ma non pronunciò quella volta parole terribili, non velò i suoi occhi d’odio, non stillò gocce di veleno dal cuore e non annullò il suo ricordo. Gli accarezzò i capelli per l’ultima volta, si asciugò una lacrima e sorrise dolcemente.

“Suonavi proprio bene Tom”

Attese che le sue parole si spegnessero nel silenzio effimero, ineffabile che ricopriva tutte le cose con il suo manto d’ombra. Poi volse le spalle e come avrebbe fatto chiunque altro si perse nella notte.

 

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venerdì 29 agosto 2014

I hate shopping!


 

“Sù parcheggia! E’ qui.”

M’infilo nell’unico buco disponibile lungo il marciapiedi e peccato se c’è divieto di sosta e fermata e pazienza se sono proprio sulle strisce pedonali e accidenti se ci sono vigili urbani nei paraggi, con la moglie e la suocera non si discute, si ubbidisce. A dir la verità, prese singolarmente, riuscirei a tenere testa a entrambe, ma così, insieme, no, sono destinato a soccombere sotto il loro imperioso, stereofonico: “Parcheggia!”.

Mentre scruto l’orizzonte, cercando di cogliere in anticipo l’avvicinarsi di eventuali divise e sgattaiolare nel traffico prima del loro arrivo, sento sbattere le portiere dell’auto e le due uniche artefici del mio destino, possedute dalla fregola dello shopping, svaniscono presto tra la gente. Ora sono solo.

Recupero l’agenda dal cassetto del cruscotto, mi lascio trasportare dal flusso dei pensieri e comincio a scrivere.

“Che Dio ti benedica, che tu possa avere una lunga vita e godere tutte le fortune di questo mondo, soldi, donne, salute… “

Ecchecazzo! Non ho fatto neppure in tempo a scrivere una riga! A questo mondo non si può neppure aspirare a essere lasciati in pace per cinque minuti. Mi volto. Gli occhi scuri e profondi di una zingara mi scrutano.

“…a te e ai tuoi figli, tutte le gioie, la felicità e le ricchezze di questo mondo, pace e prosperità sulla tua casa… “

“Va bene, va bene! Mi hai convinto”. Interrompo le sue litanie e metto mano al portafoglio. So bene che se non lo facessi, ricomincerebbe a cantarmi le sue filastrocche, ma stavolta al contrario, augurandomi tutte le maledizioni di questa terra. Inizia così una ricerca spasmodica degli spiccioli, ma mi accorgo di avere solo cinque o sei centesimi, un bottone, un paio di monete fuori corso (la cara vecchia lira!) e una moneta da due euro. Cincischio un po’ con le monete, cerco di prendere tempo, ma è inutile, so già che sceglierò la moneta da due euro, perché sono fatto così: davanti a chi chiede non so dire di no e non so deluderne le aspettative.

Depongo la moneta nel palmo della sua mano. La fa sparire in un lampo e mi afferra entrambe le mani. E’ stata lesta, non me l’aspettavo e non sono riuscito a ritrarle, ma le sue mani sono calde e inaspettatamente morbide e stringono forte le mie. E’ come un nodo che non riesco a svellere. La guardo meglio. La sua acconciatura improbabile, le larghe e lunghe vesti che indossa non riescono a dissimulare la sua età. E’ giovane e il suo seno florido preme contro lo sportello. Ma non è questo a trattenermi. Sono i suoi occhi penetranti e il calore e la forza della sua stretta, che non riesco a sciogliere.

“Tu sei tanto invidiato… “ comincia a dire “ … e hai tanti problemi…”

“E chi non li ha?”

“Dove abiti? Che lavoro fai?”

“Questo dovresti saperlo già, o no?” faccio ironico, sfidando le sue doti divinatorie.

“Stai aspettando tua moglie, vero?”

“E anche mia suocera. Brava!”

Questa è stata una facile previsione però, penso. Basta guardare l’interno della mia auto, che straripa di buste di vestiti e calzature da donna e comincia a somigliare alla vettura di un agente di commercio.

“Ora, lasciami le mani”. Tento di tirare, ma lei non molla. Andiamo avanti un po’ con quella pantomima, con quello strano braccio di ferro mano nella mano, io tiro a me e lei tira a se, ma il risultato non cambia, siamo sempre in parità, in bilico sul finestrino aperto. Comincio a pensare che voglia sfilarmi l’orologio e il braccialetto che porto al polso, o che abbia adocchiato il cellulare. Non ci metterebbe nulla a farlo sparire con le sue doti magiche. Ma mi sbaglio, pare che non sia questo che le interessi. E intanto, i miei occhi e le mie mani non riescono a staccarsi dai suoi occhi e dalle sue mani.

“Qual è il tuo desiderio più grande?”

“Mantenere quello che ho”.

Ho risposto proprio così, ma era come se a rispondere alla zingara fosse stato un altro e non io. Avevo risposto a lei, ma era più come se avessi risposto a me stesso, a una domanda che non mi ero mai posto, ma che aleggiava da tempo in me, da qualche parte, e che la gitana, con la sua curiosità interessata, aveva risvegliato. Ero stupito da quella risposta.

“Ora ti dò un portafortuna, che ti aiuterà nella vita… “ riprende a dire, ma lo stupore di poco prima mi dà la forza per dirle di no.

“Mi dispiace, ma non credo a queste cose”

Lei ci è rimasta male, è delusa e triste al tempo stesso, come se la matassa che stava con pazienza svolgendo si fosse annodata, o più semplicemente perché non avevo voluto accettare il suo dono. Ne approfitto per liberare le mani dalla sua morsa. I suoi begli occhi neri sono velati, stavolta non fa resistenza e lascia sfilare le mie mani, lentamente, dalle sue.

“Buona fortuna!”

“Anche a te”

Se ne va appena in tempo per non incrociare mia moglie e mia suocera che stanno tornando e mi risparmio le loro raccomandazioni di non dare confidenza agli sconosciuti, neanche fossi un bimbetto di tre anni e non un uomo bell’e fatto, neanche se lo sconosciuto in questione ha le sembianze di una bella zingara dagli occhi neri e ammaliatori e il seno prosperoso.

Anzi, soprattutto per questo.

Scarrozzo ancora per un po’ le mie donne senza sbuffare, affronto stoicamente, a loro richiesta e nell’ordine: un senso vietato, un semaforo rosso e una pista ciclabile, subendo senza fiatare gli improperi di un ciclista, quindi, mi sorbisco le ultime novità di Grey’s Anatomy e, infine, apprendo, con viva partecipazione, che quest’estate va di moda lo shatush, i pantaloni a vita alta e i gonnoni plissettati.

Ma ogni cosa prima o poi ha una fine e anche gli acquisti, grazie a Dio, giungono al termine. Torniamo a casa. Quando sua madre va – finalmente - via, mia moglie mi abbraccia e mi bacia.

“Sei stato tanto paziente con me e mia madre, oggi. Più del solito”

Non le rispondo. Mi limito a sorriderle sornione. E intanto, penso all’alta pila di vestiti, scarpe e suppellettili per la casa, che giace, incombente e minacciosa, all’ingresso. So bene che tra un po’ mi chiederà di darle una mano a metter via tutto.

“Qual è il tuo desiderio più grande?” domanda, invece, come se volesse premiarmi, farmi un regalo. I suoi occhi sembrano più grandi e ammiccano.

Mille pensieri, centinaia di desideri, decine e decine di richieste mi passano per la mente. Ma stavolta non ho dubbi. Ed è la mia voce a rispondere e non quella di qualcun altro.

“Mantenere quello che ho”.

 

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mercoledì 27 agosto 2014

Curiosity kills


 

Un tedioso pomeriggio estivo, il sole piove spietato sulla strada rovente. Nella stanza in penombra, dove cerco rifugio dai suoi raggi, traspira la calura e le teste ciondolano, qualcuno si appisola. Il tempo non passa mai in compagnia di chi ci è indifferente o addirittura molesto. Vorrei sprofondare anch’io nel sonno, ma non ci riesco, il respiro ritmico e profondo di chi si è addormentato, o peggio, il russare profondo e cacofonico mi disturba, il chiacchiericcio di chi è ancora sveglio è un ronzio da insetto che mi avvelena i nervi.

Così, più per abitudine che per necessità, accendo il notebook. La pagina iniziale è quella di un famoso social network. Sfoglio pagine su pagine, profilo dietro profilo, chi s’è sposato, chi si è trasferito, chi ha avuto un figlio. Vita che va, vita che viene. Curiosità piccata, al limite del morboso, prende il posto del mio malessere. V’è un che di indecoroso nello sbirciare nelle vite d’altri, esplorare gli altrui album fotografici – mi sento quasi un voyeur - e scoprire che sono stati in posti che, forse, non vedremo mai, che fanno sport che non avremo il coraggio o la costanza di praticare, che hanno più amici di noi, sorridono di più, insomma, se la passano meglio. E, un vago senso che non è agevole definire, acido come un rigurgito, un pizzico di leggera invidia, misto a un grammo di nostalgia, mi afferra alla bocca dello stomaco e mi dà nausea. Quasi quasi, preferivo l’irritazione verso chi ronfava.

E di che mi stupisco? Sul libro delle facce c’è il mondo intero e s’incontrano tanti ex. Ex colleghi, ex amici, ex fidanzate. E scatta puntuale il meccanismo del rimpianto, la tagliola delle domande insolenti e pericolose, pericolose perché possono far male: chissà, se non l’avessi lasciata ora sarei al posto di quell’insulso maritozzo che l’ha sposata e che si erge, sorridente e palestrato, da un album di fotografie delle vacanze al mare. Guarda caso, è più muscoloso di me, è più sportivo di me, sicuramente guadagna più di me e, si vede, la fa ridere più di quanto potevo farlo io. Lei sembra felice, il suo sorriso è franco, aperto, sincero. I suoi occhi sono belli e trasparenti, non conoscono neanche un’oncia di tristezza, non indossano da lungo tempo il velo della malinconia. Insomma, si sono sposati, hanno avuto figli, vanno in vacanza, se la passano bene, mi pare. Una famiglia felice, che gode una felicità che io non avrei saputo darle.

Mi sono stufato di fare il guardone e penso che dovrei rimettere ordine nella mia vita. Spengo il notebook e lo metto via. I miei occhi riprendono confidenza con la penombra e scorgono un quotidiano che si solleva e si abbassa ritmico sul prominente addome di un tizio che conosco appena e ronfa saporitamente. Lo raccatto e inizio a sfogliarlo. Le solite notizie: lo spread diminuisce, la depressione aumenta, la ripresa ci sarà, forse, il prossimo semestre. D’un tratto, rivedo quel sorriso, nella pagina della cronaca nera.

Coniugi trovati morti in casa. Si sospetta un caso di omicidio – suicidio.

 

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lunedì 4 agosto 2014

About a writer


 

Perché non scrivo a biglia sciolta e lascio che sia la matita a guidare la mia mano e non viceversa? Forse il risultato sarebbe migliore.

Come suono, così scrivo. A orecchio, senza chiavi, scale, pentagrammi, crome, semicrome e dodecafonie. Scrivo intuendo le regole grammaticali, a volte parafrasandole, altre, sfiorandole appena.

Mi sto lentamente svuotando dei pensieri tenuti dentro per tanto, troppo tempo…

Più che saper scrivere, mi piace farlo. Compenso con la scrittura la mia scarsa loquacità. Eppure, dopo una certa ora, la scrittura diventa fluida, regolare come lo scorrere del tempo sulla cassa di un orologio antico, ma affidabile. Le ore notturne sono fatte per sognare, per amare e per scrivere.

A volte abbiamo solo bisogno di un filo conduttore, di una trama portante alla quale ancorare i nostri discorsi che, altrimenti, svanirebbero nel vuoto. E anche di luoghi dal suono anonimo, che svettino discreti sull’incedere stentato dei nostri pochi versi.

 
Un romanzo deve somigliare a un viale pieno di sconosciuti, in cui passano solo due o tre creature che conosciamo a fondo, non di più”. E’ quanto Irene Nèmirovsky fa dire allo scrittore Gabriel Corte in Temporale di giugno. E le comparse, i comprimari, gli attori non protagonisti? mi chiedo. Gente che passa, che va e che viene, come cartacce in balia del vento. Così è la vita. E il romanzo è come uno specchio in cui essa si riflette, ma senza eccessivo realismo, altrimenti, basterebbe leggere i giornali, la cronaca nera. E la letteratura dev’essere paradigma dell’esistenza, della vita come archetipo, affinchè la narrazione ne sia il suo simulacro.
I tuoi occhi mi dissetano” dice intanto Corte all’amata, odiata Florence.
Forse, dovrei arricchire i miei romanzi e racconti con più personaggi, non tanto per allungare il brodo e poter scrivere pagine su pagine, in fondo, non mi pagano a cottimo, come gli scrittori russi dell’ottocento, anzi, non mi pagano affatto. In verità, per contratto mi spetterebbe il 10% del prezzo di copertina, somma che però la casa editrice trattiene per le spese di promozione (che poi non sostiene), il che equivale a non pagarmi affatto.
No, dicevo, lo scopo non è quello di fare volume, ma di disegnare dei comprimari d’animo superiore ai protagonisti, per umiliare i personaggi principali, altra lezione di Corte e, attraverso di lui, della Nèmirovsky in persona. Florence lo trova bello, con “modi languidi e crudeli come quelli di un gatto, mani morbide, espressive, e un volto da Cesare un po’ imbolsito”. Le mie narrazioni hanno pochi personaggi, non ho trovato necessario finora arricchire il novero delle dramatis personae, preferendo ridurlo all’essenziale. Dicevo, dunque, pochissimi personaggi. Quelli principali emergono appena dalla pagina, come bassorilievi debolmente abbozzati, o sagome confuse nella nebbia, mentre a volte sono intagliati con decisione nella pietra, a seconda della forza e intensità d’animo che voglio conferire a essi e, elemento non secondario, del punto di vista dal quale sono ritratti sulla pagina. Scrivere somiglia un po’ a fare il regista. Posso decidere, nel corso della narrazione, se stare più vicino al protagonista, con la mia telecamera cartacea e seguirne le gesta, oppure tenerlo un po’ in disparte e stargli discosto per rincorrere invece gli altri personaggi, passando freneticamente dall’uno all’altro, senza far prevalere nessuno, o infine, puntarla direttamente sul mio io interiore, l’io narrante e rincorrere tutti allo stesso modo, senza far torto a nessuno.
Una buona strategia narrativa è quella di raccontare della vita di personaggi distinti tra loro, senza alcun collegamento apparente e aggiungerne di nuovi a ogni capitolo. E poi far confluire le loro esistenze in una narrazione univoca, come affluenti che si ricongiungono a un grande fiume, che solo verso la fine del romanzo o racconto si ricompone, e lasciare che il suo delta conclusivo sfoci nel magno mare - animo del lettore.
E le vicende. Non trascuriamo le vicende, complesse, intrecciate, apparentemente inestricabili, come ricamate da illustri scrittori, soprattutto nel genere thrilling e sottogeneri come legal thrilling, noir, giallo, fantasy, che io non amo. A me non piace tanto intrecciare, soprattutto perché non sono bravo a sbrogliare poi la matassa e trovare il bandolo, parola mia, non è alla portata di tutti. Così, preferisco storie semplici e reali. Credo, infatti, che negli avvenimenti più semplici si nascondano, a volte, i più grandi drammi.
Ma, sveliamo piaceri nascosti. Scrivere sulla carta rubata, sull’agenda o sul taccuino di qualcun altro è molto più stimolante che inzaccherare fogli che ci appartengono, ci colma d’ispirazione, non so perché, mentre con fare furbo e sornione verghiamo le nostre frasi e, soprattutto, ci fa pronti per un altro furto. Per questo motivo, non compro mai block notes o quaderni. Scrivo sempre su carta di contrabbando, proprietà d’altri.
Accidenti, voglio protestare contro i produttori mondiali di matite! La mina dura più della gomma destinata a cancellarne il tratto, sul lato opposto dello stilo, così che, da un certo momento in poi, la revisione della scrittura diventa un affare scomodo. E per qualche misterioso motivo, la gomma da cancellare non è mai a portata di mano…
Sono morto bambino, una notte d’estate, nel mio letto.
Secondo Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, il nucleo di un racconto, di un romanzo, di una storia, il “core” insomma, non è un avvenimento, né può essere un paesaggio o una persona, ma un concetto. E questa idea dev’essere espressa da non più di due, tre parole. Se sono quattro, già sono troppe e vuol dire che bisogna lavorarci ancora su, fino a raffinarlo, sgrezzarlo come un diamante, ridurlo a un concetto essenziale, che non è possibile comprimere ulteriormente.
Si dice in giro che gli scrittori siano persone spregevoli. Si rinchiudono per ore e a volte per giorni nel loro inferno privato, in cui fanno marcire i loro sogni per far nascere storie da raccontare. Non si fermano davanti a nulla, sacrificano gli affetti più cari e non esitano a mettere a nudo i fatti loro, le debolezze, i sogni, gli incubi, i desideri, i fallimenti e la disperazione più nera.
Non sono una vigliacca” dice la scrittrice Jamaica KincaidSono una persona che scrive di se stessa. Come ho sempre fatto.
Così, ho scoperto (non ci avevo mai fatto caso), che scrivo sempre in prima persona, almeno la prima stesura; poi, rivolgo i verbi in terza persona, esco dalla storia e mi fermo a guardarla da fuori, come uno spettatore qualsiasi, come se non mi appartenesse più. Ma ognuna delle mie storie, lunghe o corte, belle o brutte, misere, scadenti o appena decenti, nasce dal mio vissuto, dalle mie esperienze personali, dalla caduta dei sogni, anzi, sono frammenti dei miei sogni caduti, infranti, che mai più si ricomporranno.
Credo che ci sia qualcosa di mostruoso nella personalità degli scrittori, degli artisti in generale. Se l’egoismo può definirsi mostruoso. Come la maggior parte degli scrittori – ve lo garantisco – ho dovuto convincermi della necessità di anteporre senza rimorsi le esigenze della mia attività di scrittrice agli obblighi umani”. Così scriveva Nadine Gordimer, recentemente scomparsa, in Tempi da raccontare. Ciò che scrive si riallaccia in modo vigoroso a quanto sostiene Jamaica Kincaid e conferma la teoria dell’esistenza di una sorta di depravazione che colpisce chi è dedito all’adorazione delle Lettere, chi è arso dal fuoco sacro e indomabile della Scrittura, i segaci di Euterpe, Talia, Melpomene, Erato e Calliope.
Ma al di là dell’egoismo e dell’immoralità, io credo che tutti possono essere scrittori. Perché ognuno di noi ha almeno una storia da raccontare.