Perché non scrivo a biglia sciolta e
lascio che sia la matita a guidare la mia mano e non viceversa? Forse il
risultato sarebbe migliore.
Come suono, così scrivo. A orecchio,
senza chiavi, scale, pentagrammi, crome, semicrome e dodecafonie. Scrivo
intuendo le regole grammaticali, a volte parafrasandole, altre, sfiorandole
appena.
Mi sto lentamente svuotando dei pensieri
tenuti dentro per tanto, troppo tempo…
Più che saper scrivere, mi piace farlo.
Compenso con la scrittura la mia scarsa loquacità. Eppure, dopo una certa ora,
la scrittura diventa fluida, regolare come lo scorrere del tempo sulla cassa di
un orologio antico, ma affidabile. Le ore notturne sono fatte per sognare, per
amare e per scrivere.
A volte abbiamo solo bisogno di un filo
conduttore, di una trama portante alla quale ancorare i nostri discorsi che,
altrimenti, svanirebbero nel vuoto. E anche di luoghi dal suono anonimo, che
svettino discreti sull’incedere stentato dei nostri pochi versi.
“Un romanzo deve somigliare a un viale pieno
di sconosciuti, in cui passano solo due o tre creature che conosciamo a fondo,
non di più”. E’ quanto Irene
Nèmirovsky fa dire allo scrittore Gabriel
Corte in Temporale di giugno. E le comparse, i comprimari, gli attori
non protagonisti? mi chiedo. Gente che passa, che va e che viene, come cartacce
in balia del vento. Così è la vita. E il romanzo è come uno specchio in cui
essa si riflette, ma senza eccessivo realismo, altrimenti, basterebbe leggere i
giornali, la cronaca nera. E la letteratura dev’essere paradigma dell’esistenza,
della vita come archetipo, affinchè la narrazione ne sia il suo simulacro.
“I tuoi occhi mi dissetano” dice intanto
Corte
all’amata, odiata Florence.
Forse, dovrei arricchire i miei romanzi
e racconti con più personaggi, non tanto per allungare il brodo e poter scrivere
pagine su pagine, in fondo, non mi pagano a cottimo, come gli scrittori russi
dell’ottocento, anzi, non mi pagano affatto. In verità, per contratto mi
spetterebbe il 10% del prezzo di copertina, somma che però la casa editrice trattiene
per le spese di promozione (che poi non sostiene), il che equivale a non
pagarmi affatto.
No, dicevo, lo scopo non è quello di
fare volume, ma di disegnare dei comprimari d’animo superiore ai protagonisti,
per umiliare i personaggi principali, altra lezione di Corte e, attraverso di lui, della Nèmirovsky in persona. Florence
lo trova bello, con “modi languidi e crudeli come quelli di un
gatto, mani morbide, espressive, e un volto da Cesare un po’ imbolsito”.
Le mie narrazioni hanno pochi personaggi, non ho trovato necessario finora
arricchire il novero delle dramatis personae, preferendo
ridurlo all’essenziale. Dicevo, dunque, pochissimi personaggi. Quelli
principali emergono appena dalla pagina, come bassorilievi debolmente
abbozzati, o sagome confuse nella nebbia, mentre a volte sono intagliati con
decisione nella pietra, a seconda della forza e intensità d’animo che voglio
conferire a essi e, elemento non secondario, del punto di vista dal quale sono ritratti
sulla pagina. Scrivere somiglia un po’ a fare il regista. Posso decidere, nel
corso della narrazione, se stare più vicino al protagonista, con la mia
telecamera cartacea e seguirne le gesta, oppure tenerlo un po’ in disparte e stargli
discosto per rincorrere invece gli altri personaggi, passando freneticamente
dall’uno all’altro, senza far prevalere nessuno, o infine, puntarla
direttamente sul mio io interiore, l’io narrante e rincorrere tutti allo stesso
modo, senza far torto a nessuno.
Una buona strategia narrativa è quella
di raccontare della vita di personaggi distinti tra loro, senza alcun
collegamento apparente e aggiungerne di nuovi a ogni capitolo. E poi far
confluire le loro esistenze in una narrazione univoca, come affluenti che si
ricongiungono a un grande fiume, che solo verso la fine del romanzo o racconto
si ricompone, e lasciare che il suo delta conclusivo sfoci nel magno mare -
animo del lettore.
E le vicende. Non trascuriamo le
vicende, complesse, intrecciate, apparentemente inestricabili, come ricamate da
illustri scrittori, soprattutto nel genere thrilling
e sottogeneri come legal thrilling, noir, giallo, fantasy, che io
non amo. A me non piace tanto intrecciare, soprattutto perché non sono bravo a
sbrogliare poi la matassa e trovare il bandolo, parola mia, non è alla portata
di tutti. Così, preferisco storie semplici e reali. Credo, infatti, che negli
avvenimenti più semplici si nascondano, a volte, i più grandi drammi.
Ma, sveliamo piaceri nascosti. Scrivere
sulla carta rubata, sull’agenda o sul taccuino di qualcun altro è molto più
stimolante che inzaccherare fogli che ci appartengono, ci colma d’ispirazione,
non so perché, mentre con fare furbo e sornione verghiamo le nostre frasi e,
soprattutto, ci fa pronti per un altro furto. Per questo motivo, non compro mai
block notes o quaderni. Scrivo sempre su carta di contrabbando, proprietà
d’altri.
Accidenti, voglio protestare contro i
produttori mondiali di matite! La mina dura più della gomma destinata a
cancellarne il tratto, sul lato opposto dello stilo, così che, da un certo
momento in poi, la revisione della scrittura diventa un affare scomodo. E per
qualche misterioso motivo, la gomma da cancellare non è mai a portata di mano…
“Sono morto bambino, una notte d’estate, nel
mio letto.”
Secondo Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, il nucleo di un racconto, di un romanzo, di una storia, il “core”
insomma, non è un avvenimento, né può essere un paesaggio o una persona, ma un
concetto. E questa idea dev’essere espressa da non più di due, tre parole. Se
sono quattro, già sono troppe e vuol dire che bisogna lavorarci ancora su, fino
a raffinarlo, sgrezzarlo come un diamante, ridurlo a un concetto essenziale,
che non è possibile comprimere ulteriormente.
Si dice in giro che gli scrittori siano
persone spregevoli. Si rinchiudono per ore e a volte per giorni nel loro
inferno privato, in cui fanno marcire i loro sogni per far nascere storie da
raccontare. Non si fermano davanti a nulla, sacrificano gli affetti più cari e
non esitano a mettere a nudo i fatti loro, le debolezze, i sogni, gli incubi, i
desideri, i fallimenti e la disperazione più nera.
“Non sono una vigliacca” dice la
scrittrice Jamaica Kincaid “Sono
una persona che scrive di se stessa. Come ho sempre fatto.”
Così, ho scoperto (non ci avevo mai
fatto caso), che scrivo sempre in prima persona, almeno la prima stesura; poi,
rivolgo i verbi in terza persona, esco dalla storia e mi fermo a guardarla da
fuori, come uno spettatore qualsiasi, come se non mi appartenesse più. Ma
ognuna delle mie storie, lunghe o corte, belle o brutte, misere, scadenti o
appena decenti, nasce dal mio vissuto, dalle mie esperienze personali, dalla
caduta dei sogni, anzi, sono frammenti dei miei sogni caduti, infranti, che mai
più si ricomporranno.
“Credo che ci sia qualcosa di mostruoso nella
personalità degli scrittori, degli artisti in generale. Se l’egoismo può
definirsi mostruoso. Come la maggior parte degli scrittori – ve lo garantisco –
ho dovuto convincermi della necessità di anteporre senza rimorsi le esigenze
della mia attività di scrittrice agli obblighi umani”. Così scriveva Nadine Gordimer, recentemente
scomparsa, in Tempi da raccontare. Ciò che scrive si riallaccia in modo
vigoroso a quanto sostiene Jamaica
Kincaid e conferma la teoria dell’esistenza di una sorta di depravazione che
colpisce chi è dedito all’adorazione delle Lettere,
chi è arso dal fuoco sacro e indomabile della Scrittura, i segaci di Euterpe,
Talia, Melpomene, Erato e Calliope.
Ma al di là dell’egoismo e
dell’immoralità, io credo che tutti possono essere scrittori. Perché ognuno di
noi ha almeno una storia da raccontare.
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