martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Parte prima Nox - Capitolo I



                                                   Hotel Vasteland



Questo romanzo non ha la pretesa dell'accuratezza storica; vi sono riportati fatti realmente accaduti, seppure in momenti storici diversi rispetto a quelli narrati.

I lettori sono avvisati.



Videmus nunc per speculum in aenigmate.

Ora vediamo attraverso uno specchio, nell’oscurità.

Paolo di Tarso, Lettera ai Corinzi




Parte prima

Nox



I

La stanza era buia e nuda. Un ticchettare ostinato, ritmico, compulsivo sconvolgeva le ultime pieghe della notte, nella luce incerta che preannuncia il giorno. La coscienza lentamente si risvegliava, la ragione si liberava dai tentacoli del sonno e spezzava le inferriate della prigione onirica nella quale era stata reclusa.

Cosa aveva sognato?

Tentò di ricordare, di riportare a galla i sogni. Scrutò nei foschi recessi dei neuroni, lungo i tortuosi meandri della coscienza, nei bui cunicoli della memoria.

Niente.

Nessun ricordo affiorava dal fiume di tenebra, nessun baluginio, seppur lieve, che potesse rivelare il riaffiorare di reminiscenze, brandelli sfilacciati di sogni rimasti impigliati, come nebbia fra i rami, nelle terminazioni nervose durante la notte. Eppure qualcosa indugiava ancora. Una lieve sensazione, uno smarrimento e un’angoscia, un vago sapore spiacevole in bocca e un ronzare persistente nelle orecchie.

Aprì gli occhi lentamente.

Dove si trovava?

La stanza era buia e spoglia, le mura nude, senza quadri, specchi e altri orpelli, incombevano sul letto. E quel ticchettio continuo, inarrestabile, ossessivo, come se mille orologi battessero il tempo all’unisono, percuoteva le membrane timpaniche tese come pelli di tamburo e, attraverso il buio delle terminazioni nervose, si insinuava nelle pieghe della mente.

Chi era?

Si guardò le mani nella luce grigia dell’alba. Non erano mani di vecchio, non erano mani di giovane. A chi appartenevano quelle mani scarne, ossute, solcate da capillari azzurrognoli, malaticce come petali appassiti? Rabbrividì, di freddo e d’angoscia. Si alzò dal letto e andò in bagno. Allo specchio comparve l’immagine di uno sconosciuto e trasalì di stupore. Lo sconosciuto rispose al suo sguardo sbalordito con un ghigno. E un’occhiata sconcertata. Si toccò il viso e le guance sulle quali affluiva bluastra l’ombra della barba e i polpastrelli affondarono impazienti nella carne delle gote. Si infilò le dita in bocca, si toccò i denti, la lingua, le pareti interne, come se potesse trovare il rovescio del suo volto ed estrarlo, e quel rovescio fosse più familiare dell’immagine riflessa nello specchio. Agganciò le dita agli angoli della bocca e tese il tessuto molle deformandola in fauci bestiali. Allo specchio, un mondo parallelo e sconosciuto, al pari di quello che si trovava dall’altra parte, faceva sfondo a una maschera orribile e deforme che lo fissava con occhi spalancati di viva curiosità.

Una giacca giaceva abbandonata sulla spalliera di una sedia, infilò le dita in una tasca e ne estrasse un portafoglio. Trovò il passaporto. Lo aprì e la foto mostrò il volto straniero che era comparso allo specchio. Heinrich Dammerschlaft diceva il documento a caratteri netti e precisi e non vi era motivo di dubitarne.

Si lavò il viso e si rase. Dunque, si chiamava Heinrich. Heinrich Dammerschlaft. Quel nome non gli diceva niente. Si guardò ancora allo specchio. Scosse la testa. Doveva esserci un errore. Il volto riflesso non si combinava affatto con quel nome pieno di forza e di energia, un nome che emanava autorevolezza. Il volto allo specchio, invece, ne scarseggiava.

Si vestì e uscì in strada. Non aveva mai visto quella città, non aveva idea di dove si trovasse. Guardò a destra, guardò a sinistra, poi dritto davanti a sé. Non sapeva dove andare.

Dall’altra parte della via c’era un caffè. Attraversò la strada ed entrò. Era prestissimo, non c’era nessuno. Si sentì molto stanco, quel sonno senza sogni non gli aveva portato il ristoro e si trascinò incerto oltre la soglia.

«Buongiorno signor Dammerschlaft.»

Trasalì, ma si riprese rapidamente, cercando di mascherare il suo stupore. Si stropicciò gli occhi cisposi, ancora intorpiditi dal sonno e guardò meglio.

Osservò a lungo quel tale, indagò sulla sua fronte ampia e calva, studiò le sopracciglia nere e folte e il viso butterato a forma di mandorla. Invano. Nei suoi lineamenti non vi era nulla di familiare. Eppure il tizio dall’altra parte del bancone aveva dato mostra di conoscerlo. Sentì lo stomaco contrarsi e tutti gli altri suoi organi interni restringersi e raggomitolarsi seguendo il suo esempio, e poi indurire come fossero diventati di legno. Nondimeno, si impose di comportarsi normalmente. Si avvicinò al banco e ordinò un caffè.

Avvicinò le labbra alla tazzina. Trovò alquanto conforto nel liquido nero e caldo che vi era nel fondo.

«Non mi par da tanto di aver assaporato un caffè magnifico come questo.»

«Certo, signor Dammerschlaft, è stato l’altro ieri.»

Accese una sigaretta senza fretta. Era Dammerschlaft, e al contempo, non lo era. Armeggiò con il cucchiaino e la tazzina e intanto i suoi occhi vagavano febbrili nell’ambiente circostante, in cerca di particolari familiari. Indugiò ancora studiando i canapè, i tavolini d’acciaio, le tende di broccato, ma nulla veniva in soccorso alla sua memoria. Quel luogo era un mistero, come il volto che si rifletteva negli specchi della scansia di fronte. Decise di averne avuto abbastanza e finì il resto del caffè tutto d’un fiato.

Attraversò la strada e si trovò di fronte il portone dal quale era uscito poco prima. L’entrata apparteneva a un grande edificio grigio dall’aspetto austero e funereo con una grande insegna a caratteri cubitali, infissa all’altezza del primo piano.

Hotel Vasteland.

Ci rimuginò su, ma neanche quel nome gli diceva nulla.

Il portiere gli porse la chiave della stanza novantacinque. «Buongiorno, signor Dammerschlaft.»

Egli rispose con cortese indifferenza e salì in camera sua. Trovò la stanza più fredda e più nuda di quando l’aveva lasciata. Si buttò sul letto e stette a considerare gli stravaganti arabeschi che la luce scialba del giorno, filtrando dalle imposte semiaperte, proiettava sul soffitto. Volle accendersi un’altra sigaretta, ma l’accendino gli scivolò dalle mani. Non udì il tonfo metallico che si sarebbe aspettato in seguito alla sua caduta, ma un suono lieve e smorzato. Si sporse per vedere e il respiro gli si fermò in gola.

Una mano spuntava da sotto il letto e teneva il suo accendino.



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Hotel Vasteland - Capitolo II



II


La stanza era buia e spoglia. Un ticchettio distorto, asfissiante, imprevedibile sconvolgeva le pieghe del tempo come se provenisse da un orologio rotto. La notte finiva là fuori, si ritirava dalla strada e la luce tremula del nuovo giorno avanzava dalle imposte, facendo ruotare lentamente le ombre. La coscienza prese a ticchettare ritmica nel preludio al risveglio e si riaffacciò al mondo.

Aprì gli occhi.

Dov’era?

La stanza dalle mura nude si rivelava sconosciuta e ostile a mano a mano che le ombre cedevano il passo alla luce. E quel ticchettare aritmico non era naturale, come se il tempo scorresse irregolare in un flusso anomalo e, a intervalli prestabiliti, rallentasse o si arrestasse del tutto. L’orologio perdeva colpi. Non c’era dubbio. Forse anche il suo cuore perdeva colpi, come l’orologio.

Chi era?

Si guardò i piedi che emergevano dalle coperte scostate. Non erano quelli di un giovane, né quelli di un vecchio. A chi appartenevano? Si levò a sedere, frastornato. La testa gli girava forte, gli sembrava che girasse tutta la stanza e perfino il letto e gli venne la nausea. Corse in bagno a vomitare. Risollevandosi, vide allo specchio una faccia sconosciuta che lo fissava e si spaventò. Esaminò quel volto e pensò che somigliasse stranamente al suo. Il volto di uno straniero. I capelli arruffati, le sopracciglia folte, gli occhi scuri, la bocca carnosa, il colorito pallido. Ma si sbagliava, il viso che lo fissava dallo specchio non era il suo, era quello di qualcun altro.

Venne fuori dal bagno e uscendo si accorse di un libretto aperto sul piano ligneo della scrivania. Era un passaporto. C’era scritto Heinrich Dammerschlaft in caratteri dattilografati in maiuscolo. La foto all’interno mostrava lo stesso volto assente che gli aveva sorriso beffardo dallo specchio appannato. Il passaporto non mentiva.

Nella sua mente si sovrapposero immagini in cerca di un suono, di un nome, di una spiegazione. Fu sul punto di pronunciare alcune parole, ne ebbe chiara e netta la sensazione, la sorpresa della parola che nasce nella bocca, si modella sulla punta della lingua, sibila fra i denti e s’inumidisce tra le labbra. Ma un bagliore accecante gli squassò le meningi. Fu come se avessero acceso la luce in un cinematografo di periferia, poco prima del finale. Gli ultimi fotogrammi, quelli decisivi, che lo avrebbero potuto condurre alla rivelazione, si smarrirono nella luce smorta del mattino.

Uscì in strada. Non aveva mai visto quella città, non sapeva dove si trovasse. Rimase fermo sul marciapiede a guardare a destra, a sinistra, poi dritto davanti a sé. Non sapeva da che parte andare. Si voltò. Il portone dal quale era appena uscito apparteneva a un albergo. Hotel Vasteland, diceva la scritta sull’edificio, a grandi caratteri neri.

La strada era deserta, l’attraversò e si diresse al bar di fronte.

«Buongiorno signor Dammerschlaft» gli disse cortese l’uomo al banco.

Sobbalzò al suono del suo nome. Nel caffè non c’era nessun altro. Guardò con attenzione il barista, eppure, ne era sicuro, non l’aveva mai visto prima d’ora. Come faceva a conoscerlo?

«Buongiorno» rispose la sua voce incerta e tremula e la sentì ordinare un caffè.

Mentre sorseggiava il liquido denso e amaro, osservando le volute di fumo che fluivano dalla tazzina, si tastò il soprabito e le tasche della giacca in cerca dell’accendino, ma non lo trovò. Davanti ai suoi occhi balenò una visione fugace; un frammento di sogno impigliato in una radice neurale proiettò nel suo cervello l’immagine di una mano.

Trangugiò l’ultima sorsata del suo caffè e si affrettò a tornare all’albergo.

«Buongiorno, signor Dammerschlaft. Aspetti» fece il portiere, porgendogli la chiave della sua stanza. «C’è posta per lei.»

Trasalì. Chi mai poteva avergli scritto? Le sue dita afferrarono rapide la busta e stette a considerarla un po’. Non c’era il mittente sulla carta grigia e porosa, ma solo quello che, a quanto pareva, era il suo nome.

Gli venne un brivido di freddo, fin dentro le ossa. Heinrich gli pareva un nome semplice e forte, che dava un’idea di rigore morale. Ma quel cognome? Quelle lettere producevano un suono schioccante e misterioso, che aveva a che fare col crepuscolo e le tenebre, e con il sonno, così simile alla morte.

E sotto il nome un indirizzo:

Hotel Vasteland

Koningstraat, 99

Amsterdam

Si trovava dunque in Olanda, ma per quanto strizzasse le meningi, non riusciva a ricordare come e perché vi fosse giunto. Chi poteva avergli inviato quella lettera? Si chiuse in camera e si installò alla scrivania, lacerò la busta e ne scrutò con apprensione il contenuto. Sul foglio si srotolava una minuta grafia. Dunque lesse.

Signor D.,

tutto è pronto, la cosa è stata organizzata nei minimi particolari. C’incontreremo al Cafè De Vrjie. Mi raccomando, la nave non aspetterà a lungo.

Voglia gradire, intanto, i miei migliori saluti.

Felix V.D.

Un appuntamento al Cafè De Vrjie. Era dall’altra parte della strada. C’era appena stato, eppure non vi aveva trovato alcun indizio di quanto riportato nella lettera. E poi, la nave implicava una partenza. Ma per dove?

Il cuore prese a palpitare forte e un crampo gli addentò la bocca dello stomaco. La sua testa stava per andare in pezzi.

Ripose la lettera nella busta e si ripromise di studiarla con maggiore attenzione più tardi. Gli tornò la voglia di fumare e un’angoscia arcana si impadronì di lui e lo fece rabbrividire. Gli sembrò di udire bisbigli sommessi e le lievi e argentine risate di una donna. Come in trance si alzò, andò verso il letto e si affacciò presso il bordo.

E ritrovò l’accendino.

Glielo porgeva una mano che sbucava da sotto il letto.

Dammerschlaft sbigottì. Avrebbe voluto correre fuori dalla stanza a chiedere aiuto, ma qualcosa lo tratteneva. L’istinto gli suggeriva di non fuggire, ma di restare. Allora si inginocchiò accanto al letto. La mano si protendeva verso di lui oltre l’orlo delle coperte, come se lo invitasse a seguirla in un mondo buio e misterioso di là dalle coltri e le lenzuola. Si fece coraggio. Afferrò il polso e tirò. Lentamente, dal mondo buio e misterioso emerse un braccio, poi una spalla e infine un volto.

L’universo si paralizzò intorno a lui e addensò in una massa compatta di spazio e di tempo, non-materia, non-vita e non-morte, e lo imprigionò nelle tenebre di un pozzo senza fondo.

Dammerschlaft soffocò un urlo e ricadde all’indietro. Una donna era emersa dal buio. Egli aveva afferrato la mano che affiorava dai panneggi ondulati delle coperte, come quella di un naufrago che chiede soccorso, e l’aveva tratta in salvo. Aveva rubato quella donna alle onde, l’aveva rapita dal suo mondo equoreo, quel corpo sireniforme non apparteneva più alle acque. Ora riposava in una gialla pozza di luce, i capelli neri e la macchia scura del pube risaltavano nel pallore del suo corpo nudo.

Era molto bella.

Egli si vide riflesso nei suoi occhi, azzurri come l’acqua di uno stagno sul punto di gelare e fu come specchiarsi dall’altra parte del tempo. Era una fanciulla smarrita nel bosco, elegante come il volo di uno sparviero nel cielo silente, persa in un balzo tra profondi silenzi, un pesce argenteo dagli occhi vuoti che risaliva dagli abissi.

Le sfiorò la fronte, scostandole i capelli dal viso con un movimento appena percettibile delle dita, come se avesse terrore di sentire il freddo, poi premette l’indice e il medio contro la giugulare. Gli passò per la testa un ticchettare di orologi, ma alcun ticchettio, alcun palpito proveniva da quel corpo.



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Hotel Vasteland - Capitolo III




III


Dammerschlaft tornò lentamente alla luce. Aprì gli occhi ed emerse dall’abbraccio delle coltri. Che ora era? Difficile dirlo. Il chiarore ambiguo e sfumato che veniva dalle imposte poteva appartenere all’alba pallida di un giorno di vento, una mattinata scialba, vuota, senza tempo, oppure al preludio della notte, sospeso nell’etere tremolante, in attesa di un luminoso tramonto. Si levò e socchiuse gli scuri. La strada di sotto era deserta e riluceva di riflessi fantasmagorici. Proprio in quell’istante l’orologio di un lontano campanile batté mesto i suoi rintocchi.

Solo cinque? Così gli era parso. Quel numero non risolveva certo il problema. Troppo esiguo per essere già parte del giorno, troppo elevato per appartenere ancora alla notte. Decise di tornare a letto a pensarci su e intanto, infinite dimensioni di tempo scorrevano parallele, scivolando nel silenzio su piani inclinati e non si intersecavano mai.

Si avvide però di un riflesso fosforescente che baluginava nella penombra, poco oltre il bordo del letto. Un orologio da polso ticchettava sulla cantoniera. Lo prese e annusò il cinturino. Odori familiari di cuoio e sudore stuzzicarono le sue narici. Portò la cassa all’orecchio e il ticchettio regolare del meccanismo gli confermò che il tempo non aveva mai smesso di battere e scorreva come un fiume placido e silenzioso nel vasto letto dell’universo infinito. Il quadrante mostrò inconfutabilmente che stava nascendo il giorno. Si allacciò l’orologio al polso e in quel momento sentì che gli apparteneva, seppe che era suo.

Allungò una mano verso il comodino in cerca delle sigarette e dell’accendisigari, ma quest’ultimo, per un suo gesto incerto e maldestro, gli sfuggì e rotolò sotto il letto. Dammerschlaft si sporse e scrutò sotto le coltri penzolanti.

Ricacciò un urlo in gola, come se avesse visto un mostro spaventoso, vacuo, fatto nient’altro che d’ombra e di dolore. Un corpo sorgeva dalle tenebre in fondo al letto, affiorando come un oggetto misterioso dalle acque torbide dell’oblio. Una donna, bella come sanno essere soltanto i sogni, emergeva dall’oscurità. Pareva un sogno, ma non lo era. Dammerschlaft si fece coraggio e l’accarezzò. Il contatto con la sua pelle lo fece rabbrividire. Le tastò il polso e il collo. Era senza battito.

La morte era sorta dalla terra.

Un dolore antico risalì dalle viscere a straziargli il cuore, un dolore familiare, eppure misterioso al tempo stesso, gli aggredì la gola e gli riempì la bocca e gli occhi.

Dammerschlaft pianse e non seppe perché.

Si asciugò lentamente le lacrime. Scorse una forma chiara sotto il letto. Allungò un braccio e la estirpò dalle tenebre. Era una borsetta da donna. Trovò delle lettere, una boccetta di profumo e un libro. Mise da parte le lettere, aprì il flacone e lo annusò. Era un’essenza esotica, forse patchouli, forse no. Avvicinò ancora il naso, gli parve un odore familiare e si abbandonò alla sua fragranza.

Aprì le lettere. Le fibre della carta erano intrise dell’inchiostro blu di una scrittura piena e tondeggiante e le vocali si chiudevano con un elegante svolazzo. Egli non comprendeva appieno il significato di quelle righe, si alludeva a fatti e accadimenti noti allo scrivente e al destinatario.

Prese il libro. Era un volume di pittura, lo aprì e ne cadde una foto. Si chinò a raccoglierla. Mostrava il volto di una donna elegante, dai capelli corvini e gli occhi chiari. La voltò e lesse. C’era una dedica per lui firmata da Josefine Ascher.

Quel nome non gli diceva nulla. Eppure, era sicuro che significasse qualcosa.

Ma perché era nuda, dov’erano finiti i suoi vestiti?

Guardò ancora sotto il letto. Non c’era nient’altro.

Lo sopraffece nuovamente la sensazione che aveva provato quella mattina, guardandosi allo specchio. Non aveva riconosciuto il suo volto, come se durante la notte ne avessero incollato un altro al suo cranio. Eppure, avrebbe dovuto conoscerne alla perfezione ogni lineamento, ogni più piccola e trascurabile ruga, se quel viso era il suo.

Rimase senza fiato sull’orlo di una vertigine.

Al di là della superficie di cristallo c’era un mondo uguale a quello che si trovava al di qua. Un mondo sorprendentemente identico, eppure spaventosamente a rovescio. Un mondo bizzarro nel quale ogni cosa era l’opposto della sua gemella dall’altro lato dello specchio.

Un riflesso cangiante e caduco di luce fra le ombre.



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Hotel Vasteland - Capitolo IV





IV


La stanza era buia e fredda. Fuori pioveva. Pioveva come fosse la fine del mondo. La notte si dissanguava nel giorno nascente, la pioggia scendeva copiosa picchiettando contro le imposte. Dentro la stanza ticchettii metallici, artefatti, innaturali segnavano lo scorrere del tempo.

Qualcuno urlava.

Era un urlo soffocato, greve, come se nascesse dalle profondità della terra. L’urlo salì di tono e lacerò il silenzio. Un fiume di lava aveva trovato un varco fra le zolle tettoniche e liberava la sua rabbia infinita. Era pura forza. E quel furore impetuoso e vorticante urlava un nome, lo proclamava alle tenebre, alla nebbia e alla pioggia. Un nome terrificante.

Josefine!

Dammerschlaft si sorprese a bocca aperta, con la gola secca, senza fiato, senza più forze. Era stato lui a gridare e non se ne era accorto. Era stato lui a urlare nella pioggia, nel grigiore dell’aurora, a invocare quel nome che si era subito disperso in echi infiniti.

Aveva sognato qualcosa, immagini vaghe e confuse. Si levò dal letto e si mise a sedere. Non sentiva più le braccia. Le gambe presero a scuotersi in modo convulso. Tutto il suo corpo fremeva e ribolliva. Dentro la massa corporea era tutto un agitarsi, uno scuotersi, un ribellarsi all’inverno e alla notte. Un ribellarsi alla morte. Dal buio delle sue fibre si stavano risvegliando i ricordi.

Guardò l’orologio. Le quattro e quarantasette. Un fulmine attraversò il cielo e il boato del tuono si perse nella notte. Guardò ancora l’orologio. Le quattro e quarantanove. Sempre numeri dispari. Qualcosa non tornava.

Bussarono alla porta.

«Tutto bene, signor Dammerschlaft?» chiese una voce profonda, di là dall’uscio.

Gli parve di precipitare da altezze siderali e di ripiombare all’interno del suo corpo, ritrovandone il peso e il controllo.

«Sì, sì, tutto bene. Grazie» rispose la sua voce piatta e incolore.

Restò in attesa che passi pesanti si allontanassero fino a che dal corridoio non giunse più alcun rumore.

Fuori dalla stanza il giorno si scioglieva in un infinito presente.

Vi erano dei momenti in cui gli sembrava di essere sul punto di cogliere la verità. Un rapido balenare di chiarezza sulla superficie delle cose che quasi gli rivelava il momento supremo, il risveglio, il satori, il senso di tutte le cose.

La luce grigia del giorno, il ticchettare della pioggia, il rombo ovattato del tuono oltre i muri, il sospiro del vento attraverso la finestra. Rimase in ascolto. Ecco, quello era uno di quei momenti.

Ma quei frammenti di tempo scomparivano proprio nell’attimo in cui tutto gli appariva chiaro e sembrava che la verità si mostrasse nella sua nudità infinita. Ed era costretto a restare sulla soglia della rivelazione con una singolare sensazione nella bocca.

E anche adesso, come centinaia di altre volte, la luce del mattino, la pioggia, il vento e il temporale scomparvero come immagini confuse in un vuoto privo di significato. E la verità rimase ancora una volta distante.

In altri momenti i luoghi, gli oggetti e perfino le persone che conosceva da una vita e avrebbero dovuto risultargli familiari assumevano un aspetto irregolare e insolito, che glieli faceva apparire sotto una nuova luce, rendendoli ai suoi occhi perfetti sconosciuti.

Gli faceva male la testa. Forse l’urlo del risveglio era la rivelazione, la fine del suo incubo privato, la salvezza. Ma non riusciva a collegarlo con alcun senso salvifico. In verità non riusciva a connetterlo con nulla, non vi era niente dentro di sé che risonasse in armonia con quell’urlo. Era soltanto un corpo estraneo all’interno del suo corpo. Un corpo estraneo dentro un altro corpo estraneo.

Osservò le gambe che spuntavano dalle coperte. Erano gambe di giovane o di vecchio? Non seppe rispondere. Sapeva soltanto che erano sue. Ma erano deboli, magre, quasi scheletriche. La pelle aveva un colore malsano e si tendeva sulle ossa a mostrare ogni particolare anatomico, le vene, le articolazioni e l’incessante lavorio dei tendini. I muscoli erano flaccidi e atrofici.

Si avvide di una cicatrice che attraversava per tutta la sua lunghezza la coscia sinistra. La tastò con ribrezzo, infilando le dita dove la carne era stata lacerata, tagliata via di netto. Al suo posto, una striscia di pelle ricucita alla meglio. Toccare quel vuoto straziato gli diede la nausea.

Cosa poteva essere mai accaduto alla sua gamba?

Non conosceva dunque quel corpo, i tessuti che rivestivano la sua stessa anima? Gli parve di stare dentro qualcun altro, come uno spirito errante in un corpo preso in prestito.

Si alzò in piedi ed esaminò l’arto. Eseguì tutti i movimenti fisiologici, ma non avvertì alcun impedimento. L’articolazione pareva intatta. Con estrema cautela, prese a fare qualche passo. Portò avanti il piede destro e la gamba lo seguì docilmente. Provò con il sinistro e fu lo stesso. Riuscì a deambulare senza alcun dolore e senza zoppia, ma la nausea gli aggredì ancora lo stomaco facendolo barcollare. Dovette mettersi subito a sedere sul bordo del letto.

Quando si sentì meglio, si alzò e andò in bagno. Aprì il rubinetto e lasciò scorrere l’acqua finché non fu gelida e se la versò sul viso. Il freddo lo scosse e rimase senza fiato. E sentì che di questo aveva bisogno, un salutare scossone che lo risvegliasse dal torpore nel quale erano precipitati il suo corpo e la sua mente, prigioniera del tempo. Si guardò allo specchio scrutando nel suo volto, scavando nei lineamenti e nel mistero profondo dei suoi occhi. Quella era la sua faccia e al tempo stesso non lo era.

Rientrando nella stanza, notò un luccichio sul pavimento immerso nell’ombra, nei pressi della scrivania. Avanzò fino a quel punto e si abbassò a vedere. Era una fiala di vetro che rifletteva la scarna luce.

«Morfina!» urlò quasi senza accorgersene. Subito si sentì soffocare dal panico, senza sapere perché.

Udì lievi colpi alla porta. Il suo cuore si arrestò e gli cadde in petto come una pietra.

Riuscì a poco a poco a ritrovare la calma, socchiuse l’uscio e sporse la testa fuori. Il corridoio era vuoto e silenzioso e le porte delle altre stanze erano chiuse. L’atmosfera era molto tranquilla, ma aleggiava una strana calma. Le stanze erano tutte libere, o forse erano morti tutti e i soli ospiti dell’albergo erano cadaveri. Forse era morto anche il portiere ed era stato il suo corpo decomposto a bussare alla porta. Forse anch’egli era morto, ma credeva di essere ancora in vita.

Forse, quanti forse.

L’idea che fosse morto davvero finì per tranquillizzarlo e rientrò. Sotto la scrivania c’erano altre fiale, tutte vuote e trovò anche una siringa usata. Aprì i cassetti e nell’ultimo scoprì fiale ancora intatte. Da dove veniva tutta quella morfina?

Gli venne una sorta di presentimento. Si sbottonò i polsini della camicia, arrotolò le maniche fino ai bicipiti e distese gli avambracci. Vi erano segni di iniezioni recenti, sotto la pelle si allargava la macchia bluastra di un ematoma. Aveva tentato il suicidio? A considerare la quantità di fiale vuote, avrebbe risposto di sì. Quelle dosi avrebbero ucciso un cavallo. Ma allora, perché era ancora vivo? E per quale motivo aveva desiderato la morte?

Ogni emisfero cerebrale è un insieme autonomo e perfetto, ricordò d’aver letto da qualche parte. È come se vi fossero due menti, due coscienze, due individui in una testa sola. Balenò rapida come un lampo un’immagine di giovani in camice bianco intorno a un cadavere in una sala circolare. E un uomo dai capelli brizzolati e gli occhiali contornati di metallo gesticolare nei pressi del corpo.

“Una psicosi cerebrale di natura tossica, indotta per esempio da dosi massicce di morfina” stava spiegando “può attecchire nel sistema percettivo determinandone una scissione e generando un cattivo funzionamento sia del sistema percettivo stesso che di quello cognitivo, sebbene quest’ultimo continui in apparenza a funzionare correttamente”. I ragazzi ascoltavano assorti ed egli era uno di loro.

Cosa significavano quei ricordi? Non ne aveva idea. Si era davvero iniettato la sostanza contenuta nelle fiale che aveva rinvenuto nella stanza numero novantacinque? E se era stato così, la morfina poteva aver danneggiato il suo sistema percettivo e il suo sistema cognitivo, poteva averli contaminati entrambi spargendovi tenebra a ricoprire ogni cosa, spegnendo ogni ricordo, ogni emozione e cancellando il suo passato? Poteva avere una simile spiegazione l’intermittenza dei ricordi?

Avvertiva pensieri non suoi, parole estranee e ignote affioravano di tanto in tanto da profondità nascoste e sgorgavano sulle sue labbra, come se un’entità sconosciuta parlasse una lingua straniera dentro la sua testa, tentando di sostituirsi al suo io cosciente.

Cosa gli stava accadendo?

Cercò la risposta fuori dalla finestra, ma la sua domanda rimbalzò nel grigiore della strada di sotto, si perse fra i rumori del traffico e le parole vane e inconsistenti dei passanti e fu risucchiata dalle nuvole gonfie di pioggia. Pensò che se avesse realmente tentato il suicidio, aveva scelto il giorno giusto per morire. Un giorno inutile, un giorno grigio, senza gloria, senza significato. Un giorno senza passato né futuro, un giorno di un calendario monotono e ripetitivo.

Si addormentò pensando al grande rompicapo che era la sua vita.



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Hotel Vasteland - Capitolo V



V

Dammerschlaft si svegliò, si guardò allo specchio e non si riconobbe. Il portiere lo salutò con cordialità. Il suo volto non era un mistero per gli altri. Strani giorni erano venuti e molti altri attendevano fuori dalla porta. Avrebbe tanto desiderato scrivere, fissare sulla carta i rari frammenti in chiaro, le schegge di luce che si perdevano nella notte della sua coscienza. Ma non ne era capace. I giorni erano sogni assurdi che evaporavano all’alba in un florilegio di desideri assopiti. La sua vita era un volo sospeso fra lucidità e follia.

Il bar era desolatamente vuoto, si accomodò al bancone e ordinò un caffè. Mentre rovistava con il cucchiaino dentro la tazzina, si sentì strano, ebbe caldo e freddo insieme, come se avesse la febbre. Un tizio che non aveva notato, appollaiato su uno sgabello all’estremità opposta del bancone, lo stava fissando. Dammerschlaft distolse lo sguardo. Anche l’altro fece lo stesso. Il mondo era un teatro. Forse l’uomo sullo sgabello si credeva l’attore principale, ma si sbagliava. Quel ruolo era il suo. Dammerschlaft lo guardò di nuovo e anche l’altro riprese a fissarlo.

Quel tale lo osservava con attenzione discreta e costante. Le sue occhiate erano rette spezzate dal pavimento al suo volto. Dammerschlaft cercò di intercettare le linee della sua curiosità, ma lo sconosciuto abbassò ancora una volta lo sguardo. Non seppe decifrare la sua età, aveva una fisionomia molto comune. Non aveva nulla di particolare e, in generale, non lo colpì in alcun modo, se non per il fatto che se ne stava seduto come un sacco vuoto sul suo sgabello.

Tuttavia, occhiata dopo occhiata, lo sconosciuto si faceva più intraprendente, fino a che i movimenti dei suoi occhi non furono più linee spezzate dalla sua faccia al pavimento, ma si tramutarono in rette insostenibili, cariche di domande silenziose. Dammerschlaft ebbe un presentimento, pagò e uscì.

Attraversò la strada e vide che l’altro lo guardava dalla soglia. Passò davanti all’albergo e per precauzione tirò dritto. Lo sconosciuto attraversò la strada e lo seguì. Sentì alle spalle i suoi passi concitati e si strinse nel cappotto.

«Signor Dammerschlaft, aspetti signor Dammerschlaft.»

Dove aveva sentito prima quella voce acuta e sgradevole? Dammerschlaft affrettò il passo. Anche l’altro. Presto l’avrebbe raggiunto. Allora si mise a correre.

«Signor Dammerschlaft, si fermi per favore.»

Fecero il giro dell’isolato, ma la distanza fra loro si allungò come una molla, tanto che a un certo punto non lo vide più. Si fermò. Non c’era nessuno a inseguirlo. Ma fece per voltarsi e se lo trovò di fronte. Erano talmente vicini che poté sentire il suo odore, così vicini che si accorse che il suo volto aveva qualcosa che non andava. Cacciò un urlo e l’altro si spaventò. Dammerschalft ne approfittò per rimettersi a correre. Si fermò solo alla fine del caseggiato, ma prima di svoltare l’angolo si girò ancora una volta a guardare. Lo sconosciuto si era appoggiato a un portone e cercava di riprendere fiato. Tentò ancora di chiamarlo, ma dalla sua bocca uscì soltanto un rantolo, e allora prese a fare grandi movimenti delle braccia.

Si sentì al sicuro fra le ombre della hall, anzi, desiderò di essere trasformato su due piedi in una di esse, in una macchia sulla tappezzeria, o sul risvolto della poltrona. E, perché no, in un insignificante scarafaggio, a patto che fosse una metamorfosi incruenta. Se fosse esistita una pillola per svanire dal mondo, giurò su Dio, l’avrebbe inghiottita con avidità. Considerò il modo in cui lo sconosciuto l’aveva guardato prima di scantonare. All’inizio gli era sembrato uno sguardo minaccioso, ma poi gli era parso che un’espressione afflitta e implorante fosse calata sul suo volto. L’espressione di chi chiede aiuto.

Mentre saliva le scale a due a due udì dietro di sé il saluto cortese e risoluto del portiere. Per la fretta non rispose, ma sbagliò piano e fu costretto a ridiscendere guardingo le scale. Per poco non sbatté contro il portiere che saliva, che lo salutò di nuovo, alquanto sorpreso.

Rientrò in camera sudato e ansante, chiuse a doppia mandata e si buttò sul letto. La stanza era ancora immersa nella penombra. La luce opaca del giorno stendeva incerta le sue lunghe dita fra le ombre. Era molto agitato. Non aveva mai visto quell’uomo, non immaginava cosa volesse da lui. Lottò con se stesso per convincersi che non era altro che un’allucinazione scatenata dal suo io più profondo e indecifrabile: una creatura deforme dissepolta dalle profondità abissali della percezione gli aveva urlato in faccia il suo nome, come un delitto che non sapeva di aver commesso.

Qualcosa non funzionava bene in lui, ormai ne era certo. Aveva la sensazione che il suo corpo fosse diviso a metà e che ognuna di esse ignorasse l’esistenza dell’altra. Sentiva come se una parte di sé gli si fosse rivoltata contro. Due distinte entità lottavano cercando di sopraffarsi l’un l’altra ed egli era spettatore inerme e silenzioso del dramma della coscienza che si lacerava, dell’io che moriva lentamente.

Dammerschlaft trasalì.

Un’ombra più scura delle altre emerse dalle mura, si stagliò sul fondo della stanza come un bassorilievo e la luce tremula delle imposte ne accarezzò i contorni, tenui e lievi, con tratti di matita in chiaroscuro. C’era qualcuno in camera.

I suoi occhi si adattarono alla luce spettrale del mattino e misero a fuoco un’immagine singolare. Una donna completamente nuda era seduta sul suo letto e gli sorrideva.

«Heinrich, caro, dove sei stato?»

«Ho creduto di sognare e che nel sogno tu mi abbandonassi. Mi sono svegliata nel letto vuoto e temevo che fossi fuggito.»

Non lasciarmi mai più.

Dammerschlaft credette di impazzire. I suoi sensi accettavano pacificamente quella presenza e non seppe spiegarsene il motivo. Ma il suo cuore no, il suo cuore batteva forte e gli percuoteva il petto con gli zoccoli d’acciaio sfavillante d’un cavallo imbizzarrito.

Non ti muovere, ti voglio guardare.

Ti ho ammirata a lungo, ma tu non mi appartenevi.

Resta così, non aprire gli occhi, sei così bella.

Aveva già assistito a quella scena, aveva già sentito quelle parole, ne era sicuro. Un dio stravagante e crudele si divertiva a far andare avanti e indietro il tempo a suo piacimento. Rimescolava la sua vita con la destrezza di un giocatore di carte che scozzando il suo mazzo sovverte i destini di fanti e regine.

Una nuvola velò il già fragile chiarore. Gli parve che il dolce sorriso che animava quel volto appena abbozzato dal gioco di luci e ombre trasfigurasse nel vano stridore di denti di una creatura terrificante. Il ghigno di un teschio che lo fissava da orbite vuote. Fu solo un istante, un lampo nel buio, ma gli parve insopportabile. Presto la luce riprese vigore, il sorriso tornò a fiorire sulle belle labbra damascate in arabeschi ombrosi e la vita germinò di nuovo su quel viso, come un fiore che sbocciava in suo onore.

Avvertì la sensazione, molto viva e lucida, per quanto assurda, che alla sua vita mancassero ore, giorni, forse mesi, e che di essi fosse rimasta soltanto un’eterea impressione, come di notte, la scia fosforescente dalla poppa di una nave.

Frammenti di vita finiti chissà dove.

Il suo cervello stava andando in avaria. Forse una malattia rara mostrava i primi sintomi. Forse stava morendo. I neuroni si spegnevano uno dopo l’altro come stelle nere. Si rassegnò a una notte senza fine.

Dammerschlaft si stropicciò gli occhi e strinse le palpebre finché non gli fece male. Poi le riaprì. Lei c’era ancora, stava seduta sul letto, perfettamente salda nella sua nudità e gli sorrideva. Il ventre palpitava lieve e i seni si sollevavano e si abbassavano sulle onde del respiro.

Chi era quella donna?

Non l’aveva mai vista prima, eppure era sicuro di conoscerla. I contorni sfumati dalla delicata luce del mattino, la curva morbida dei suoi fianchi, la massa scura e frastagliata dei capelli e il vuoto trasparente e vacuo delle iridi. Sentiva nel profondo del suo cuore che tutto questo gli apparteneva.

Gli girava la testa. Sapeva già di amarla, di amare perdutamente quella donna sconosciuta. L’amava come si amano le donne che non si possiedono, le donne sfuggenti, che sanno liberarsi dalla morsa del nostro abbraccio e non tornano più.

Forse quello che stava vivendo era un giorno qualunque, un giorno a caso nella vita di uno dei tanti Heinrich Dammerschlaft nelle infinite dimensioni parallele dell’universo. Lo stesso maledetto giorno, incastrato negli ingranaggi del tempo, si ripeteva identico in tutti quei mondi così distanti. La sua psiche si stava disgregando, il suo io si frammentava e disperdeva in miliardi di schegge, ognuna delle quali si credeva un’entità distinta e senziente.

Ma entrambe le spiegazioni portavano alla stessa domanda: chi era Heinrich Dammerschlaft?

Senza alcun preavviso, il chiarore del giorno dissipò le ombre e la tenue figura scomparve, si dissolse nella grigia luce di una tardiva primavera ed egli non seppe dire in seguito se l’avesse soltanto sognata.



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Hotel Vasteland - Capitolo VI




VI

Tutto parlava di lei.

I fiori gli dicevano del perduto istante in cui aveva colto il loro profumo. Le lettere narravano dell’incanto infinito degli occhi che scorrevano le righe. Il suo odore aleggiava ancora su tutti gli orpelli, gli ornamenti e le finzioni di quella stanza. Le sue dita avevano lasciato impronte ovunque.

La stanza era piena di lei.

Un attimo prima era lì, davanti a lui, e gli sorrideva e un momento dopo era svanita, evaporata come un respiro nell’aria, una fiamma confusa fra altre fiamme, una goccia d’acqua nell’acqua.

Era proprio la realtà quella che percepivano i suoi occhi o soltanto un’allucinazione indotta dal reale? E come poteva essere certo del fatto che l’immaginazione non si fosse impadronita della realtà?

Eppure Dammerschlaft la sentiva, ovunque scorgeva la sua ombra, percepiva la sua presenza come un elemento costante, certo e vivo delle sue ore senza memoria. Ma cosa sapeva di lei?

Ricordava a malapena il suo volto, la sfumatura di raro turchese che splendeva nelle iridi, l’arco roseo e delicato delle labbra, le onde brune e selvagge dei suoi capelli. E tuttavia, nel profondo del suo cuore in tumulto, egli sapeva di averla amata. Sapeva di amarla ancora.

Doveva credere in lei, in quella donna eterea, dal sorriso ineffabile, sospesa nel tempo. Doveva andare oltre le apparenze, trascendere la realtà, sradicare le convinzioni più forti. Chi era lui? Un sovversivo in lotta contro il tempo e le leggi della fisica, un partigiano del caos. Tutto pur di nutrire e proteggere il suo amore per quella donna inesistente, il suo amore contro le leggi di natura, il suo amore sovversivo.

Era come se fosse il suo primo giorno sulla Terra. Non ricordava nulla del suo passato. Dubitava che fosse mai esistito un passato, una vita prima di quell’alba grigia in cui si estingueva la sua breve notte. E ticchettii di mille orologi dilaniavano il tempo ogni mattino in cui era costretto a destarsi.

E anche se avesse posseduto dei ricordi, chi gli avrebbe potuto assicurare che fossero frammenti di vite realmente vissute e non allucinazioni, fantasmagorie e miraggi inesistenti? Il passato era tempo che non era più, il futuro non v’era ancora e forse non vi sarebbe stato mai, e anche il tempo non esisteva, era solo una delle tante illusioni, una particella di luce incastrata nell’eterno presente.

Dammerschlaft procedeva a tentoni come un cieco, nella stanza così vuota da apparirgli immensa e spaventosa. Aveva paura di perdersi, com’era già accaduto. E sapeva bene che si sarebbe perso ancora e ancora.

Aprì gli occhi. Il silenzio si risvegliò piombandogli addosso. Vestiti dismessi, ombre incombenti, fiori appassiti, nuvole di patchouli. Negli occhi l’illusione degli occhi di lei. Nella mente il rimbombo delle sue parole. Nelle orecchie il frastuono insopportabile del silenzio. Quella stanza era maledetta, un’oscura presenza ordiva sempre nuovi inganni per i suoi sensi affaticati e metteva a dura prova la sua logica. Esisteva una logica, c’era qualcosa che avesse un senso? Ne dubitava. Lei non c’era e forse non c’era mai stata. Solo uno scherzo della sua fantasia, un miraggio, un’ombra appena un po’ più densa delle altre da sembrargli reale. Soltanto un sogno. O forse lei non era ancora nata, doveva ancora farsi carne e comparirgli davanti un giorno in un tempo di là da venire. Un futuro nel quale sarebbe stato troppo vecchio per riconoscerla. Credette di impazzire.

Gli mancava quella donna sconosciuta, bramava il suo corpo pallido e nudo. Cosa gli stava accadendo? Perché desiderava quella femmina eterea e fluttuante come un fantasma? Quei ricordi intermittenti gli stavano facendo perdere la ragione. Qual era la realtà e quale la fantasia? Forse a tutti era riservata quella sorta di incubo in un certo momento della vita: non poter distinguere i sogni dal vero, le allucinazioni dalla realtà.

Ma un uomo è ben poca cosa di fronte al tempo, davanti agli eventi, di fronte al fato. E non vede forse ognuno di noi che una piccola parte di realtà, quella che gli è toccata in sorte per essergli piombata davanti agli occhi? E non cadiamo in fallo di frequente anche su questo misero frammento, credendo spesso che sia soltanto il residuo di un sogno?

Si inginocchiò presso il letto e infilò la testa sotto le balze ricadenti come un drappo funebre. Era ancora lì, non si era mai mossa dal suo ambiente acquatico e ombroso. Dunque non era un sogno, dunque non era un’allucinazione. La donna era reale e il suo corpo pallido e freddo ne era una prova inconfutabile.

Ebbe timore di questa sua passione per le ombre, per le visioni inconsistenti, per le allucinazioni. Ebbe timore per questo suo misterioso amore per le cose morte, in decomposizione.

Notò delle macchie sulle braccia della donna. Guardò meglio. Segni bluastri si estendevano sulla cute del braccio destro. Vasti ematomi, coaguli di sangue e linee ancor più scure solcavano la pelle. Sulla vena cava si distinguevano gocce di sangue rappreso.

Gli passò qualcosa per la testa, poco meno di un ricordo, poco più di un’intuizione. Andò alla scrivania e notò subito alcune fiale vuote abbandonate sul pavimento. Ne raccolse una. Era morfina. Presero a dolergli le braccia, avvertì delle fitte nell’incavo di ogni avambraccio e il suo sangue indurirsi e scorrere a fatica nelle vene. Tastò con le dita il punto dolente, che prese a fargli ancora più male. Arrotolò le maniche della camicia. Anche la pelle delle sue braccia era violacea. Ebbe la nausea a quella vista e prese a girargli la testa. Si sentì sollevare per i piedi e trasportare via dalla stanza. Planò sul corpo di un giovane che assisteva a una qualche sorta di convegno. Si vide prendere appunti con un mozzicone di matita, appena in tempo per ascoltare le battute finali.

“… come per tutti gli alcaloidi dell’oppio, l’azione della morfina è dovuta alla sua sorprendente capacità di superare la barriera emato-encefalica e legarsi ai recettori oppioidi delle cellule cerebrali, specialmente nel talamo e nel sistema limbico.” Il relatore fece una breve pausa per gustare l’effetto delle sue parole imparziali e inconfutabili sui volti dei presenti. “Essa mima l’azione delle endorfine manifestando un’azione antagonista nei confronti dei recettori oppioidi e agonista parziale nei confronti dei recettori delta, bloccando il rilascio dei neurotrasmettitori a livello presinaptico”. Studenti in piedi, scroscio di applausi.

Cacciò un urlo che soffocò a stento. Più che un grido si sarebbe detto un singulto di dolore, un sommovimento imperioso del petto, palpitazioni brusche ed energiche del suo stesso cuore, come se fosse per abbandonare la sua sede naturale.

La rivide distesa e immobile nei pressi del letto e il suo corpo nudo lo sconvolse a tal punto da fargli perdere la testa. I battiti del cuore subirono un’accelerazione repentina e non vollero saperne di rallentare. La vista gli si annebbiò e gli mancò l’aria.

Gli parve di cadere, un lieve svenire nelle sensazioni rallentate di un sogno. Ma non perse conoscenza. Si limitò a scivolare in ginocchio accanto a lei, con il volto sopra il suo. Sentì un ticchettio liquido e irregolare. Gocce cadevano sulla donna. Non si era reso conto di avere cominciato a piangere. Lacrime precipitavano sul volto di lei, sulla fronte, sugli occhi, sulle labbra e sui capelli, una pioggia lieve, sottile, che ben presto si trasformò in un pianto irrefrenabile. Dammerschlaft piangeva di gusto, inspirando l’aria in grevi singulti mentre il suo dolore si coagulava in gola e in fondo al petto.

Cos’aveva il mondo? Perché girava al contrario? Chi si divertiva a giocare quei crudeli scherzi alla sua memoria? E perché ogni cosa appariva l’esatto opposto di ciò che era?

E forse il mondo davanti ai suoi occhi non era il mondo reale, ma il suo riflesso allo specchio. Tutto rovesciato, sottosopra, ogni cosa ambigua e confusa, la destra al posto della sinistra, l’alto scambiato con il basso e il centro scaraventato in un oscuro infinito. Forse era la morte l’unica speranza, forse la morte era la liberazione, soltanto lei avrebbe ripristinato il diritto al posto del rovescio, come una fotografia che si ricompone dal negativo. Ecco perché lui e quella donna, in una vita precedente che non esisteva più neppure nei ricordi, avevano deciso di partire, di tagliare i ponti con quel mondo asimmetrico e imperscrutabile e scomparire per sempre nell’eco delle loro voci sempre più fievoli e lontane.

Guardò l’orologio. Le quattro e quindici. Passi si avvicinavano sotto la sua finestra, rimbombando sul selciato. Tre o quattro persone parlottavano, i passi si allontanarono e l’eco delle loro voci si perse nella notte. Tornò a guardare l’orologio. Le quattro e diciassette. Sempre numeri dispari. Qualcosa non andava. Forse la morte è dispari?

La suite numero novantacinque era la loro tomba, il loro tempio sepolcrale.

Chiuse la porta a doppia mandata, serrò le imposte e accostò le tende. Infine, si distese a letto, preferendo aspettare l’arrivo di un altro giorno.



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Hotel Vasteland - Parte seconda Dies - Capitolo VII




Parte seconda

Dies



VII


L’alba sopraggiunse rapida e lo sorprese nudo, riverso fra le lenzuola. L’incipit di un nuovo giorno, senza nome né identità, senza passato né futuro. Soltanto l’eterno presente.

Si sentì in trappola, costretto a vivere lo stesso giorno, la stessa ora, nello stesso luogo. Si sentiva come un’orrenda multiforme creatura che perpetuava se stessa riproducendosi all’infinito, o almeno, fino a quando il signore delle ombre non avesse decretato la fine della sua tortura.

La sua mente si liberava dai filamenti di un sogno. Si stropicciò gli occhi. Che ora era? Difficile dirlo. Il tempo pareva essersi fermato. Nessun ticchettio, nessun moto meccanico a misurare le ore nel silenzio della stanza. L’universo fluttuava sospeso nel vuoto, le pareti si dilatavano, niente andava, niente veniva, e ogni cosa era immobile, congelata in un eterno presente. Era una sensazione che aveva già provato, eppure si stupì della sua dirompente novità. Gli pareva, in effetti, di non aver mai vissuto prima niente di simile. Un déjà vu che somigliava in modo bizzarro a uno jamais vu. Forse, si trovava sulla soglia della rivelazione, sull’orlo dell’assoluto, sospeso nell’attimo di cogliere l’essenziale. O, più semplicemente, il tempo era stato abolito? Un dio imperscrutabile e indifferente doveva essersene sbarazzato.

Gli orologi ripresero a ticchettare all’unisono, tutti nello stesso istante, come se non avessero fatto altro negli ultimi tremila anni, e il mondo cominciò a vorticare intorno alla sua testa. La stanza, il letto, gli arredi, ogni cosa ruotava senza requie intorno alla sua testa, come satelliti impazziti di un pianeta sull’orlo della distruzione.

Si distese sul letto in preda alla nausea. Chiuse gli occhi. Là fuori, oltre le sue palpebre, l’universo continuava a roteare senza fine. Da remoti mari del tempo, da oscuri abissi dello spazio, riemerse alla luce perfetta del giorno. Lentamente, dapprima in maniera confusa e quasi impercettibile, poi sempre più nitide, gli apparvero immagini in chiaroscuro e quelle immagini si misero in movimento, presero vita, come sequenze di un film in bianco e nero, proiettate all’interno delle palpebre.

Si vide fermo alla stazione, indossava un abito grigio, che gli donava molto. Si faceva buio, il sole era tramontato da poco, e stava aspettando qualcuno.

Qualcuno in effetti scese dal treno, egli ne scorse il profilo inconfondibile tra gli sbuffi di vapore. Una donna fendeva la folla, ondate di capelli nerissimi fluttuavano su un volto pallido e delicato, nuvole di patchouli sul mare d’inchiostro.

Mai Colonia era parsa loro fredda e vuota come quella notte. E anche le strade erano fredde e vuote come vallate notturne e su quelle vallate perdute era sorta una fitta nebbia, da cui si levavano, come fari silenti sul mare, scheletrici lampioni. L’uomo e la donna camminarono a lungo senza scambiarsi una parola, senza guardarsi, in perfetto silenzio. Attraversarono strade e piazze e radi aloni di luce. Lei si teneva al suo braccio e di tanto in tanto appoggiava il capo alla sua spalla, trovandovi rifugio e conforto. Attraversarono l’ultima strada vuota della città e si fermarono davanti a un edificio maestoso ed elegante. Un’insegna li aveva guidati attraverso la notte, i caratteri gotici splendevano nel buio a formare una parola misteriosa e rassicurante.

Kontinental.

L’orchestra suonava un tango struggente. Uomini e donne affollavano la pista da ballo. Seduti davanti a due tazze di caffè fumante nel bar dell’albergo, si guardavano e sorridevano. Era la loro ultima notte.

Allo scoccare delle ventitré, come a un segnale convenuto, egli si alzò, lasciò alcune banconote sul tavolino e si diresse alla toilette. Josefine si alzò a sua volta e uscì in strada. Iniziò a camminare e non si fermò quando sentì passi affrettati dietro sé. Egli la raggiunse e proseguirono insieme in silenzio. Svoltato l’angolo, fermarono un taxi che li condusse fino alla periferia della città. Da lì in poi proseguirono a piedi.

Le case si erano diradate da un bel pezzo e la città lasciava spazio alla campagna. Era ormai notte alta e la luna illuminava il loro cammino, gettando ombre argentee e gigantesche a lato della strada.

Si fermarono nei pressi di una cascina. Sul davanti era parcheggiato un autocarro carico di ortaggi. Qualcuno nella cabina fumava nell’attesa, sbuffando dense nuvole di fumo fuori dal finestrino. Non appena si accorse di loro, senza profferire parola, avviò il motore. Un lamento metallico, aspro stridore di ingranaggi contro altri ingranaggi, lacerò il silenzio della notte. Lentamente, tossicchiando e sputacchiando, il motore si risvegliò dal suo sonno meccanico e sbuffi di fumo azzurrino svaporarono dal tubo di scarico. Heinrich e Josefine montarono a bordo, il motore salì di giri e si allontanarono nella notte.

Dopo alcuni chilometri, un brontolio cupo solcò il cielo sopra le loro teste. Non era il mormorio del tuono, era qualcosa di più forte. Era un rumore fatto di tanti rumori e insieme formavano un rombo possente che si avvicinava e saliva di tono e intensità. Dieci, cento, mille aerei si libravano nella notte, come insetti notturni, in fitti stormi verso la città.

Si udirono sibili laceranti come urla di streghe e spaventose esplosioni. L’autocarro si arrestò sul ciglio della strada e i suoi occupanti scesero a vedere. Dalla città si levavano già alte colonne di denso fumo nero come la notte e gigantesche fiamme rossastre, vivide e abbacinanti, perfettamente visibili anche da dove si trovavano. Colonia ardeva, il suo corpo sventrato bruciava in una sola, inestinguibile fiamma.

Il vento caldo portò dalla città fino a loro il fetore insopportabile della carne bruciata, l’odore della fuliggine ed effluvi chimici e nauseabondi di esplosivi e di altre diavolerie create per dare la morte. E parve loro perfino di udire le urla di chi tentava di fuggire, o stava bruciando.

Pareva l’inferno.

Heinrich, Josefine e il camionista erano paralizzati da quella visione, un gruppo marmoreo scolpito da mani sapienti, statue biancheggianti di sale ai margini della strada, e sui loro volti danzavano allegramente le fiamme di Colonia. Quelle urla avevano toccato le loro anime a profondità tali che dubitavano della loro esistenza.

All’improvviso non si udì più nulla. Alte fiamme divoravano la città e si stagliavano invincibili contro il cielo nero in un assurdo silenzio. Forse il vento aveva cambiato direzione. Oppure Colonia si era estinta, evaporata in una sola terribile notte, insieme a tutti i suoi abitanti.

Risalirono sull’autocarro con ancora negli occhi le fiamme dell’inferno e nelle orecchie il frastuono di un inferno ancora più vasto: lamenti insopportabili di uomini e donne, di vecchi e di bambini, povera gente arsa viva. L’eco di un’umanità corrotta, vociante e miserabile, che ruzzolava nell’abisso.

Der tod kommt von oben.

Un’immagine balenò rapidissima davanti ai suoi occhi.

La morte arriva dall’alto.

La visione era tetra e mortuaria. Un aereo ronzava nel cielo scuro, sotto le sue ali pendevano raspi di bombe come grappoli di frutta avvelenata. E, sulla tela delle ali inferiori era dipinta quella scritta, in modo che si potesse leggere dalla terra per soggiogarla con il terrore, prima ancora che con le bombe.

Il cielo seminava la morte nelle pianure francesi.

L’aereo stesso, nero più della notte, con le sue croci, i teschi e le scritte in caratteri gotici, era più che un simbolo di morte, era la morte stessa venuta a mietere il suo raccolto con le falci scintillanti delle eliche.

Così gli era stato raccontato. Era il 1917 e suo padre era su quell’aereo. Neanche trent’anni e il cielo piangeva ancora lacrime di morte; a tremare sotto le bombe, stavolta, erano i tedeschi. Il male torna sempre indietro, come un’eco.

Josefine piangeva, singhiozzando fra le braccia di Heinrich, l’autista frenò bruscamente e saltò giù per vomitare.

«Scusate, scusatemi tanto» disse al suo ritorno, asciugandosi la bocca, con gli occhi orribilmente arrossati.

«Su, metta in moto, si sbrighi.» Heinrich si accorse che aveva pianto. «Andiamo via da qui.»

L’autista non se lo fece ripetere due volte, la notte si riempì di fumi azzurrini e l’autocarro ripartì rombando. Nella cabina calò presto il silenzio.

«Sembri sicuro del fatto tuo» disse Heinrich a un tratto. «Di’ un po’: non hai paura che ci fermino?»

«Conosco bene queste lande» fece il camionista. «So quali strade prendere e quali evitare. Quando ho cominciato a fare questo lavoro, ero così piccolo che per vedere la strada dovevo mettere un cuscino sul sedile. Ora lo devo mettere lo stesso il cuscino.» Sospirò. «Per via delle emorroidi.» E rise di gusto guardandolo dritto negli occhi. Anche lui rise e si rilassò contro lo schienale.

«Mi chiamo Heinrich.»

«E io sono Heinz. Heinz Becker» gli porse una sigaretta e ne accese una per sé. «Sai, io sono nato da queste parti, in un paese non lontano da qui e ho molti amici. Se ci dovesse capitare di fare qualche brutto incontro, so dove nasconderci.»

Josefine tossicchiò nel sonno e Heinrich le sistemò meglio il cappotto sulle spalle.

«Ma non credo che accadrà. Vi porterò sani e salvi dall’altra parte» aggiunse Becker tra le volute di fumo.

«Hanno requisito quasi tutte le automobili e gli autocarri,» continuò «ma il mio no, l’ho nascosto bene. Ma in fondo non do loro troppo fastidio. O forse gli fa comodo qualcuno che traffichi di qua e di là dal confine. Sai ne vedo di cose strane, cose che nessuno immagina.» Aspirò dalla sua sigaretta. «E così mentre voialtri ve ne state al fronte, a rischiare pallottole e granate, io vedo passare di qui le fortune dei generali. Quadri, pellicce, gioielli. Quanto ci ha guadagnato lo zio Adolfo in questa guerra!»

«Già, questa maledetta guerra» fece Heinrich pensieroso.

«Sì, proprio maledetta, hai usato il termine giusto» disse Heinz. «E sai qual è la soluzione?» Non aspettò la risposta. «La soluzione è che non c’è soluzione. E quando sarà finita, ormai saremo vecchi. E nessuno ne verrà fuori innocente, credimi, proprio nessuno. Né io né tu e neppure lei.»



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