II
La stanza era buia e spoglia. Un ticchettio distorto,
asfissiante, imprevedibile sconvolgeva le pieghe del tempo come se
provenisse da un orologio rotto. La notte finiva là fuori, si
ritirava dalla strada e la luce tremula del nuovo giorno avanzava
dalle imposte, facendo ruotare lentamente le ombre. La coscienza
prese a ticchettare ritmica nel preludio al risveglio e si riaffacciò
al mondo.
Aprì gli occhi.
Dov’era?
La stanza dalle mura nude si rivelava sconosciuta e
ostile a mano a mano che le ombre cedevano il passo alla luce. E quel
ticchettare aritmico non era naturale, come se il tempo scorresse
irregolare in un flusso anomalo e, a intervalli prestabiliti,
rallentasse o si arrestasse del tutto. L’orologio perdeva colpi.
Non c’era dubbio. Forse anche il suo cuore perdeva colpi, come
l’orologio.
Chi era?
Si guardò i piedi che emergevano dalle coperte
scostate. Non erano quelli di un giovane, né quelli di un vecchio. A
chi appartenevano? Si levò a sedere, frastornato. La testa gli
girava forte, gli sembrava che girasse tutta la stanza e perfino il
letto e gli venne la nausea. Corse in bagno a vomitare.
Risollevandosi, vide allo specchio una faccia sconosciuta che lo
fissava e si spaventò. Esaminò quel volto e pensò che somigliasse
stranamente al suo. Il volto di uno straniero. I capelli arruffati,
le sopracciglia folte, gli occhi scuri, la bocca carnosa, il colorito
pallido. Ma si sbagliava, il viso che lo fissava dallo specchio non
era il suo, era quello di qualcun altro.
Venne fuori dal bagno e uscendo si accorse di un
libretto aperto sul piano ligneo della scrivania. Era un passaporto.
C’era scritto Heinrich Dammerschlaft
in caratteri dattilografati in maiuscolo. La foto all’interno
mostrava lo stesso volto assente che gli aveva sorriso beffardo dallo
specchio appannato. Il passaporto non mentiva.
Nella sua mente si sovrapposero immagini in cerca di un
suono, di un nome, di una spiegazione. Fu sul punto di pronunciare
alcune parole, ne ebbe chiara e netta la sensazione, la sorpresa
della parola che nasce nella bocca, si modella sulla punta della
lingua, sibila fra i denti e s’inumidisce tra le labbra. Ma un
bagliore accecante gli squassò le meningi. Fu come se avessero
acceso la luce in un cinematografo di periferia, poco prima del
finale. Gli ultimi fotogrammi, quelli decisivi, che lo avrebbero
potuto condurre alla rivelazione, si smarrirono nella luce smorta del
mattino.
Uscì in strada. Non aveva mai visto quella città, non
sapeva dove si trovasse. Rimase fermo sul marciapiede a guardare a
destra, a sinistra, poi dritto davanti a sé. Non sapeva da che parte
andare. Si voltò. Il portone dal quale era appena uscito apparteneva
a un albergo. Hotel Vasteland,
diceva la scritta sull’edificio, a grandi caratteri neri.
La strada era deserta, l’attraversò e si diresse al
bar di fronte.
«Buongiorno signor Dammerschlaft» gli disse cortese
l’uomo al banco.
Sobbalzò al suono del suo nome. Nel caffè non c’era
nessun altro. Guardò con attenzione il barista, eppure, ne era
sicuro, non l’aveva mai visto prima d’ora. Come faceva a
conoscerlo?
«Buongiorno» rispose la sua voce incerta e tremula e
la sentì ordinare un caffè.
Mentre sorseggiava il liquido denso e amaro, osservando
le volute di fumo che fluivano dalla tazzina, si tastò il soprabito
e le tasche della giacca in cerca dell’accendino, ma non lo trovò.
Davanti ai suoi occhi balenò una visione fugace; un frammento di
sogno impigliato in una radice neurale proiettò nel suo cervello
l’immagine di una mano.
Trangugiò l’ultima sorsata del suo caffè e si
affrettò a tornare all’albergo.
«Buongiorno, signor Dammerschlaft. Aspetti» fece il
portiere, porgendogli la chiave della sua stanza. «C’è posta per
lei.»
Trasalì. Chi mai poteva avergli scritto? Le sue dita
afferrarono rapide la busta e stette a considerarla un po’. Non
c’era il mittente sulla carta grigia e porosa, ma solo quello che,
a quanto pareva, era il suo nome.
Gli venne un brivido di freddo, fin dentro le ossa.
Heinrich gli pareva un nome semplice e forte, che dava un’idea di
rigore morale. Ma quel cognome? Quelle lettere producevano un suono
schioccante e misterioso, che aveva a che fare col crepuscolo e le
tenebre, e con il sonno, così simile alla morte.
E sotto il nome un indirizzo:
Hotel Vasteland
Koningstraat, 99
Amsterdam
Si trovava dunque in Olanda, ma per quanto strizzasse le
meningi, non riusciva a ricordare come e perché vi fosse giunto. Chi
poteva avergli inviato quella lettera? Si chiuse in camera e si
installò alla scrivania, lacerò la busta e ne scrutò con
apprensione il contenuto. Sul foglio si srotolava una minuta grafia.
Dunque lesse.
Signor D.,
tutto è pronto, la cosa è stata organizzata nei
minimi particolari. C’incontreremo al Cafè De Vrjie. Mi
raccomando, la nave non aspetterà a lungo.
Voglia gradire, intanto, i miei migliori saluti.
Felix V.D.
Un appuntamento al Cafè De Vrjie. Era dall’altra
parte della strada. C’era appena stato, eppure non vi aveva trovato
alcun indizio di quanto riportato nella lettera. E poi, la nave
implicava una partenza. Ma per dove?
Il cuore prese a palpitare forte e un crampo gli addentò
la bocca dello stomaco. La sua testa stava per andare in pezzi.
Ripose la lettera nella busta e si ripromise di
studiarla con maggiore attenzione più tardi. Gli tornò la voglia di
fumare e un’angoscia arcana si impadronì di lui e lo fece
rabbrividire. Gli sembrò di udire bisbigli sommessi e le lievi e
argentine risate di una donna. Come in trance si alzò, andò verso
il letto e si affacciò presso il bordo.
E ritrovò l’accendino.
Glielo porgeva una mano che sbucava da sotto il letto.
Dammerschlaft sbigottì. Avrebbe voluto correre fuori
dalla stanza a chiedere aiuto, ma qualcosa lo tratteneva. L’istinto
gli suggeriva di non fuggire, ma di restare. Allora si inginocchiò
accanto al letto. La mano si protendeva verso di lui oltre l’orlo
delle coperte, come se lo invitasse a seguirla in un mondo buio e
misterioso di là dalle coltri e le lenzuola. Si fece coraggio.
Afferrò il polso e tirò. Lentamente, dal mondo buio e misterioso
emerse un braccio, poi una spalla e infine un volto.
L’universo si paralizzò intorno a lui e addensò in
una massa compatta di spazio e di tempo, non-materia, non-vita e
non-morte, e lo imprigionò nelle tenebre di un pozzo senza fondo.
Dammerschlaft soffocò un urlo e ricadde all’indietro.
Una donna era emersa dal buio. Egli aveva afferrato la mano che
affiorava dai panneggi ondulati delle coperte, come quella di un
naufrago che chiede soccorso, e l’aveva tratta in salvo. Aveva
rubato quella donna alle onde, l’aveva rapita dal suo mondo
equoreo, quel corpo sireniforme non apparteneva più alle acque. Ora
riposava in una gialla pozza di luce, i capelli neri e la macchia
scura del pube risaltavano nel pallore del suo corpo nudo.
Era molto bella.
Egli si vide riflesso nei suoi occhi, azzurri come
l’acqua di uno stagno sul punto di gelare e fu come specchiarsi
dall’altra parte del tempo. Era una fanciulla smarrita nel bosco,
elegante come il volo di uno sparviero nel cielo silente, persa in un
balzo tra profondi silenzi, un pesce argenteo dagli occhi vuoti che
risaliva dagli abissi.
Le sfiorò la fronte, scostandole i capelli dal viso con
un movimento appena percettibile delle dita, come se avesse terrore
di sentire il freddo, poi premette l’indice e il medio contro la
giugulare. Gli passò per la testa un ticchettare di orologi, ma
alcun ticchettio, alcun palpito proveniva da quel corpo.
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