martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo II



II


La stanza era buia e spoglia. Un ticchettio distorto, asfissiante, imprevedibile sconvolgeva le pieghe del tempo come se provenisse da un orologio rotto. La notte finiva là fuori, si ritirava dalla strada e la luce tremula del nuovo giorno avanzava dalle imposte, facendo ruotare lentamente le ombre. La coscienza prese a ticchettare ritmica nel preludio al risveglio e si riaffacciò al mondo.

Aprì gli occhi.

Dov’era?

La stanza dalle mura nude si rivelava sconosciuta e ostile a mano a mano che le ombre cedevano il passo alla luce. E quel ticchettare aritmico non era naturale, come se il tempo scorresse irregolare in un flusso anomalo e, a intervalli prestabiliti, rallentasse o si arrestasse del tutto. L’orologio perdeva colpi. Non c’era dubbio. Forse anche il suo cuore perdeva colpi, come l’orologio.

Chi era?

Si guardò i piedi che emergevano dalle coperte scostate. Non erano quelli di un giovane, né quelli di un vecchio. A chi appartenevano? Si levò a sedere, frastornato. La testa gli girava forte, gli sembrava che girasse tutta la stanza e perfino il letto e gli venne la nausea. Corse in bagno a vomitare. Risollevandosi, vide allo specchio una faccia sconosciuta che lo fissava e si spaventò. Esaminò quel volto e pensò che somigliasse stranamente al suo. Il volto di uno straniero. I capelli arruffati, le sopracciglia folte, gli occhi scuri, la bocca carnosa, il colorito pallido. Ma si sbagliava, il viso che lo fissava dallo specchio non era il suo, era quello di qualcun altro.

Venne fuori dal bagno e uscendo si accorse di un libretto aperto sul piano ligneo della scrivania. Era un passaporto. C’era scritto Heinrich Dammerschlaft in caratteri dattilografati in maiuscolo. La foto all’interno mostrava lo stesso volto assente che gli aveva sorriso beffardo dallo specchio appannato. Il passaporto non mentiva.

Nella sua mente si sovrapposero immagini in cerca di un suono, di un nome, di una spiegazione. Fu sul punto di pronunciare alcune parole, ne ebbe chiara e netta la sensazione, la sorpresa della parola che nasce nella bocca, si modella sulla punta della lingua, sibila fra i denti e s’inumidisce tra le labbra. Ma un bagliore accecante gli squassò le meningi. Fu come se avessero acceso la luce in un cinematografo di periferia, poco prima del finale. Gli ultimi fotogrammi, quelli decisivi, che lo avrebbero potuto condurre alla rivelazione, si smarrirono nella luce smorta del mattino.

Uscì in strada. Non aveva mai visto quella città, non sapeva dove si trovasse. Rimase fermo sul marciapiede a guardare a destra, a sinistra, poi dritto davanti a sé. Non sapeva da che parte andare. Si voltò. Il portone dal quale era appena uscito apparteneva a un albergo. Hotel Vasteland, diceva la scritta sull’edificio, a grandi caratteri neri.

La strada era deserta, l’attraversò e si diresse al bar di fronte.

«Buongiorno signor Dammerschlaft» gli disse cortese l’uomo al banco.

Sobbalzò al suono del suo nome. Nel caffè non c’era nessun altro. Guardò con attenzione il barista, eppure, ne era sicuro, non l’aveva mai visto prima d’ora. Come faceva a conoscerlo?

«Buongiorno» rispose la sua voce incerta e tremula e la sentì ordinare un caffè.

Mentre sorseggiava il liquido denso e amaro, osservando le volute di fumo che fluivano dalla tazzina, si tastò il soprabito e le tasche della giacca in cerca dell’accendino, ma non lo trovò. Davanti ai suoi occhi balenò una visione fugace; un frammento di sogno impigliato in una radice neurale proiettò nel suo cervello l’immagine di una mano.

Trangugiò l’ultima sorsata del suo caffè e si affrettò a tornare all’albergo.

«Buongiorno, signor Dammerschlaft. Aspetti» fece il portiere, porgendogli la chiave della sua stanza. «C’è posta per lei.»

Trasalì. Chi mai poteva avergli scritto? Le sue dita afferrarono rapide la busta e stette a considerarla un po’. Non c’era il mittente sulla carta grigia e porosa, ma solo quello che, a quanto pareva, era il suo nome.

Gli venne un brivido di freddo, fin dentro le ossa. Heinrich gli pareva un nome semplice e forte, che dava un’idea di rigore morale. Ma quel cognome? Quelle lettere producevano un suono schioccante e misterioso, che aveva a che fare col crepuscolo e le tenebre, e con il sonno, così simile alla morte.

E sotto il nome un indirizzo:

Hotel Vasteland

Koningstraat, 99

Amsterdam

Si trovava dunque in Olanda, ma per quanto strizzasse le meningi, non riusciva a ricordare come e perché vi fosse giunto. Chi poteva avergli inviato quella lettera? Si chiuse in camera e si installò alla scrivania, lacerò la busta e ne scrutò con apprensione il contenuto. Sul foglio si srotolava una minuta grafia. Dunque lesse.

Signor D.,

tutto è pronto, la cosa è stata organizzata nei minimi particolari. C’incontreremo al Cafè De Vrjie. Mi raccomando, la nave non aspetterà a lungo.

Voglia gradire, intanto, i miei migliori saluti.

Felix V.D.

Un appuntamento al Cafè De Vrjie. Era dall’altra parte della strada. C’era appena stato, eppure non vi aveva trovato alcun indizio di quanto riportato nella lettera. E poi, la nave implicava una partenza. Ma per dove?

Il cuore prese a palpitare forte e un crampo gli addentò la bocca dello stomaco. La sua testa stava per andare in pezzi.

Ripose la lettera nella busta e si ripromise di studiarla con maggiore attenzione più tardi. Gli tornò la voglia di fumare e un’angoscia arcana si impadronì di lui e lo fece rabbrividire. Gli sembrò di udire bisbigli sommessi e le lievi e argentine risate di una donna. Come in trance si alzò, andò verso il letto e si affacciò presso il bordo.

E ritrovò l’accendino.

Glielo porgeva una mano che sbucava da sotto il letto.

Dammerschlaft sbigottì. Avrebbe voluto correre fuori dalla stanza a chiedere aiuto, ma qualcosa lo tratteneva. L’istinto gli suggeriva di non fuggire, ma di restare. Allora si inginocchiò accanto al letto. La mano si protendeva verso di lui oltre l’orlo delle coperte, come se lo invitasse a seguirla in un mondo buio e misterioso di là dalle coltri e le lenzuola. Si fece coraggio. Afferrò il polso e tirò. Lentamente, dal mondo buio e misterioso emerse un braccio, poi una spalla e infine un volto.

L’universo si paralizzò intorno a lui e addensò in una massa compatta di spazio e di tempo, non-materia, non-vita e non-morte, e lo imprigionò nelle tenebre di un pozzo senza fondo.

Dammerschlaft soffocò un urlo e ricadde all’indietro. Una donna era emersa dal buio. Egli aveva afferrato la mano che affiorava dai panneggi ondulati delle coperte, come quella di un naufrago che chiede soccorso, e l’aveva tratta in salvo. Aveva rubato quella donna alle onde, l’aveva rapita dal suo mondo equoreo, quel corpo sireniforme non apparteneva più alle acque. Ora riposava in una gialla pozza di luce, i capelli neri e la macchia scura del pube risaltavano nel pallore del suo corpo nudo.

Era molto bella.

Egli si vide riflesso nei suoi occhi, azzurri come l’acqua di uno stagno sul punto di gelare e fu come specchiarsi dall’altra parte del tempo. Era una fanciulla smarrita nel bosco, elegante come il volo di uno sparviero nel cielo silente, persa in un balzo tra profondi silenzi, un pesce argenteo dagli occhi vuoti che risaliva dagli abissi.

Le sfiorò la fronte, scostandole i capelli dal viso con un movimento appena percettibile delle dita, come se avesse terrore di sentire il freddo, poi premette l’indice e il medio contro la giugulare. Gli passò per la testa un ticchettare di orologi, ma alcun ticchettio, alcun palpito proveniva da quel corpo.



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