VI
Tutto parlava di lei.
I fiori gli dicevano del perduto istante in cui aveva
colto il loro profumo. Le lettere narravano dell’incanto infinito
degli occhi che scorrevano le righe. Il suo odore aleggiava ancora su
tutti gli orpelli, gli ornamenti e le finzioni di quella stanza. Le
sue dita avevano lasciato impronte ovunque.
La stanza era piena di lei.
Un attimo prima era lì, davanti a lui, e gli sorrideva
e un momento dopo era svanita, evaporata come un respiro nell’aria,
una fiamma confusa fra altre fiamme, una goccia d’acqua nell’acqua.
Era proprio la realtà quella che percepivano i suoi
occhi o soltanto un’allucinazione indotta dal reale? E come poteva
essere certo del fatto che l’immaginazione non si fosse impadronita
della realtà?
Eppure Dammerschlaft la sentiva, ovunque scorgeva la sua
ombra, percepiva la sua presenza come un elemento costante, certo e
vivo delle sue ore senza memoria. Ma cosa sapeva di lei?
Ricordava a malapena il suo volto, la sfumatura di raro
turchese che splendeva nelle iridi, l’arco roseo e delicato delle
labbra, le onde brune e selvagge dei suoi capelli. E tuttavia, nel
profondo del suo cuore in tumulto, egli sapeva di averla amata.
Sapeva di amarla ancora.
Doveva credere in lei, in quella donna eterea, dal
sorriso ineffabile, sospesa nel tempo. Doveva andare oltre le
apparenze, trascendere la realtà, sradicare le convinzioni più
forti. Chi era lui? Un sovversivo in lotta contro il tempo e le leggi
della fisica, un partigiano del caos. Tutto pur di nutrire e
proteggere il suo amore per quella donna inesistente, il suo amore
contro le leggi di natura, il suo amore sovversivo.
Era come se fosse il suo primo giorno sulla Terra. Non
ricordava nulla del suo passato. Dubitava che fosse mai esistito un
passato, una vita prima di quell’alba grigia in cui si estingueva
la sua breve notte. E ticchettii di mille orologi dilaniavano il
tempo ogni mattino in cui era costretto a destarsi.
E anche se avesse posseduto dei ricordi, chi gli avrebbe
potuto assicurare che fossero frammenti di vite realmente vissute e
non allucinazioni, fantasmagorie e miraggi inesistenti? Il passato
era tempo che non era più, il futuro non v’era ancora e forse non
vi sarebbe stato mai, e anche il tempo non esisteva, era solo una
delle tante illusioni, una particella di luce incastrata nell’eterno
presente.
Dammerschlaft procedeva a tentoni come un cieco, nella
stanza così vuota da apparirgli immensa e spaventosa. Aveva paura di
perdersi, com’era già accaduto. E sapeva bene che si sarebbe perso
ancora e ancora.
Aprì gli occhi. Il silenzio si risvegliò piombandogli
addosso. Vestiti dismessi, ombre incombenti, fiori appassiti, nuvole
di patchouli. Negli occhi l’illusione degli occhi di lei. Nella
mente il rimbombo delle sue parole. Nelle orecchie il frastuono
insopportabile del silenzio. Quella stanza era maledetta, un’oscura
presenza ordiva sempre nuovi inganni per i suoi sensi affaticati e
metteva a dura prova la sua logica. Esisteva una logica, c’era
qualcosa che avesse un senso? Ne dubitava. Lei non c’era e forse
non c’era mai stata. Solo uno scherzo della sua fantasia, un
miraggio, un’ombra appena un po’ più densa delle altre da
sembrargli reale. Soltanto un sogno. O forse lei non era ancora nata,
doveva ancora farsi carne e comparirgli davanti un giorno in un tempo
di là da venire. Un futuro nel quale sarebbe stato troppo vecchio
per riconoscerla. Credette di impazzire.
Gli mancava quella donna sconosciuta, bramava il suo
corpo pallido e nudo. Cosa gli stava accadendo? Perché desiderava
quella femmina eterea e fluttuante come un fantasma? Quei ricordi
intermittenti gli stavano facendo perdere la ragione. Qual era la
realtà e quale la fantasia? Forse a tutti era riservata quella sorta
di incubo in un certo momento della vita: non poter distinguere i
sogni dal vero, le allucinazioni dalla realtà.
Ma un uomo è ben poca cosa di fronte al tempo, davanti
agli eventi, di fronte al fato. E non vede forse ognuno di noi che
una piccola parte di realtà, quella che gli è toccata in sorte per
essergli piombata davanti agli occhi? E non cadiamo in fallo di
frequente anche su questo misero frammento, credendo spesso che sia
soltanto il residuo di un sogno?
Si inginocchiò presso il letto e infilò la testa sotto
le balze ricadenti come un drappo funebre. Era ancora lì, non si era
mai mossa dal suo ambiente acquatico e ombroso. Dunque non era un
sogno, dunque non era un’allucinazione. La donna era reale e il suo
corpo pallido e freddo ne era una prova inconfutabile.
Ebbe timore di questa sua passione per le ombre, per le
visioni inconsistenti, per le allucinazioni. Ebbe timore per questo
suo misterioso amore per le cose morte, in decomposizione.
Notò delle macchie sulle braccia della donna. Guardò
meglio. Segni bluastri si estendevano sulla cute del braccio destro.
Vasti ematomi, coaguli di sangue e linee ancor più scure solcavano
la pelle. Sulla vena cava si distinguevano gocce di sangue rappreso.
Gli passò qualcosa per la testa, poco meno di un
ricordo, poco più di un’intuizione. Andò alla scrivania e notò
subito alcune fiale vuote abbandonate sul pavimento. Ne raccolse una.
Era morfina. Presero a dolergli le braccia, avvertì delle fitte
nell’incavo di ogni avambraccio e il suo sangue indurirsi e
scorrere a fatica nelle vene. Tastò con le dita il punto dolente,
che prese a fargli ancora più male. Arrotolò le maniche della
camicia. Anche la pelle delle sue braccia era violacea. Ebbe la
nausea a quella vista e prese a girargli la testa. Si sentì
sollevare per i piedi e trasportare via dalla stanza. Planò sul
corpo di un giovane che assisteva a una qualche sorta di convegno. Si
vide prendere appunti con un mozzicone di matita, appena in tempo per
ascoltare le battute finali.
“… come per tutti gli alcaloidi dell’oppio,
l’azione della morfina è dovuta alla sua sorprendente capacità di
superare la barriera emato-encefalica e legarsi ai recettori oppioidi
delle cellule cerebrali, specialmente nel talamo e nel sistema
limbico.” Il relatore fece una breve pausa per gustare l’effetto
delle sue parole imparziali e inconfutabili sui volti dei presenti.
“Essa mima l’azione delle endorfine manifestando un’azione
antagonista nei confronti dei recettori oppioidi e agonista parziale
nei confronti dei recettori delta, bloccando il rilascio dei
neurotrasmettitori a livello presinaptico”. Studenti in piedi,
scroscio di applausi.
Cacciò un urlo che soffocò a stento. Più che un grido
si sarebbe detto un singulto di dolore, un sommovimento imperioso del
petto, palpitazioni brusche ed energiche del suo stesso cuore, come
se fosse per abbandonare la sua sede naturale.
La rivide distesa e immobile nei pressi del letto e il
suo corpo nudo lo sconvolse a tal punto da fargli perdere la testa. I
battiti del cuore subirono un’accelerazione repentina e non vollero
saperne di rallentare. La vista gli si annebbiò e gli mancò l’aria.
Gli parve di cadere, un lieve svenire nelle sensazioni
rallentate di un sogno. Ma non perse conoscenza. Si limitò a
scivolare in ginocchio accanto a lei, con il volto sopra il suo.
Sentì un ticchettio liquido e irregolare. Gocce cadevano sulla
donna. Non si era reso conto di avere cominciato a piangere. Lacrime
precipitavano sul volto di lei, sulla fronte, sugli occhi, sulle
labbra e sui capelli, una pioggia lieve, sottile, che ben presto si
trasformò in un pianto irrefrenabile. Dammerschlaft piangeva di
gusto, inspirando l’aria in grevi singulti mentre il suo dolore si
coagulava in gola e in fondo al petto.
Cos’aveva il mondo? Perché girava al contrario? Chi
si divertiva a giocare quei crudeli scherzi alla sua memoria? E
perché ogni cosa appariva l’esatto opposto di ciò che era?
E forse il mondo davanti ai suoi occhi non era il mondo
reale, ma il suo riflesso allo specchio. Tutto rovesciato,
sottosopra, ogni cosa ambigua e confusa, la destra al posto della
sinistra, l’alto scambiato con il basso e il centro scaraventato in
un oscuro infinito. Forse era la morte l’unica speranza, forse la
morte era la liberazione, soltanto lei avrebbe ripristinato il
diritto al posto del rovescio, come una fotografia che si ricompone
dal negativo. Ecco perché lui e quella donna, in una vita precedente
che non esisteva più neppure nei ricordi, avevano deciso di partire,
di tagliare i ponti con quel mondo asimmetrico e imperscrutabile e
scomparire per sempre nell’eco delle loro voci sempre più fievoli
e lontane.
Guardò l’orologio. Le quattro e quindici. Passi si
avvicinavano sotto la sua finestra, rimbombando sul selciato. Tre o
quattro persone parlottavano, i passi si allontanarono e l’eco
delle loro voci si perse nella notte. Tornò a guardare l’orologio.
Le quattro e diciassette. Sempre numeri dispari. Qualcosa non andava.
Forse la morte è dispari?
La suite numero novantacinque era la loro tomba, il loro
tempio sepolcrale.
Chiuse la porta a doppia mandata, serrò le imposte e
accostò le tende. Infine, si distese a letto, preferendo aspettare
l’arrivo di un altro giorno.
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