Parte seconda
Dies
VII
L’alba sopraggiunse rapida e lo sorprese nudo, riverso
fra le lenzuola. L’incipit di un nuovo giorno, senza nome né
identità, senza passato né futuro. Soltanto l’eterno presente.
Si sentì in trappola, costretto a vivere lo stesso
giorno, la stessa ora, nello stesso luogo. Si sentiva come un’orrenda
multiforme creatura che perpetuava se stessa riproducendosi
all’infinito, o almeno, fino a quando il signore delle ombre non
avesse decretato la fine della sua tortura.
La sua mente si liberava dai filamenti di un sogno. Si
stropicciò gli occhi. Che ora era? Difficile dirlo. Il tempo pareva
essersi fermato. Nessun ticchettio, nessun moto meccanico a misurare
le ore nel silenzio della stanza. L’universo fluttuava sospeso nel
vuoto, le pareti si dilatavano, niente andava, niente veniva, e ogni
cosa era immobile, congelata in un eterno presente. Era una
sensazione che aveva già provato, eppure si stupì della sua
dirompente novità. Gli pareva, in effetti, di non aver mai vissuto
prima niente di simile. Un déjà vu
che somigliava in modo bizzarro a uno jamais
vu. Forse, si trovava sulla soglia della
rivelazione, sull’orlo dell’assoluto, sospeso nell’attimo di
cogliere l’essenziale. O, più semplicemente, il tempo era stato
abolito? Un dio imperscrutabile e indifferente doveva essersene
sbarazzato.
Gli orologi ripresero a ticchettare all’unisono, tutti
nello stesso istante, come se non avessero fatto altro negli ultimi
tremila anni, e il mondo cominciò a vorticare intorno alla sua
testa. La stanza, il letto, gli arredi, ogni cosa ruotava senza
requie intorno alla sua testa, come satelliti impazziti di un pianeta
sull’orlo della distruzione.
Si distese sul letto in preda alla nausea. Chiuse gli
occhi. Là fuori, oltre le sue palpebre, l’universo continuava a
roteare senza fine. Da remoti mari del tempo, da oscuri abissi dello
spazio, riemerse alla luce perfetta del giorno. Lentamente, dapprima
in maniera confusa e quasi impercettibile, poi sempre più nitide,
gli apparvero immagini in chiaroscuro e quelle immagini si misero in
movimento, presero vita, come sequenze di un film in bianco e nero,
proiettate all’interno delle palpebre.
Si vide fermo alla stazione, indossava un abito grigio,
che gli donava molto. Si faceva buio, il sole era tramontato da poco,
e stava aspettando qualcuno.
Qualcuno in effetti scese dal treno, egli ne scorse il
profilo inconfondibile tra gli sbuffi di vapore. Una donna fendeva la
folla, ondate di capelli nerissimi fluttuavano su un volto pallido e
delicato, nuvole di patchouli sul mare d’inchiostro.
Mai Colonia era parsa loro fredda e vuota come quella
notte. E anche le strade erano fredde e vuote come vallate notturne e
su quelle vallate perdute era sorta una fitta nebbia, da cui si
levavano, come fari silenti sul mare, scheletrici lampioni. L’uomo
e la donna camminarono a lungo senza scambiarsi una parola, senza
guardarsi, in perfetto silenzio. Attraversarono strade e piazze e
radi aloni di luce. Lei si teneva al suo braccio e di tanto in tanto
appoggiava il capo alla sua spalla, trovandovi rifugio e conforto.
Attraversarono l’ultima strada vuota della città e si fermarono
davanti a un edificio maestoso ed elegante. Un’insegna li aveva
guidati attraverso la notte, i caratteri gotici splendevano nel buio
a formare una parola misteriosa e rassicurante.
Kontinental.
L’orchestra suonava un tango struggente. Uomini e
donne affollavano la pista da ballo. Seduti davanti a due tazze di
caffè fumante nel bar dell’albergo, si guardavano e sorridevano.
Era la loro ultima notte.
Allo scoccare delle ventitré, come a un segnale
convenuto, egli si alzò, lasciò alcune banconote sul tavolino e si
diresse alla toilette. Josefine si alzò a sua volta e uscì in
strada. Iniziò a camminare e non si fermò quando sentì passi
affrettati dietro sé. Egli la raggiunse e proseguirono insieme in
silenzio. Svoltato l’angolo, fermarono un taxi che li condusse fino
alla periferia della città. Da lì in poi proseguirono a piedi.
Le case si erano diradate da un bel pezzo e la città
lasciava spazio alla campagna. Era ormai notte alta e la luna
illuminava il loro cammino, gettando ombre argentee e gigantesche a
lato della strada.
Si fermarono nei pressi di una cascina. Sul davanti era
parcheggiato un autocarro carico di ortaggi. Qualcuno nella cabina
fumava nell’attesa, sbuffando dense nuvole di fumo fuori dal
finestrino. Non appena si accorse di loro, senza profferire parola,
avviò il motore. Un lamento metallico, aspro stridore di ingranaggi
contro altri ingranaggi, lacerò il silenzio della notte. Lentamente,
tossicchiando e sputacchiando, il motore si risvegliò dal suo sonno
meccanico e sbuffi di fumo azzurrino svaporarono dal tubo di scarico.
Heinrich e Josefine montarono a bordo, il motore salì di giri e si
allontanarono nella notte.
Dopo alcuni chilometri, un brontolio cupo solcò il
cielo sopra le loro teste. Non era il mormorio del tuono, era
qualcosa di più forte. Era un rumore fatto di tanti rumori e insieme
formavano un rombo possente che si avvicinava e saliva di tono e
intensità. Dieci, cento, mille aerei si libravano nella notte, come
insetti notturni, in fitti stormi verso la città.
Si udirono sibili laceranti come urla di streghe e
spaventose esplosioni. L’autocarro si arrestò sul ciglio della
strada e i suoi occupanti scesero a vedere. Dalla città si levavano
già alte colonne di denso fumo nero come la notte e gigantesche
fiamme rossastre, vivide e abbacinanti, perfettamente visibili anche
da dove si trovavano. Colonia ardeva, il suo corpo sventrato bruciava
in una sola, inestinguibile fiamma.
Il vento caldo portò dalla città fino a loro il fetore
insopportabile della carne bruciata, l’odore della fuliggine ed
effluvi chimici e nauseabondi di esplosivi e di altre diavolerie
create per dare la morte. E parve loro perfino di udire le urla di
chi tentava di fuggire, o stava bruciando.
Pareva l’inferno.
Heinrich, Josefine e il camionista erano paralizzati da
quella visione, un gruppo marmoreo scolpito da mani sapienti, statue
biancheggianti di sale ai margini della strada, e sui loro volti
danzavano allegramente le fiamme di Colonia. Quelle urla avevano
toccato le loro anime a profondità tali che dubitavano della loro
esistenza.
All’improvviso non si udì più nulla. Alte fiamme
divoravano la città e si stagliavano invincibili contro il cielo
nero in un assurdo silenzio. Forse il vento aveva cambiato direzione.
Oppure Colonia si era estinta, evaporata in una sola terribile notte,
insieme a tutti i suoi abitanti.
Risalirono sull’autocarro con ancora negli occhi le
fiamme dell’inferno e nelle orecchie il frastuono di un inferno
ancora più vasto: lamenti insopportabili di uomini e donne, di
vecchi e di bambini, povera gente arsa viva. L’eco di un’umanità
corrotta, vociante e miserabile, che ruzzolava nell’abisso.
Der tod kommt von oben.
Un’immagine balenò rapidissima davanti ai suoi occhi.
La morte arriva dall’alto.
La visione era tetra e mortuaria. Un aereo ronzava nel
cielo scuro, sotto le sue ali pendevano raspi di bombe come grappoli
di frutta avvelenata. E, sulla tela delle ali inferiori era dipinta
quella scritta, in modo che si potesse leggere dalla terra per
soggiogarla con il terrore, prima ancora che con le bombe.
Il cielo seminava la morte nelle pianure francesi.
L’aereo stesso, nero più della notte, con le sue
croci, i teschi e le scritte in caratteri gotici, era più che un
simbolo di morte, era la morte stessa venuta a mietere il suo
raccolto con le falci scintillanti delle eliche.
Così gli era stato raccontato. Era il 1917 e suo padre
era su quell’aereo. Neanche trent’anni e il cielo piangeva ancora
lacrime di morte; a tremare sotto le bombe, stavolta, erano i
tedeschi. Il male torna sempre indietro, come un’eco.
Josefine piangeva, singhiozzando fra le braccia di
Heinrich, l’autista frenò bruscamente e saltò giù per vomitare.
«Scusate, scusatemi tanto» disse al suo ritorno,
asciugandosi la bocca, con gli occhi orribilmente arrossati.
«Su, metta in moto, si sbrighi.» Heinrich si accorse
che aveva pianto. «Andiamo via da qui.»
L’autista non se lo fece ripetere due volte, la notte
si riempì di fumi azzurrini e l’autocarro ripartì rombando. Nella
cabina calò presto il silenzio.
«Sembri sicuro del fatto tuo» disse Heinrich a un
tratto. «Di’ un po’: non hai paura che ci fermino?»
«Conosco bene queste lande» fece il camionista. «So
quali strade prendere e quali evitare. Quando ho cominciato a fare
questo lavoro, ero così piccolo che per vedere la strada dovevo
mettere un cuscino sul sedile. Ora lo devo mettere lo stesso il
cuscino.» Sospirò. «Per via delle emorroidi.» E rise di gusto
guardandolo dritto negli occhi. Anche lui rise e si rilassò contro
lo schienale.
«Mi chiamo Heinrich.»
«E io sono Heinz. Heinz Becker» gli porse una
sigaretta e ne accese una per sé. «Sai, io sono nato da queste
parti, in un paese non lontano da qui e ho molti amici. Se ci dovesse
capitare di fare qualche brutto incontro, so dove nasconderci.»
Josefine tossicchiò nel sonno e Heinrich le sistemò
meglio il cappotto sulle spalle.
«Ma non credo che accadrà. Vi porterò sani e salvi
dall’altra parte» aggiunse Becker tra le volute di fumo.
«Hanno requisito quasi tutte le automobili e gli
autocarri,» continuò «ma il mio no, l’ho nascosto bene. Ma in
fondo non do loro troppo fastidio. O forse gli fa comodo qualcuno che
traffichi di qua e di là dal confine. Sai ne vedo di cose strane,
cose che nessuno immagina.» Aspirò dalla sua sigaretta. «E così
mentre voialtri ve ne state al fronte, a rischiare pallottole e
granate, io vedo passare di qui le fortune dei generali. Quadri,
pellicce, gioielli. Quanto ci ha guadagnato lo zio Adolfo in questa
guerra!»
«Già, questa maledetta guerra» fece Heinrich
pensieroso.
«Sì, proprio maledetta, hai usato il termine giusto»
disse Heinz. «E sai qual è la soluzione?» Non aspettò la
risposta. «La soluzione è che non c’è
soluzione. E quando sarà finita, ormai saremo vecchi. E nessuno ne
verrà fuori innocente, credimi, proprio nessuno. Né io né tu e
neppure lei.»
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