martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Parte seconda Dies - Capitolo VII




Parte seconda

Dies



VII


L’alba sopraggiunse rapida e lo sorprese nudo, riverso fra le lenzuola. L’incipit di un nuovo giorno, senza nome né identità, senza passato né futuro. Soltanto l’eterno presente.

Si sentì in trappola, costretto a vivere lo stesso giorno, la stessa ora, nello stesso luogo. Si sentiva come un’orrenda multiforme creatura che perpetuava se stessa riproducendosi all’infinito, o almeno, fino a quando il signore delle ombre non avesse decretato la fine della sua tortura.

La sua mente si liberava dai filamenti di un sogno. Si stropicciò gli occhi. Che ora era? Difficile dirlo. Il tempo pareva essersi fermato. Nessun ticchettio, nessun moto meccanico a misurare le ore nel silenzio della stanza. L’universo fluttuava sospeso nel vuoto, le pareti si dilatavano, niente andava, niente veniva, e ogni cosa era immobile, congelata in un eterno presente. Era una sensazione che aveva già provato, eppure si stupì della sua dirompente novità. Gli pareva, in effetti, di non aver mai vissuto prima niente di simile. Un déjà vu che somigliava in modo bizzarro a uno jamais vu. Forse, si trovava sulla soglia della rivelazione, sull’orlo dell’assoluto, sospeso nell’attimo di cogliere l’essenziale. O, più semplicemente, il tempo era stato abolito? Un dio imperscrutabile e indifferente doveva essersene sbarazzato.

Gli orologi ripresero a ticchettare all’unisono, tutti nello stesso istante, come se non avessero fatto altro negli ultimi tremila anni, e il mondo cominciò a vorticare intorno alla sua testa. La stanza, il letto, gli arredi, ogni cosa ruotava senza requie intorno alla sua testa, come satelliti impazziti di un pianeta sull’orlo della distruzione.

Si distese sul letto in preda alla nausea. Chiuse gli occhi. Là fuori, oltre le sue palpebre, l’universo continuava a roteare senza fine. Da remoti mari del tempo, da oscuri abissi dello spazio, riemerse alla luce perfetta del giorno. Lentamente, dapprima in maniera confusa e quasi impercettibile, poi sempre più nitide, gli apparvero immagini in chiaroscuro e quelle immagini si misero in movimento, presero vita, come sequenze di un film in bianco e nero, proiettate all’interno delle palpebre.

Si vide fermo alla stazione, indossava un abito grigio, che gli donava molto. Si faceva buio, il sole era tramontato da poco, e stava aspettando qualcuno.

Qualcuno in effetti scese dal treno, egli ne scorse il profilo inconfondibile tra gli sbuffi di vapore. Una donna fendeva la folla, ondate di capelli nerissimi fluttuavano su un volto pallido e delicato, nuvole di patchouli sul mare d’inchiostro.

Mai Colonia era parsa loro fredda e vuota come quella notte. E anche le strade erano fredde e vuote come vallate notturne e su quelle vallate perdute era sorta una fitta nebbia, da cui si levavano, come fari silenti sul mare, scheletrici lampioni. L’uomo e la donna camminarono a lungo senza scambiarsi una parola, senza guardarsi, in perfetto silenzio. Attraversarono strade e piazze e radi aloni di luce. Lei si teneva al suo braccio e di tanto in tanto appoggiava il capo alla sua spalla, trovandovi rifugio e conforto. Attraversarono l’ultima strada vuota della città e si fermarono davanti a un edificio maestoso ed elegante. Un’insegna li aveva guidati attraverso la notte, i caratteri gotici splendevano nel buio a formare una parola misteriosa e rassicurante.

Kontinental.

L’orchestra suonava un tango struggente. Uomini e donne affollavano la pista da ballo. Seduti davanti a due tazze di caffè fumante nel bar dell’albergo, si guardavano e sorridevano. Era la loro ultima notte.

Allo scoccare delle ventitré, come a un segnale convenuto, egli si alzò, lasciò alcune banconote sul tavolino e si diresse alla toilette. Josefine si alzò a sua volta e uscì in strada. Iniziò a camminare e non si fermò quando sentì passi affrettati dietro sé. Egli la raggiunse e proseguirono insieme in silenzio. Svoltato l’angolo, fermarono un taxi che li condusse fino alla periferia della città. Da lì in poi proseguirono a piedi.

Le case si erano diradate da un bel pezzo e la città lasciava spazio alla campagna. Era ormai notte alta e la luna illuminava il loro cammino, gettando ombre argentee e gigantesche a lato della strada.

Si fermarono nei pressi di una cascina. Sul davanti era parcheggiato un autocarro carico di ortaggi. Qualcuno nella cabina fumava nell’attesa, sbuffando dense nuvole di fumo fuori dal finestrino. Non appena si accorse di loro, senza profferire parola, avviò il motore. Un lamento metallico, aspro stridore di ingranaggi contro altri ingranaggi, lacerò il silenzio della notte. Lentamente, tossicchiando e sputacchiando, il motore si risvegliò dal suo sonno meccanico e sbuffi di fumo azzurrino svaporarono dal tubo di scarico. Heinrich e Josefine montarono a bordo, il motore salì di giri e si allontanarono nella notte.

Dopo alcuni chilometri, un brontolio cupo solcò il cielo sopra le loro teste. Non era il mormorio del tuono, era qualcosa di più forte. Era un rumore fatto di tanti rumori e insieme formavano un rombo possente che si avvicinava e saliva di tono e intensità. Dieci, cento, mille aerei si libravano nella notte, come insetti notturni, in fitti stormi verso la città.

Si udirono sibili laceranti come urla di streghe e spaventose esplosioni. L’autocarro si arrestò sul ciglio della strada e i suoi occupanti scesero a vedere. Dalla città si levavano già alte colonne di denso fumo nero come la notte e gigantesche fiamme rossastre, vivide e abbacinanti, perfettamente visibili anche da dove si trovavano. Colonia ardeva, il suo corpo sventrato bruciava in una sola, inestinguibile fiamma.

Il vento caldo portò dalla città fino a loro il fetore insopportabile della carne bruciata, l’odore della fuliggine ed effluvi chimici e nauseabondi di esplosivi e di altre diavolerie create per dare la morte. E parve loro perfino di udire le urla di chi tentava di fuggire, o stava bruciando.

Pareva l’inferno.

Heinrich, Josefine e il camionista erano paralizzati da quella visione, un gruppo marmoreo scolpito da mani sapienti, statue biancheggianti di sale ai margini della strada, e sui loro volti danzavano allegramente le fiamme di Colonia. Quelle urla avevano toccato le loro anime a profondità tali che dubitavano della loro esistenza.

All’improvviso non si udì più nulla. Alte fiamme divoravano la città e si stagliavano invincibili contro il cielo nero in un assurdo silenzio. Forse il vento aveva cambiato direzione. Oppure Colonia si era estinta, evaporata in una sola terribile notte, insieme a tutti i suoi abitanti.

Risalirono sull’autocarro con ancora negli occhi le fiamme dell’inferno e nelle orecchie il frastuono di un inferno ancora più vasto: lamenti insopportabili di uomini e donne, di vecchi e di bambini, povera gente arsa viva. L’eco di un’umanità corrotta, vociante e miserabile, che ruzzolava nell’abisso.

Der tod kommt von oben.

Un’immagine balenò rapidissima davanti ai suoi occhi.

La morte arriva dall’alto.

La visione era tetra e mortuaria. Un aereo ronzava nel cielo scuro, sotto le sue ali pendevano raspi di bombe come grappoli di frutta avvelenata. E, sulla tela delle ali inferiori era dipinta quella scritta, in modo che si potesse leggere dalla terra per soggiogarla con il terrore, prima ancora che con le bombe.

Il cielo seminava la morte nelle pianure francesi.

L’aereo stesso, nero più della notte, con le sue croci, i teschi e le scritte in caratteri gotici, era più che un simbolo di morte, era la morte stessa venuta a mietere il suo raccolto con le falci scintillanti delle eliche.

Così gli era stato raccontato. Era il 1917 e suo padre era su quell’aereo. Neanche trent’anni e il cielo piangeva ancora lacrime di morte; a tremare sotto le bombe, stavolta, erano i tedeschi. Il male torna sempre indietro, come un’eco.

Josefine piangeva, singhiozzando fra le braccia di Heinrich, l’autista frenò bruscamente e saltò giù per vomitare.

«Scusate, scusatemi tanto» disse al suo ritorno, asciugandosi la bocca, con gli occhi orribilmente arrossati.

«Su, metta in moto, si sbrighi.» Heinrich si accorse che aveva pianto. «Andiamo via da qui.»

L’autista non se lo fece ripetere due volte, la notte si riempì di fumi azzurrini e l’autocarro ripartì rombando. Nella cabina calò presto il silenzio.

«Sembri sicuro del fatto tuo» disse Heinrich a un tratto. «Di’ un po’: non hai paura che ci fermino?»

«Conosco bene queste lande» fece il camionista. «So quali strade prendere e quali evitare. Quando ho cominciato a fare questo lavoro, ero così piccolo che per vedere la strada dovevo mettere un cuscino sul sedile. Ora lo devo mettere lo stesso il cuscino.» Sospirò. «Per via delle emorroidi.» E rise di gusto guardandolo dritto negli occhi. Anche lui rise e si rilassò contro lo schienale.

«Mi chiamo Heinrich.»

«E io sono Heinz. Heinz Becker» gli porse una sigaretta e ne accese una per sé. «Sai, io sono nato da queste parti, in un paese non lontano da qui e ho molti amici. Se ci dovesse capitare di fare qualche brutto incontro, so dove nasconderci.»

Josefine tossicchiò nel sonno e Heinrich le sistemò meglio il cappotto sulle spalle.

«Ma non credo che accadrà. Vi porterò sani e salvi dall’altra parte» aggiunse Becker tra le volute di fumo.

«Hanno requisito quasi tutte le automobili e gli autocarri,» continuò «ma il mio no, l’ho nascosto bene. Ma in fondo non do loro troppo fastidio. O forse gli fa comodo qualcuno che traffichi di qua e di là dal confine. Sai ne vedo di cose strane, cose che nessuno immagina.» Aspirò dalla sua sigaretta. «E così mentre voialtri ve ne state al fronte, a rischiare pallottole e granate, io vedo passare di qui le fortune dei generali. Quadri, pellicce, gioielli. Quanto ci ha guadagnato lo zio Adolfo in questa guerra!»

«Già, questa maledetta guerra» fece Heinrich pensieroso.

«Sì, proprio maledetta, hai usato il termine giusto» disse Heinz. «E sai qual è la soluzione?» Non aspettò la risposta. «La soluzione è che non c’è soluzione. E quando sarà finita, ormai saremo vecchi. E nessuno ne verrà fuori innocente, credimi, proprio nessuno. Né io né tu e neppure lei.»



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