martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Parte terza Oltre lo specchio




Parte terza

Oltre lo specchio



La stanza era oscura e gelida, un sepolcro di statue dagli arti monchi, intrappolate nelle ombre. Un picchiettare cadenzato e armonico si faceva beffe del tempo. La notte esalava il suo ultimo respiro al primo, timido raggio di luce.

La coscienza si liberava dalle ombre di un torpore che aveva portato con sé sogni incoerenti, inafferrabili, mostruosi, nei quali le sue membra erano invischiate in assurde ragnatele che tentava invano di lacerare.

Cosa aveva sognato davvero? Difficile a dirsi. Immagini sfocate, in eterno movimento gli affollavano il cervello, simboli faticosi da decifrare. E poi, nitida e ferma, l’immagine di una donna che si stagliava su tutte le altre. Una donna che sapeva di conoscere bene.

Ebbe una rivelazione. Non v’era niente che non conoscesse già, non v’era nulla che dovesse ancora accadere. Si rabbuiò pensando al passato, a quel passato che era stato presente ed era tornato a dissolversi nel tempo trascorso. L’intervallo fra i tempi andati e quel nuovo presente era stato spaventosamente breve.

I suoi pensieri si facevano sempre meno coerenti e si caricarono d’indignazione retrospettiva. Aprì gli occhi lentamente.

Dal biancore delle lenzuola, fioriva un corpo nudo, disteso languidamente nell’indolenza del primo risveglio. Le masse scure e selvagge dei capelli erano sparse sul cuscino. La donna aprì gli occhi. Iridi azzurre, di raro turchese, appena emerse dalle acque dei sogni, cercavano i suoi. Dovunque nella stanza v’era profumo di patchouli.

Era la donna del sogno.

Heinrich, Heinrich!

Egli riconobbe il suo nome nelle profondità abissali dei suoi occhi.

Josefine… sussurrò a fior di labbra, Josefine… come se avesse difficoltà a pronunciare quel nome per lungo tempo dimenticato.

Ho creduto di sognare e che nel sogno tu mi abbandonassi. Mi sono svegliata nel letto vuoto e ti ho cercato. Ma tu non c’eri. Ho creduto che fossi andato via, per sempre.

Non lasciarmi mai più.

Si strinse a lui e lo abbracciò forte. Heinrich si stupì della sua forza, si sentì soffocare come fra le spire di un rettile e cercò di divincolarsi.

Non sciogliere il mio abbraccio.

Non rispose, la guardò attraverso le pupille dilatate. Temeva che le cose potessero sfuggirgli, allontanarsi da lui ancora una volta. Volle tenere gli occhi ben aperti. Se li avesse impressi nella memoria, ogni particolare di quella stanza, ogni caratteristica di quel corpo, anche la più insignificante, nulla gli sarebbe più sfuggito.

Nessuno mi ha mai guardata come mi guardi tu.

Accarezzò la testa abbandonata sul suo petto, i capelli neri sparsi sul guanciale come da una cornucopia colma di oscurità. Giocò con la sua chioma, passando le dita fra le onde, inanellando riccioli e volute.

Nessuno mi sa capire come sai tu.

Sentiva sulla pelle il calore dell’altro corpo, avvinghiato al suo come un naufrago aggrappato a frammenti di sogni infranti. Respirava lieve, il suo corpo si inarcava in armonie simmetriche diffondendo nell’aria onde profumate.

Lei lo fissava, ma il suo sguardo pareva lontano, come se lo scrutasse dalle profondità del mare. Egli si vide riflesso nei suoi occhi, un tenue bagliore nel buio delle correnti marine, un riflesso in cui, finalmente, si riconobbe.

Appoggiò le labbra alla sua fronte e la trovò inaspettatamente fredda. Inspirò un sorso d’aria dalla sua pelle di carta. Gli parve di annusare un fiore appassito. Un fiore raro e delicato. Un’orchidea nera fra le sue braccia.

Non avremo tempo, egli disse.

Nella sua testa, l’assordante ronzio della disperazione.

Avremo tutto il tempo che desideriamo.

Heinrich udì i battiti del suo cuore accelerare, il respiro farsi più rapido fra le narici dilatate. Era bella come un sogno.

No, non avremo tempo, ripeté.

Sorrise, ma qualcosa andò in pezzi dentro di lui.

Non avremo tempo di amarci.



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