VIII
(Seconda parte)
Il sole aveva da molto oltrepassato il culmine della
cupola dorata del cielo e si apprestava a percorrerne la parabola
discendente. Rapiti dalla narrazione, non si curavano più dello
scorrere del tempo. I loro volti, accesi e infiammati, riflettevano
l’incendio del tramonto. Un lontano orologio chiamò l’ora.
«Ora devo proprio tornare a casa. Grazie per avermi
fatto compagnia.»
«Spero che non sia un addio, ma un arrivederci.»
«Non so. Gli addii e gli arrivederci sono a volte molto
simili nelle intenzioni.»
«Credo di non aver compreso.» Heinrich si accorse di
un luccichio ondeggiante sul petto della giovane, proprio nell’incavo
fra i seni.
«Non importa» tagliò corto lei. «Buona giornata.»
Il luccichio sembrava prender forma di rette e punte.
Egli guardò meglio. Le linee e i vertici formavano un triangolo.
Anzi, a ben vedere, i triangoli erano due, l’uno incastrato
nell’altro.
«Arrivederci» disse ormai alla sua schiena e alla sua
ombra che si allontanavano.
Qualche oscuro mistero si celava nel profondo dei suoi
occhi, ne era certo, e quell’arcano inspiegabile si era impadronito
della sua stessa essenza, della sua volontà, della sua vita e gli
impediva di mettere a fuoco il mondo.
Ma come per l’inusitato effetto di una formula
alchemica, il bizzarro rompicapo di vertici, rette e triangoli si
ricompose nella sua mente e fra i suoi seni apparve una stella d’oro.
La stella di David.
Se fosse stato un altro, avrebbe lasciato perdere quella
donna, sarebbe fuggito a gambe levate, l’avrebbe evitata come si
evita un pericolo imminente. Ma egli non era nessun altro e non
poteva più fuggire, e già aveva dimenticato il mondo, la guerra, i
suoi cari, i suoi doveri. Non gli importava più nulla, neanche di se
stesso. Doveva vederla ancora, doveva sapere tutto di lei, nei minimi
particolari. Voleva che le più piccole e insignificanti cose che
facevano parte del suo mondo fossero anche le sue e che i tormenti
che la opprimevano opprimessero anche lui.
E sopra ogni altra cosa, desiderò che lei gli
appartenesse.
Restò a guardarla fendere la calca sui marciapiedi, la
sua figura diventare sempre più piccola finché non si dissolse
nella folla. Egli sentì il vuoto dentro, un vuoto che, sapeva,
difficilmente sarebbe stato colmato.
Ma si mantenne fermo nella sua risoluzione. Il giorno
successivo si svegliò di buonora, si rase con maggior impegno del
solito e scelse con cura il suo abbigliamento. L’attese dall’altra
parte della strada, in un bar di fronte al suo portone. Brandelli di
conversazioni di cui captò solo alcune parole, un cicaleccio
popolare come rumore di fondo, vibrazioni a bassa frequenza su cui
cavalcavano singolari note di testa e di cuore. Infilò le mani in
tasca, rade monete vociarono al suo tocco. Ordinò un caffè e cercò
di farselo bastare. Qualcuno gli rivolse la parola. Senza divisa, era
un uomo come gli altri.
Ed eccola al tramonto uscire finalmente dal portone,
attraversare la strada, ticchettando sui suoi tacchi a testa bassa e
finire proprio fra i suoi piedi. Egli se la ritrovò quasi fra le
braccia. Josefine sollevò il viso trattenendo tutto il suo stupore.
Heinrich smise di respirare. Era così semplice e puro
il rossore dipinto sul suo volto, così incolpevole l’azzurro dei
suoi occhi. Era così bella.
Non avrebbe potuto sperare di meglio. Proprio quando
cominciava a credere che non avrebbe mai più visto quella donna, lei
gli era caduta in braccio.
«Buonasera!» Heinrich sorrise.
«Buonasera.» fece lei risistemandosi il cappellino sui
capelli ondulati.
Sapeva di alberi di cipro, di mirto e brezza di mare.
Era come se il profumo venisse dalla sua bellezza, dalle profondità
della sua stessa anima. Il suo odore sovrastava il profumo della sera
e si scioglieva nell’aria come un canto.
Josefine prese a discorrere. Heinrich l’ascoltava in
silenzio, non osava fiatare, non osava interromperla. Era bella la
sua bocca mentre partoriva le parole. Il volto era trasparente e puro
come il vetro. Le emozioni nascevano sotto la pelle anticipando la
natura dei pensieri e le espressioni si formavano sul suo viso come
increspature sulla superficie del mare. Rimase incantato dalla danza
delle mani che accompagnava i passi salienti del suo parlare, degna
della principessa Salomè. Era una donna intelligente, di raffinata
cultura. Ogni cosa l’affascinava. Era attratta dai più disparati
argomenti nel campo dell’arte e della letteratura, della filosofia
e della religione. Parlarono molte ore senza prestare attenzione al
loro cammino, finché non si ritrovarono in un quartiere popolare.
Le mura grigie e scrostate dei palazzi incombevano da
ogni parte. Si faceva sera e le ombre si allungavano su di loro con
neri artigli. Josefine tacque e la sua figura già minuta parve farsi
ancora più piccina. Si accostò a lui ed egli d’istinto le cinse
le spalle come per proteggerla da quelle ombre e l’attirò a sé.
Josefine si lasciò condurre ed egli sentì il profilo ondeggiante
del suo corpo aderire perfettamente al suo.
Davanti ai portoni, negli anditi, sui marciapiedi e per
strada, bambini magrissimi, emaciati, indignavano la vista con i loro
capelli incrostati, i volti sporchi e le mani unte con le unghie
contornate di nero, come se le avessero affondate per gioco nel
carbone della notte.
Erano immobili e silenziosi, lo sguardo vuoto, assente.
Uno spettacolo anomalo, un coro pallido e silente al termine di una
tragedia. Faceva male al cuore. Sulle gote smunte di alcuni di loro
lo sporco si era sciolto in lunghe scie al passaggio delle lacrime.
Probabilmente non toccavano cibo da giorni. La miseria e la
disperazione aleggiavano sul quartiere come spettri inquieti.
Una voce si levò nell’ombra.
Shemà Israel
Adonai eloheinu
Adonai ehad
baruch shem kevod malkhuto leolam va’ed…
Le parole si spensero in singulti. Una donna piangeva.
Josefine sollevò il viso. I suoi occhi erano pieni di lacrime.
«Siamo così pieni di miseria, questa guerra ci rende
poveri dentro» disse Heinrich.
«Non possediamo più nulla, vero?»
«Noi non possediamo più nulla, neppure il tempo.»
Da una finestra aperta una musica si spandeva lieve nel
crepuscolo. Gli parve di averla già sentita, anzi, fu quasi certo di
averla riconosciuta. Era, con ogni probabilità, una sinfonia di
Brahms, un andante largo e maestoso. Quelle note sapevano di morte e
disperazione, di dolcezza e rassegnazione e si dissolvevano nella
malinconia e nel rimpianto. Ebbero freddo, rabbrividirono e, stupiti,
si cercarono. Si trovarono nell’androne buio di un palazzo,
tremanti per l’emozione e il pericolo di essere scoperti.
Lei affondò il viso nella sua spalla e al sicuro fra le
sue braccia si lasciò andare a un lungo pianto, singhiozzando come
una bambina. Anche Heinrich avrebbe voluto piangere, ma non ci riuscì
e tenendo fra le braccia quella donna, ripensò ai morti dilaniati,
ai cadaveri gonfi che galleggiavano come orrende boe. Riascoltò le
urla, il crepitare delle mitraglie, le esplosioni assordanti, il
rombo urlante dei bombardieri appesi al cielo livido e duro come il
ferro. E le bombe fischiavano allegramente, seminando il panico tra
le fila gloriose dei soldati, nell’orrido ruggito di esplosioni che
scagliavano in aria poveri corpi in pezzi, come giocattoli rotti.
Giovani pieni di vita, che respiravano e parlavano e piangevano. E
avevano paura.
E intanto la musica andava e andava e non voleva
smettere di andare lieve e mesta per le strade e per i vicoli e
salire fino ai piani più alti dei palazzi, fino alle nuvole immobili
in ascolto e sempre più in alto, a toccare le stelle e farle
piangere, perché quella musica era il grido di dolore dell’umanità
tutta intera, il pianto mesto e rassegnato della terra.
Il grammofono gracchiò e tacque. Heinrich pensò che
anche se non era Brahms, chiunque aveva scritto quella musica sapeva
bene cosa fossero il dolore e la disperazione.
Josefine gli si strinse addosso. A lui parve di sentire
le voci argentee delle stelle. La baciò e senti sulle labbra il
lieve sfiorare dei petali di un fiore.
Si salutarono sulla soglia di casa sua, giurando di
rivedersi l’indomani.
Heinrich passeggiò ancora nella notte, felice come non
era mai stato. Sentiva il suo profumo pulito e delicato, l’odore di
boschi fragranti e umidi. Vagò per tutta la notte, non avrebbe
potuto addormentarsi per nessuna ragione al mondo. Quella notte era
così bella che non doveva essere sciupata, non poteva permettersi di
perderne anche un solo istante dormendo.
Si levò il sole ed egli andò sotto casa sua ad
aspettarla. L’attese per tutto il giorno in strada, ma lei non si
fece vedere, l’attese per tutta la notte, ma di lei neppure
l’ombra. Venne l’alba e lui era ancora lì, sotto il portico,
davanti al suo portone. Bussò, ma nessuno rispose. Chiese di lei a
tutti i passanti, ma sembrava svanita, inghiottita dalla terra. La
cercò per le strade e per le piazze, nei luoghi in cui erano stati
insieme e in quelli che non conosceva, ma lei non c’era. Alle prime
ombre della sera il dolore alla gamba si fece insopportabile e se ne
tornò al suo albergo. Aprì la valigia e trovò quello che cercava.
Una piccola scatola di latta. Alcune lettere gotiche
stampigliate sul coperchio proclamavano che era di proprietà del
Ministero della Guerra. Egli l’aprì e ne estrasse una piccola
fiala. Morfina. Nella scatola ce n’erano abbastanza da stendere un
cavallo per un anno, ma all’ospedale gli avevano detto di non
assumerne più di una alla settimana. Il contatto dell’ago sulla
pelle lo fece rabbrividire, ma si lasciò trafiggere. Si distese sul
letto e chiuse gli occhi, mentre un piacevole tepore si propagava
rapido nelle sue membra.
Lei non viene. Non conosce la strada per la porta del
cuore.
Lei non viene. Non possiede la chiave per la porta
del cuore.
Custodiva il sorriso dell’attesa come un tesoro, lo
serbava per fargliene dono. Apparecchiò la stanza con cura e si
preparò a riceverla. Il suo cuore palpitava forte a ogni rumore.
Sentì passi in corridoio venire verso la sua porta. Si sistemò i
capelli e la camicia per piacerle. I passi indugiarono e poi
proseguirono. Trascorse una quantità di tempo che non seppe
calcolare. Stava per prendere il soprabito e uscire di nuovo, quando
la porta si aprì.
Era venuta profumata di pioggia e patchouli e l’aria
fresca danzava sui suoi capelli umidi. Era stato soltanto un
involontario succedersi di spiacevoli contrattempi a trattenerla, o
aveva dubitato fino all’ultimo di lui?
Stava sulla porta, indecisa se oltrepassare la soglia di
quel mondo nuovo, inspiegabile, di quel mondo in penombra, eppure
così bello e misterioso, o se restare dalla sua parte di confine,
nel mondo di tutti i giorni, confortevole e conosciuto.
Josefine non decise.
Fu lui ad attrarla a sé, a baciare la sua bocca,
schiusa come un fiore. Lei era rigida, spaventata e si faceva scudo
della debole armatura delle braccia incrociate sul petto. Heinrich
sussurrò il suo nome fra i suoi capelli, sulla sua pelle, tante
volte. Adorava pronunciare il suo nome, piacque anche a lei.
Erano corpi opposti, in antitesi, anti-corpi. Le braccia
si distendevano, le mani si avvicinavano, cercando un contatto, ma
bruscamente si ritraevano, senza essersi sfiorate, come se intuissero
il freddo all’interno dei loro corpi, il gelo dentro i cuori. Erano
come morti.
Era spaventoso.
Le teste si voltarono, lentamente, non nello stesso
istante. E la bocca raggiunse l’altra bocca. Egli sentì il respiro
vicino al suo, così simile al suo. Regolare, rassicurante. Il fiato.
Tiepido, tenue. Denti morsero labbra in attesa. Labbra si ritrassero
e scoprirono tesori nascosti, perle incastonate in sorrisi
inevitabili. Profezie di lingue vagavano, tracciando contorni
sconosciuti.
Egli copriva quel corpo con il suo, come una coperta
pesante per l’inverno, come un sudario. Come un’ombra. Le loro
membra erano radici che affondavano nella terra nuda e suggevano
linfa vitale per i loro corpi liquidi. Erano reclusi in un cono di
luce, prigionieri di loro stessi. Per sempre. Rinchiusi, intrappolati
fra l’ombra e l’ora, esiliati in un luogo inaccessibile, tra il
letto e il destino, che esisteva soltanto nei sogni. O nei peggiori
incubi.
Josefine affondò gli occhi nei suoi, Heinrich li sentì
penetrare a fondo, passarlo da parte a parte, e rabbrividì. Erano
come artigli, stiletti affilati che straziavano la sua carne. Sentiva
tutto il suo dolore, lo sentiva forte, nelle viscere e nel cuore. La
strinse fra le braccia e sentì che tremava.
La stanza era nuda e silenziosa. Desolazione e
smarrimento. Odore della notte. Era quello il momento, egli lo
sapeva, quando la tenebra sa di volgere al termine, di aver
oltrepassato il suo equatore. Il cuore della notte. In quell’istante
capì che aveva cominciato ad amarla. In quell’istante capì che
aveva cominciato a morire.
Josefine chiuse gli occhi. Cullandosi l’uno nell’altra
si scoprirono, sorprendendosi della reciproca scoperta.
Fuori pioveva. Il rumore della notte giungeva fino a
loro dal filtro delle mura, dalle finestre cieche e sbarrate. Lei
piangeva, sommessamente, come un canto. Piangeva di un dolore
smarrito e ritrovato. Piangeva a occhi chiusi di una felicità che le
faceva male, perché le era ignota. Piangeva, perché piangeva lui.
Era buio là fuori, oltre il baluardo delle mura, oltre
il confine delle loro ombre. Pioveva a dirotto. Notte e pioggia
cadevano insieme, inghiottite dalla terra avida e assetata. Le nubi
cantavano con la loro voce greve. Tramontava la luna, figlia della
notte.
Heinrich si svegliò all’improvviso. E lei non c’era
più. Da quanto? Un’ora, due, forse tre? E già non ricordava più
il suo volto. Ebbe paura di averla persa per sempre.
Gli passarono davanti migliaia di volti di donne, ma
quello che cercava non riusciva a trovarlo. Il suo viso era come se
fosse composto da tutti i tipi di occhi, di orecchie, di nasi e di
bocche del mondo. E tutte le sfumature di iridi e di capelli e di
pelle di questo mondo sfilarono davanti ai suoi occhi. Ma essendo il
volto di tutte le donne, non era il volto di nessuna donna.
E ogni volta che pensava a lei, il suo viso era soltanto
una macchia confusa.
COPYRIGHT
2013 – 2015 ANGELO MEDICI
Tutti
i diritti riservati
Riproduzione
vietata
Nessun commento:
Posta un commento