VIII
(Prima parte)
La notte volgeva al termine e il cielo si faceva sempre
più chiaro a est. Josefine rabbrividì sotto il cappotto di
Heinrich, lui le aveva tenuto la mano per tutto il tempo. Le strade
fluivano deserte e silenziose sotto le ruote.
Il sole si levò fra le brume e prese ad arrancare verso
la volta plumbea del cielo. Josefine, stremata, si era assopita
reclinando il capo sulla sua spalla. Heinrich le liberò la fronte
dai capelli. Dormiva come una bambina. Sulle sue palpebre si
riflettevano immagini di sogni vividi e provvisori. Il pallido sole
continuava la scalata verso lo zenit, il cielo e la terra si
fondevano nella luce color del fango. Sorgeva un giorno rancido,
putrefatto.
Heinrich ripensò a un sogno che aveva fatto. Sembrava
un sogno ma non lo era. Era un giorno reale, un giorno fuori dal
comune, ma così sbiadito e distante che sembrava appartenere ormai a
un’era remota. Eppure, era trascorso soltanto un mese. Era una
bella giornata di primavera e Colonia mostrava i suoi gioielli alla
sua tenera luce. I profili degli edifici erano inondati di giallo
cadmio e sui vetri delle finestre, il riflesso del sole era quasi
insopportabile. Passeggiava per le strade della sua città, con il
cuore leggero e palpitante di un giovane viaggiatore. Era tornato
dopo molti mesi. Il suo corpo era fasciato da una divisa blu cobalto
e il berretto inalberava l’aquila con l’antico simbolo del sole.
Una ferita lunga e sottile, che partiva dalla base del femore e si
apriva sulla sommità del ginocchio, gli aveva regalato molti giorni
di ospedale e quel ritorno.
La città era rimasta come l’aveva lasciata quando era
partito, essa si risvegliava lentamente, svogliata e intorpidita, ai
suoi occhi. Aveva cercato subito la sua casa, ma aveva trovato la
porta chiusa. Nessuno dei familiari era stato informato del suo
arrivo.
Egli si pavoneggiava gonfiando il petto sotto la divisa
e ammirando il suo riflesso nelle vetrine del centro. Erano linde e
addobbate con cura, con fiori e lustrini e velluti, ma qualcosa
stonava. Non c’erano le merci che avrebbero dovuto esporre e quel
vuoto faceva male agli occhi, si faceva strada dentro le pupille
roteando e vibrando con furia. Sentì che gli stava arrivando un gran
mal di testa.
In quell’istante la vide.
Risaliva la strada venendogli incontro. Non seppe dire
in seguito cosa lo colpì di lei, forse gli occhi, il suo sguardo
particolare, oppure il volto, giovane ma al tempo stesso antico, come
quello di una regina medievale. Incontrandosi spalla a spalla sul
marciapiede, incrociarono lo sguardo per un breve istante, i suoi
capelli lo sfiorarono, poi proseguirono il cammino, ognuno per la sua
strada. Heinrich si fermò qualche centinaio di metri più avanti.
Riecco il suo profumo, anche a quella distanza, era un aroma dolce e
delicato, un sentore vagamente esotico. Doveva tornare sui suoi
passi, doveva raggiungerla. E si voltò.
Era stata la vacuità del suo sguardo a colpirlo. Una
sorta di vuoto nell’azzurro delle iridi. Ne ebbe quasi timore, ma
sentì che doveva seguirla. C’era qualcosa in quello sguardo, in
quegli occhi, c’era qualcosa che non riusciva a comprendere. Doveva
tornare da lei.
Ma lei era lontana, a stento indovinava il suo profilo
tra la folla e scoprì con stupore di non riuscire a ricordare il suo
volto. I suoi lineamenti erano un mistero ammantato di ombre, il suo
viso gli appariva multiforme e cangiante, come il volto triplice
della luna e, come Selene, splendeva nella notte soltanto per lui. Ma
Selene era lontana, tanto che temé di non poterla raggiungere.
«Mi scusi.»
Lei trasalì e si voltò.
Heinrich rimase a guardarla, senza poter profferire
parola. La sua bellezza lo aveva preso alla sprovvista. Era quasi
insopportabile.
Erano fermi all’ingresso di un palazzo, egli ne
approfittò per lanciare un’occhiata all’interno. L’androne era
inondato dalla luce e dove avrebbe dovuto esserci il pieno, c’era
il vuoto. L’edificio era sventrato e non ne rimaneva che l’elegante
facciata, intatta, che nascondeva un orrido e desolante groviglio di
armature contorte e travi annerite dalle fiamme.
«Ci conosciamo per caso?» chiese con labbra rosee e
piene come un frutto maturo.
«No, non credo, anche se mi sembra di conoscerla.»
Heinrich si accorse che tremava.
«Che razza di risposta sarebbe?» Inarcò un
sopracciglio a rimarcare la sua irritazione. Era irresistibile.
Egli capì che scrutava con ansia la sua divisa. «Mi
perdoni, non volevo importunarla.»
«Ma insomma, cosa vuole da me?»
«Glielo dirò accompagnandola nella sua passeggiata. Se
me lo consente…»
Per tutta risposta lei riprese a camminare. Heinrich la
seguì, fiero di continuare il cammino accanto a quella donna, come
se fosse un animale raro, ma al tempo stesso, ne aveva timore. Quella
donna gli destava preoccupazione, gli provocava un curioso effetto di
fascinazione e inquietudine, una ridda di emozioni contrastanti.
S’incantò a guardarla e rimase un po’ indietro. Perché si
sentiva come un calzino rovesciato, perché sentiva pulsare così
forte il suo cuore? Perché si sentiva uno stupido in uniforme? Più
la guardava, meno ci si raccapezzava. E intanto nessuna risposta
trapelava dal suo viso. È un’arte difficile dedurre dai volti
altrui le nostre emozioni.
A spasso con lei, Heinrich si rese conto che la città
non era più la stessa. All’improvviso si aprivano spazi immensi,
slarghi fra le strade e i palazzi, che non ricordava di avere mai
visto. Ben presto comprese che non erano state inaugurate nuove
piazze in sua assenza. I bombardamenti avevano diradato gli edifici,
alterando i profili familiari della sua città, tanto che non
riconobbe il quartiere in cui si trovavano. Colonia era andata a
fuoco e ora gli mostrava un po’ alla volta le sue ferite. Tutta la
baldanza e l’allegria del mattino erano gradualmente svanite e
avevano lasciato il posto a una viva apprensione. Il cuore gli si
strinse in una morsa d’angoscia. Sperò che i suoi genitori fossero
salvi e in buona salute.
«Le chiedo scusa, non mi sono ancora presentato. Sono
proprio un villano.» Le porse la mano. «Mi chiamo Heinrich.»
«Josefine» disse lei con un tono di voce così basso
che a stento fu udito.
Camminarono un tratto in silenzio, durante il quale si
accorse che lei gli lanciava rapidi sguardi in tralice, lampi azzurri
fra le ciocche di capelli, ma quando lui provava a cercare i suoi
occhi, ella distoglieva lo sguardo.
«Questi sono gradi da ufficiale?» Josefine indicò le
maniche della divisa.
«Le mie sudate strisce d’oro da tenente di vascello.»
«È in città per una licenza?»
«Sono stato ferito e mi hanno concesso di tornare a
casa per qualche giorno, a completare la guarigione» fece Heinrich
toccandosi la coscia. La ferita prese a fargli male proprio in
quell’istante.
«Questo è il nastro dei feriti di guerra.» Mostrò la
bianca decorazione che spiccava sul blu oltremare della giacca.
«Mi dispiace» fece lei. «Ma vedo che ora sta bene.
Com’è successo?»
La squadra navale scivolava maestosa, superba,
invincibile sulle acque verdi e placide del Mare del Nord. Dieci
cacciatorpediniere fendevano il mare, grigi d’acciaio scintillante.
Presto i loro ventri di metallo avrebbero vomitato migliaia di corpi
estranei sulle spiagge di Scandinavia. Soldati in feldgrau,
armati fino ai denti. L’invasione stava per cominciare.
Dal ponte di comando della Heidkamp si dominava tutto il
mare. Heinrich si sentiva al sicuro lassù. Le navi filavano leste
lasciandosi dietro lunghe scie e plasmando nell’acqua cupi vortici
che stentavano a richiudersi. Già si scorgeva la terra al confine
del fatuo orizzonte, il mare si apriva in miriadi di fiordi, sui
quali si levavano alte e ripide vette, le cime ricoperte di neve.
L’aria era gelida e tutto era pronto. Ogni cosa al suo
posto, le navi, i cannoni, gli sguardi entusiasti dei soldati. Il
nocchiere teneva la rotta con mani salde, stringendo forte fra le
dita la ruota del timone. Niente poteva fermarli, niente. E la terra
del tuono e del ghiaccio sarebbe stata loro.
Le navi si disposero in formazione aperta e si
avvicinarono alla costa. In quel punto la terra rientrava in una
lunga e stretta baia che il mare penetrava in profondità. La
Heidkamp e la Diether von Roeder allinearono i larghi fianchi come
donne baldanzose e intraprendenti, disponendosi alle operazioni di
sbarco. Il resto della squadra navale si schierò al largo a formare
un velo di protezione. E già sulle navi incombevano torreggianti e
screziate le erte creste, come antiche divinità a guardia del
fiordo, e già le loro ombre allungavano dita nere sulle coperte e le
sovrastrutture dei vascelli, che si udirono colpi di cannone.
Una nave da guerra norvegese era sbucata dal nulla e
aveva preso a cannoneggiare dall’ombra le navi. Altri vascelli
apparvero come fantasmi all’imboccatura della stretta baia e
aprirono il fuoco.
Lampi accecanti e fiammate rossastre spuntarono sulla
bocca dei cannoni e l’aria prese a vibrare. Proiettili di grosso
calibro sibilavano da ogni parte. Le bordate erano fitte e ben
raggruppate. Una salva raggiunse l’acqua a breve distanza dalla
Heidkamp e la fece traballare. Heinrich si aggrappò alle strutture
della plancia per non cadere. Il comandante urlava ordini a destra e
sinistra. Ormai erano stati scoperti.
I motori del cacciatorpediniere ruggirono, salendo di
giri con profondi lamenti e la nave manovrò per rispondere al fuoco.
Esplosioni tremende la fecero tremare fin nelle stive. I suoi cannoni
avevano preso a vomitare fiamme e piombo sui vascelli nemici.
Vi fu un lampo abbagliante, come se fosse caduto il sole
in quelle acque nere e un’esplosione folle, gigantesca,
inconcepibile gli strappò quasi via i timpani.
La Diether von Roeder era stata colpita. Il ponte era
stato spazzato via e al suo posto vi era un’enorme voragine scura,
da cui salivano gigantesche lingue di fuoco. Vide marinai in fiamme
buttarsi in mare dalle fiancate della nave, vide corpi a pezzi,
brandelli di persone, uomini divisi a metà e le due parti scagliate
a grande distanza l’una dall’altra, una fine illogica.
Heinrich non sentiva più nulla. Tutto si svolgeva nel
più assurdo silenzio.
La nave ardeva nel suo inferno privato ed era squassata
da esplosioni spaventose. Le strutture metalliche gemevano e
sfrigolavano nel calore. Poi, lo scafo si spezzò, i due tronconi si
levarono al cielo come per profferire oscure minacce e colarono a
picco.
L’acqua era ricoperta di cadaveri. Soldati e marinai,
con le membra devastate e i volti sfigurati, galleggiavano insieme a
rottami incendiati di ogni specie.
Josefine non osava fiatare. Quella storia aveva
sconfitto ogni suo piano di difesa, lo sconosciuto aveva vinto. Non
le restava che arrendersi e lasciarsi trafiggere dalle emozioni. Sul
suo volto, bello e altero, si frangevano le ondate impetuose delle
sue parole. Presto cominciarono a scendere le lacrime. Heinrich
credeva di essere un buon narratore e perciò continuò a raccontare.
Chiuso nel ponte di comando, non ebbe neppure il tempo
di rabbrividire di fronte a quel disastro, che un’esplosione immane
parve perforare lo scafo da parte a parte. Heinrich fu scagliato via.
Si rialzò sconvolto nel fumo nero, la coscia sinistra gli doleva e
sanguinava copiosamente, ma si sporse fuori per vedere cosa fosse
accaduto. La Heidkamp era stata centrata. Dalla poppa si levavano
alte fiamme e urla disumane. Si udirono miriadi di esplosioni in
rapida successione e poi detonazioni più gravi di tono che scossero
la nave fino alla chiglia. Senza dubbio era stato colpito il deposito
delle munizioni, che stavano deflagrando l’una dopo l’altra.
Heinrich si rese conto solo allora che il ponte di comando era pieno
di cadaveri. Perfino il timoniere in piedi al suo posto era morto,
anche se stringeva ancora il timone fra le dita bruciacchiate. Si
slanciò alla porta di dritta, ma questa si era fusa con la struttura
della plancia e non voleva saperne di aprirsi. Cercò allora di
andare dall’altra parte, ma inciampò e cadde fra i morti. Volti
dilaniati, che non riconosceva più, lo fissavano con cattiveria,
bocche orrendamente spalancate sghignazzavano il loro odio perché
era ancora in vita. Si rialzò in piedi, ma cadde ancora. Una mano si
era chiusa intorno alla sua caviglia e lo tratteneva. La stretta era
forte e lottò per liberarsene, senza capire se chi lo teneva fosse
ancora in vita o soltanto un povero corpo irrigidito dal rigore della
morte che voleva trascinarlo in fondo al mare insieme a lui.
Solo con enormi sforzi riuscì a liberarsi e fuggire
verso un rettangolo di luce, che si rivelò la porta di babordo. La
luce della salvezza. La nave si era inclinata da quel lato e quel
chiarore veniva dal mare. Oltrepassato il portello, scivolò nelle
acque gelide e scure e perse i sensi.
Quando si risvegliò, la Heidkamp era affondata e seppe
che era uno dei pochissimi sopravvissuti. Non si era salvato neppure
il comandante. Egli, invece, era stato ripescato da una nave che era
scampata al disastro. Aveva perso molto sangue, la sua gamba era in
condizioni pietose e sulle prime l’avevano addirittura dato per
morto, ma il medico di bordo si era accorto che un debole respiro
albergava ancora in lui e l’aveva restituito alla vita.
L’occupazione della Norvegia era fallita e i canti
allegri e baldanzosi della truppa si erano tramutati in carmi di
morte.
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