Postfazione
Il
motivo del doppio-fenomenologia di Hotel
Vasteland
Un giorno stavo scrivendo al computer nella stanza di
sotto, battevo i tasti con regolarità sotto l’influsso di una
discreta ispirazione, fermando di tanto in tanto i miei pensieri su
una virgola o su un avverbio. Dicono che il radon che s’infiltra
nelle case dal sottosuolo, nelle cantine e nei locali sotto il
livello stradale, sia nocivo. Io credo invece che il gas incrementi
la creatività: come scrivo nel seminterrato, non scrivo in
nessun’altra parte della casa. Così, anche quel giorno scrivevo,
come sempre, sotto l’effetto del radon e, come sempre, l’orologio
alla parete declamava, imperterrito e autorevole, minuti e secondi.
Ma non mi accorsi del suo ticchettio finché non l’ebbi arrestato.
La stanza, priva di quel monotono e familiare rumore, mi
sembrò sguarnita e fredda, come uno di quegli appartamenti da
prendere in affitto e ancora da arredare. Quella stanza vuota,
sebbene vi avessero echeggiato le note della mia ispirazione, creava
uno strano effetto in me, come se mi trovassi a casa di qualcun
altro, o non fossi più io. Avevo prodotto un minimo cambiamento e
già quella sala non mi apparteneva più. E neppure la scrittura mi
apparteneva, non riuscivo più a battere un solo tasto, a comporre
una sola parola. Mi affrettai a far ripartire l’orologio e, come
per incanto, la stanza si rianimò e ripresi a scrivere.
Il ticchettio dell’orologio alla parete della stanza
in cui scrivo è lo stesso che scandisce il tempo nella camera
d’albergo del signor Dammerschlaft. E sono certo che il suo arresto
ha prodotto un’interruzione del flusso del tempo anche nella sua
storia e l’ha scaraventato in un universo atemporale, dove non
esiste passato, né futuro; tutto accade nello stesso istante, e quel
tempo presente si chiama eternità.
Chi sono io?
Il volto che calza sul mio teschio, oppure la mia
immagine riflessa allo specchio?
Chi sono io davvero?
Quello che credo di essere o quello che di me vedono gli
altri?
Il signor Dammerschlaft si guarda allo specchio e non si
riconosce, sente pronunciare il suo nome, ma gli pare quello di un
perfetto estraneo, i conoscenti lo fermano per strada, ma è come se
li vedesse per la prima volta. Il signor Dammerschlaft è un uomo
senza memoria. E chi perde la memoria, perde anche la propria
identità.
Il nucleo di Hotel Vasteland
è doppio, come quei sistemi stellari composti da due astri gemelli,
nei quali l’uno esiste solo perché esiste l’altro, altrimenti
l’immensa forza gravitazionale li spazzerebbe via entrambi, e
invece, li attrae reciprocamente. Da un lato, la crisi d’identità,
dall’altro, l’impossibilità di amare. Temi antitetici e
contraddittorii? Niente affatto, sono il recto
e il verso della
stessa moneta.
Se non so chi sono, se non so chi sono davvero, come
posso amare il mio simile? Come faccio a specchiarmi in lui se non
riconosco la mia immagine allo specchio? Non sono in grado di
compatire nel senso letterale del termine (dal latino cum-patire,
sentire insieme), sentire quello che sente l’altro, provare quello
che prova l’altro. Come posso amare, se non
conosco i miei limiti e i miei difetti, la mia vera natura, se non so
neppure dove finisco io e dove comincia l’altro?
Se la nostra identità è smarrita, se non ci ritroviamo
più, non possiamo amare, perché amare significa riconoscersi
nell’altro a tal punto da annullare la nostra esistenza in quella
della persona amata, perché l’altro siamo noi.
Ma lo specchio ha in sé qualcosa di diabolico. Esso
riproduce una forma, un oggetto, un mondo che in realtà non esiste.
L’immagine si sdoppia in una vera e un’altra falsa. Un’apparenza.
Non si può andare dall’altra parte e pretendere di attraversare
indenni la superficie di cristallo. Una cosa è la realtà, un’altra
il suo riflesso. E la stregoneria dello specchio sta proprio nel
farci desiderare quello che sta al di là, di farci innamorare dei
miraggi che riflette. Per il mio Heinrich è ancora peggio, perché
la realtà e il suo riflesso, reale e immaginario, sono la stessa
cosa, sono entrambi un enigma dal quale vorrebbe uscire al più
presto.
Il tema dello specchio è ricorrente in letteratura.
Voglio ricordare la scena in cui Florentino Ariza, protagonista de
L’amore ai tempi del colera
di Gabo Marquez, chiede al padrone del ristorante di vendergli lo
specchio nel quale si rifletteva l’immagine della sua amata, ma
anche, Lo specchio deformante
di Anton Céchov, che fa apparire bella una donna che non lo è
affatto, Alice attraverso lo specchio
di Lewis Carroll, o Lo specchio
di Isaac Singer. Ma soffermiamoci un momento su quest’ultimo.
Singer scriveva in una lingua che non esisteva più,
l’antico yiddish, un idioma fuori dal tempo, e raccontava di un
mondo che, al pari del suo linguaggio, non c’era più: il mondo
contadino dell’Europa orientale, al confine fra il mito e la dura
realtà dei campi. Un piccolo mondo antico popolato da angeli e
demoni e destinato a evaporare come il fumo attraverso i camini di
Auschwitz. E il suo specchio si mantiene appena al di qua dei confini
del reale, “racchiuso da una cornice dorata
decorata con serpenti, pomoli, rose e vipere”,
ma, al tempo stesso, è una porta spalancata su un altro mondo. Nello
specchio si è insediato un demone.
Si tratta di una leggenda antichissima. “Quando
un demone si stanca di inseguire l’ieri o di girare in circolo su
un mulino a vento, può sistemarsi in uno specchio. Là aspetta come
un ragno nella sua tela, ed è certo che la mosca rimarrà presa”.
E la tentazione è fortissima. Quale donna può
resistere alla propria bellezza riflessa allo specchio? “Zirel
aveva molto da guardare. La sua pelle era bianca come seta, aveva i
seni pieni come otri, i capelli le scendevano sulle spalle e le gambe
erano sottili come quelle di una cerva”.
Non può neppure sospettare che la trappola sta per chiudersi.
Ma torniamo al signor Dammerschlaft e alle sue
enigmatiche avventure. Di qua dallo specchio, un mondo ordinato e
ordinario, anche se incomprensibile, di là dallo specchio, un mondo
al rovescio, capovolto, sottosopra. Qual è il vero e qual è il
falso? Qual è il reale e quale l’immaginario?
Non esiste una sola realtà, ma infiniti piani del reale
fra loro connessi a tal punto che anche una trascurabile variazione
del flusso degli eventi in uno di questi piani influisce
inevitabilmente su tutti gli altri, determinando mutamenti e
variazioni infinite. Tale è il potere di un singolo avvenimento, da
alterare lo scorrere degli eventi. Come un sasso in uno stagno
produce infinite onde circolari, che rompono la quieta superficie
dell’acqua, così ogni cambiamento può partorire infinite realtà
parallele.
Qual è il compito di uno scrittore? Narrare di tutte le
realtà simultanee? Sarebbe troppo noioso. E inutile. Ingannare il
protagonista (e attraverso di lui il lettore) con le finzioni e gli
artifici che ha creato? O aiutarlo a trarsi d’impaccio dalle
situazioni incresciose, dai raggiri e dalle falsità in cui egli
stesso l’ha gettato?
Nessuno di questi.
Il suo compito è superare la finzione. Il suo compito è
rivelare l’uomo nella sua nuda essenza, svelando, da un lato, la
verità nella sua vulnerabilità, scoprendo, dall’altro, il lato
animalesco e mostruoso della sua umanità.
L’alternanza sogno-veglia (rectius,
incubo-veglia) che sovverte l’unità di tempo e di luogo del
vissuto del protagonista non è un caso. Il sogno è un luogo pieno
di enigmi, una collezione di simboli dei quali sfugge il senso
complessivo. E non è più possibile distinguere il sogno dal reale,
l’incubo dalla veglia, perché si assomigliano in modo spaventoso.
Il sogno è lo specchio della vita, esattamente come la
vita è lo specchio del sogno. Tuttavia, la superficie riflettente
non è più rivolta verso l’esterno, ma verso l’interno e mostra
ciò che non dovrebbe mostrare mai.
Il buio dentro di noi.
A.M.
Nota dell’Autore
I versi nel Capitolo VIII sono Deuteronomio 6, 4-9.
Ascolta
Israele
il
Signore è il nostro Dio
il
Signore è Uno
sia
benedetto il santo nome del suo Regno
per
sempre e in eterno.
Shemà Israel è una
preghiera antichissima, la più sentita fra quelle della liturgia
ebraica. Secondo alcune fonti, risalirebbe addirittura ad Amenothep
IV, meglio noto come Akhenaton,
passato alla storia come il faraone eretico per aver tentato di
sostituire il culto del dio Amon
con un embrione di monoteismo.
Heinrich e Josefine sono come il sole e la luna, la luce
e il buio, il bianco e il nero, Aset
e Asar (ovvero, Iside
e Osiride), gli opposti che si attraggono. Ma la loro attrazione è
inconcepibile, addirittura scandalosa, immorale, contro natura, nel
contesto e nel tempo in cui agiscono. Sono l’unione impossibile fra
El e Asherah
(la moglie di Dio), le divinità pre-monoteistiche a cui faccio
riferimento nel Capitolo X.
Israel, secondo alcuni
studiosi, deriva dall’unione delle parole Is
(da Iside), Ra (il dio
egizio Rah) e El (il
dio canaanita sopra citato). La spiegazione che viene fornita in
proposito è che tre battaglioni egiziani di stanza nel Sinai,
guidati da un generale di nome Moshéh,
abbiano disertato e si siano insediati nella Terra promessa. È stato
appurato che sono storicamente esistite unità da guerra egizie con
nomi di divinità. Dunque, siamo noi a creare i nostri dèi e non
loro noi. E, come creiamo i nostri idoli, plasmandoli dalla creta
delle nostre paure, così forgiamo i nostri epigoni e li facciamo
danzare sulle assi traballanti dei nostri teatri esistenziali. Mi
scuso per la divagazione.
Le rime in corsivo nel Capitolo XII sono tratte da Guida
al diporto nautico di Flavio Guglielmi.
E per finire, una Josefine Ascher è realmente esistita.
Nata il 19 dicembre 1898, morì in uno dei tanti campi di
concentramento dell’Europa occupata. Ho saputo di lei solo molto
dopo aver composto il romanzo, quando il personaggio creato viveva
ormai di vita propria. Ecco, questo libro potrebbe essere dedicato a
lei, a quell’oscura eroina che visse i suoi ultimi giorni all’ombra
dei camini.
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