XI
Heinrich! Heinrich…
Il ricordo risalì dal subconscio rapido e inaspettato
come un rigurgito e ne aveva lo stesso sapore. E rivide suo padre
seduto in giardino in una primavera di tanti anni prima. Incideva
rami di piccoli arbusti per ricavarne talee e gli diceva che aveva un
nome forte e vigoroso e che non doveva aver paura perché quel nome
lo poneva al sicuro dai pericoli del mondo.
«Heinrich, Heinrich,» gli diceva «la vita è una
scala. Io ti aiuto a salire, tu mi aiuterai a scendere.»
Suo padre era un uomo alto e forte e non alzava mai la
voce. Neanche per sgridarlo di una marachella. Bastava che lo
guardasse ed era già in lacrime; ma subito sentiva il calore della
sua mano sulla guancia e, come per magia, le lacrime si arrestavano.
Chissà dov’era. Sotto tonnellate di mattoni e cemento dopo il
bombardamento di Colonia, o forse l’ultimo di una lunga fila di
vecchi in coda per il pane.
«Non aver paura.»
Sbirciò fra le tende nella strada di sotto. Era scesa
la sera. Non c’era più nessuno, fin dove poteva spingersi il suo
sguardo, la strada era deserta. Ma alcuni individui in abiti scuri
stazionavano nell’ombra all’imbocco della via e volgevano
occhiate insistenti verso l’albergo. Non v’era modo di uscire
senza darlo a vedere. Heinrich si maledisse per non essersene accorto
prima.
Le pareti della stanza dovevano essere solide e
impenetrabili quanto le mura di una fortezza, per accordarsi con la
fiducia che voleva trasmetterle con le sue parole.
Le cinse la vita e depose lievi baci alla base del
collo. Lei sorrise e inarcò il suo corpo di agile gazzella. Le loro
labbra si sfiorarono e i loro fiati si fusero in un solo respiro. Il
loro bacio era eterno, nulla avrebbe potuto sciogliere il loro
abbraccio. Non parlavano più, non ve ne era bisogno.
Lei prese ad accarezzarlo e attraverso le sue mani gli
fece comprendere quanto fosse vasto il suo desiderio, quanto avesse
trepidato nell’attesa che la sua forza si facesse strada in lei e
la sovrastasse, la soggiogasse.
«Vieni, mia regina» sussurrò al suo orecchio.
La regina si assise in trono, gli occhi e la bocca
socchiusi. Egli era insieme spalliera e cuscino, era il trono e il
regno, le sue braccia una fortezza inespugnabile, il suo corpo solida
roccia, era tutto il mondo che la nutriva e la sosteneva. Heinrich
immobile godeva della sua danza.
La regina cantò ed era un canto lieve, una nenia
remota, una melodia ancestrale. Un carme di amore e morte che si
perdeva nella nebbia del tempo e narrava di giorni smarriti come
gatti randagi e di notti trascorse a piangere sulla soglia
dell’oscurità.
Un lungo fremito pervase il suo corpo regale, alla luce
della sera. La danza si arrestò, si fermò anche il canto. La regina
si preparò a ricevere il dono, nel calore profondo del suo mistero
di donna dalla pelle bruna, colorata di sole. Ormai tutto era suo. La
stanza d’albergo, le parole, Heinrich e lei stessa. E ogni lacrima,
ogni goccia di gioia e ciascun maledetto frammento del bene e del
male, ogni particella di tenebra, ogni scheggia di luce e il tempo
passato e il tempo ancora da venire.
Si arrese, stupita della sua stessa forza, reclinò il
capo e si abbandonò a lui, respirando fra i capelli che le
ricoprivano il viso.
«E adesso cosa faremo?»
Per la prima volta nella sua vita, Heinrich non seppe
cosa rispondere. Avrebbe voluto dirle che l’avrebbe portata via da
quella città, che l’avrebbe condotta al sicuro, dall’altra parte
del mare e l’avrebbe amata per sempre. Ma neppure una parola uscì
dalla sua bocca.
Si osservò le mani. Linee rette e curve s’intersecavano
solcando la pelle, come orbite di pianeti di un universo
bidimensionale, una cosmologia in palmo di mano.
Si ricordò allora dove aveva nascosto una piccola
scatola di latta. La prese e la depose sul letto, fra loro. Disfece
lentamente la carta che l’avvolgeva, sollevò il coperchio e
finalmente l’aprì. Josefine osservava la scena con apprensione via
via crescente. Heinrich estrasse alla fine alcune fiale contenenti un
liquido trasparente, un laccio emostatico e una siringa e le adagiò
sulle coperte.
Josefine scoppiò a piangere.
Heinrich innestò l’ago che prese a brillare come una
piccola baionetta. Azionò lo stantuffo e il liquido gorgogliò
dentro il cilindro vitreo attraverso le linee fitte e regolari della
scala graduata. Quando ebbe terminato, aprì un’altra fiala e poi
un’altra e un’altra ancora, ripetendo con sapienza gli stessi
movimenti. Ammirò la siringa. La innalzò con solennità verso la
luce della lampada, come in un rito religioso e, nel più completo
silenzio, spinse avanti il piccolo pistone per eliminare le bolle
d’aria. Gocce molto chiare colarono lentamente dall’ago e
scivolarono sul corpo cilindrico, fino a bagnargli le dita.
«Vieni.»
Le prese la mano. Applicò il laccio emostatico al suo
esile braccio e strinse il nodo. Le vene eruppero bluastre come
torrenti in piena dalla pallida pianura vergine dell’epidermide,
fiumi di vita, fiumane di sangue.
Josefine non disse nulla e lo lasciò fare. Si riscosse
solo al contatto col freddo metallo dell’ago che penetrava nella
sua carne. Avvertì una vampa di calore incunearsi fra la testa e il
cuore e si sentì mancare. Heinrich ripeté le stesse operazioni,
stavolta sul suo braccio, poi si adagiò accanto a lei e le baciò la
fronte.
«Ti amo» disse Josefine.
«Anch’io ti amo, ti ho sempre amata.»
La baciò sulla bocca a lungo, accarezzandole i seni
bianchi e pieni, la strinse nel suo abbraccio, le membra annodate
come serpenti nel Giardino proibito. La prese ancora, lentamente,
annegando nel profondo mare dei suoi occhi. Lei invocò il suo nome
mentre lui germogliava nel suo pallido ventre, poi si accorse di star
iniziando lentamente a cadere. Il suo corpo perdeva pian piano le
forze, egli lo sentiva farsi flaccido e inerte e svuotarsi fra le sue
braccia.
E poi anche Heinrich cominciò a cadere, a precipitare
dentro un pozzo senza fondo, nel buio fitto dell’incoscienza. Il
mondo si allontanava e sfumava sotto una coltre di fitta nebbia. Non
vedeva più nulla, la stanza era svanita, il mondo era stato
inghiottito dalle tenebre. Non sentiva più le membra, non sapeva se
avesse ancora un corpo e si chiedeva in quale angolo dell’universo
o frammento di tempo si fosse incastrata la sua coscienza.
Era la fine.
Si sentì vuoto. Quel che restava del suo io aleggiava
ancora come un’eco, da qualche parte, spegnendosi in una profondità
che non era tempo, né spazio.
Un chiarore appena percettibile trapelava dalle imposte.
Ogni cosa pareva ricomporsi nel suo ordine originale, ogni frammento
si incastrava nel verso giusto, combaciando con gli altri, tutto
aveva un senso. Si stropicciò gli occhi e si rese conto di non
averli mai aperti. Dunque non era la luce del giorno quel bagliore
che era giunto da profondità abissali fino alle sue pupille. Era
come un frammento di quel bagliore primordiale, di quella luce
vergine e pura che aveva esiliato le tenebre in una delle due metà
esatte dell’universo all’alba della creazione. E quella luce
ardeva in lui come un fuoco perenne.
Era la vita.
Soltanto quando ebbe compreso aprì gli occhi. Era
giorno fatto ormai e la crudele energia del sole irrompeva dispotica
nella stanza con la forza di un oceano di luce. Il violento bagliore
illuminava impietoso il letto disfatto, i vestiti alla rinfusa, le
membra nude, che assumevano sotto le sue onde tutte le sfumature di
un colore nauseante. Heinrich richiuse gli occhi.
Subito sentì una risata isterica, una voce stridula che
si prendeva gioco di lui. Stette per un po’ in ascolto. Soltanto
dopo capì. La voce che lo scherniva era la sua. Quella era la sua
stessa risata.
La stanza prese a roteare di colpo e non vide più
nulla. Ricominciò a udire le voci. E stavolta non provenivano dalla
sua gola. In verità, non erano vere e proprie voci, erano più che
altro sussurri, gridolini, risate, come se tante persone
bisbigliassero tutte insieme dentro un teatro, aspettando che si
sollevasse il sipario. E ora le voci salivano di tono, sussultavano
in gorgheggi di meraviglia e incredulità, urlavano quasi, come se il
sipario si fosse sollevato davvero, mostrando scene fantastiche.
Mille voci strillavano tutte insieme la loro stranezza, la loro
anomalia, la loro indifferenza. Sullo sfondo, un uniforme e lontano
crepitare di alte fiamme. Era l’inferno.
Sii felice oggi, perché domani morirai.
Ma Heinrich aveva cominciato a morire quella notte fuori
dal tempo, un po’ alla volta, un respiro dopo l’altro, molto
prima di quanto si aspettasse, molto prima che arrivasse il domani.
La morfina l’aveva ucciso, ma non completamente. Aveva
ucciso soltanto la parte migliore di sé, la parte più pura, quella
che aveva amato Josefine e custodiva gelosamente la sua preziosa
memoria. Era sopravvissuta la parte peggiore, giacché era quella che
non l’aveva amata, che non aveva saputo salvarla, che l’aveva
lasciata morire nell’oblio e svanire senza lasciare traccia. Lei
non c’era più, non apparteneva più al mondo, alla terra, alla
vita.
A lui era toccata un’insolita sorte. La morte non
l’aveva voluto. Lo aveva respinto, scacciato dal suo lago di nera
pece e abbandonato sulla sponda ardente della vita. Ma poi, qualcosa
era andato storto e si era malamente incastrato in qualche frammento
di tempo, tra la vita e la morte, e lì era rimasto fino al suo
prossimo risveglio.
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