IV
La stanza era buia e fredda. Fuori pioveva. Pioveva come
fosse la fine del mondo. La notte si dissanguava nel giorno nascente,
la pioggia scendeva copiosa picchiettando contro le imposte. Dentro
la stanza ticchettii metallici, artefatti, innaturali segnavano lo
scorrere del tempo.
Qualcuno urlava.
Era un urlo soffocato, greve, come se nascesse dalle
profondità della terra. L’urlo salì di tono e lacerò il
silenzio. Un fiume di lava aveva trovato un varco fra le zolle
tettoniche e liberava la sua rabbia infinita. Era pura forza. E quel
furore impetuoso e vorticante urlava un nome, lo proclamava alle
tenebre, alla nebbia e alla pioggia. Un nome terrificante.
Josefine!
Dammerschlaft si sorprese a bocca aperta, con la gola
secca, senza fiato, senza più forze. Era stato lui a gridare e non
se ne era accorto. Era stato lui a urlare nella pioggia, nel grigiore
dell’aurora, a invocare quel nome che si era subito disperso in
echi infiniti.
Aveva sognato qualcosa, immagini vaghe e confuse. Si
levò dal letto e si mise a sedere. Non sentiva più le braccia. Le
gambe presero a scuotersi in modo convulso. Tutto il suo corpo
fremeva e ribolliva. Dentro la massa corporea era tutto un agitarsi,
uno scuotersi, un ribellarsi all’inverno e alla notte. Un
ribellarsi alla morte. Dal buio delle sue fibre si stavano
risvegliando i ricordi.
Guardò l’orologio. Le quattro e quarantasette. Un
fulmine attraversò il cielo e il boato del tuono si perse nella
notte. Guardò ancora l’orologio. Le quattro e quarantanove. Sempre
numeri dispari. Qualcosa non tornava.
Bussarono alla porta.
«Tutto bene, signor Dammerschlaft?» chiese una voce
profonda, di là dall’uscio.
Gli parve di precipitare da altezze siderali e di
ripiombare all’interno del suo corpo, ritrovandone il peso e il
controllo.
«Sì, sì, tutto bene. Grazie» rispose la sua voce
piatta e incolore.
Restò in attesa che passi pesanti si allontanassero
fino a che dal corridoio non giunse più alcun rumore.
Fuori dalla stanza il giorno si scioglieva in un
infinito presente.
Vi erano dei momenti in cui gli sembrava di essere sul
punto di cogliere la verità. Un rapido balenare di chiarezza sulla
superficie delle cose che quasi gli rivelava il momento supremo, il
risveglio, il satori,
il senso di tutte le cose.
La luce grigia del giorno, il ticchettare della pioggia,
il rombo ovattato del tuono oltre i muri, il sospiro del vento
attraverso la finestra. Rimase in ascolto. Ecco, quello era uno di
quei momenti.
Ma quei frammenti di tempo scomparivano proprio
nell’attimo in cui tutto gli appariva chiaro e sembrava che la
verità si mostrasse nella sua nudità infinita. Ed era costretto a
restare sulla soglia della rivelazione con una singolare sensazione
nella bocca.
E anche adesso, come centinaia di altre volte, la luce
del mattino, la pioggia, il vento e il temporale scomparvero come
immagini confuse in un vuoto privo di significato. E la verità
rimase ancora una volta distante.
In altri momenti i luoghi, gli oggetti e perfino le
persone che conosceva da una vita e avrebbero dovuto risultargli
familiari assumevano un aspetto irregolare e insolito, che glieli
faceva apparire sotto una nuova luce, rendendoli ai suoi occhi
perfetti sconosciuti.
Gli faceva male la testa. Forse l’urlo del risveglio
era la rivelazione, la fine del suo incubo privato, la salvezza. Ma
non riusciva a collegarlo con alcun senso salvifico. In verità non
riusciva a connetterlo con nulla, non vi era niente dentro di sé che
risonasse in armonia con quell’urlo. Era soltanto un corpo estraneo
all’interno del suo corpo. Un corpo estraneo dentro un altro corpo
estraneo.
Osservò le gambe che spuntavano dalle coperte. Erano
gambe di giovane o di vecchio? Non seppe rispondere. Sapeva soltanto
che erano sue. Ma erano deboli, magre, quasi scheletriche. La pelle
aveva un colore malsano e si tendeva sulle ossa a mostrare ogni
particolare anatomico, le vene, le articolazioni e l’incessante
lavorio dei tendini. I muscoli erano flaccidi e atrofici.
Si avvide di una cicatrice che attraversava per tutta la
sua lunghezza la coscia sinistra. La tastò con ribrezzo, infilando
le dita dove la carne era stata lacerata, tagliata via di netto. Al
suo posto, una striscia di pelle ricucita alla meglio. Toccare quel
vuoto straziato gli diede la nausea.
Cosa poteva essere mai accaduto alla sua gamba?
Non conosceva dunque quel corpo, i tessuti che
rivestivano la sua stessa anima? Gli parve di stare dentro qualcun
altro, come uno spirito errante in un corpo preso in prestito.
Si alzò in piedi ed esaminò l’arto. Eseguì tutti i
movimenti fisiologici, ma non avvertì alcun impedimento.
L’articolazione pareva intatta. Con estrema cautela, prese a fare
qualche passo. Portò avanti il piede destro e la gamba lo seguì
docilmente. Provò con il sinistro e fu lo stesso. Riuscì a
deambulare senza alcun dolore e senza zoppia, ma la nausea gli
aggredì ancora lo stomaco facendolo barcollare. Dovette mettersi
subito a sedere sul bordo del letto.
Quando si sentì meglio, si alzò e andò in bagno. Aprì
il rubinetto e lasciò scorrere l’acqua finché non fu gelida e se
la versò sul viso. Il freddo lo scosse e rimase senza fiato. E sentì
che di questo aveva bisogno, un salutare scossone che lo risvegliasse
dal torpore nel quale erano precipitati il suo corpo e la sua mente,
prigioniera del tempo. Si guardò allo specchio scrutando nel suo
volto, scavando nei lineamenti e nel mistero profondo dei suoi occhi.
Quella era la sua faccia e al tempo stesso non lo era.
Rientrando nella stanza, notò un luccichio sul
pavimento immerso nell’ombra, nei pressi della scrivania. Avanzò
fino a quel punto e si abbassò a vedere. Era una fiala di vetro che
rifletteva la scarna luce.
«Morfina!» urlò quasi senza
accorgersene. Subito si sentì soffocare dal panico, senza sapere
perché.
Udì lievi colpi alla porta. Il suo cuore si arrestò e
gli cadde in petto come una pietra.
Riuscì a poco a poco a ritrovare la calma, socchiuse
l’uscio e sporse la testa fuori. Il corridoio era vuoto e
silenzioso e le porte delle altre stanze erano chiuse. L’atmosfera
era molto tranquilla, ma aleggiava una strana calma. Le stanze erano
tutte libere, o forse erano morti tutti e i soli ospiti dell’albergo
erano cadaveri. Forse era morto anche il portiere ed era stato il suo
corpo decomposto a bussare alla porta. Forse anch’egli era morto,
ma credeva di essere ancora in vita.
Forse, quanti forse.
L’idea che fosse morto davvero finì per
tranquillizzarlo e rientrò. Sotto la scrivania c’erano altre
fiale, tutte vuote e trovò anche una siringa usata. Aprì i cassetti
e nell’ultimo scoprì fiale ancora intatte. Da dove veniva tutta
quella morfina?
Gli venne una sorta di presentimento. Si sbottonò i
polsini della camicia, arrotolò le maniche fino ai bicipiti e
distese gli avambracci. Vi erano segni di iniezioni recenti, sotto la
pelle si allargava la macchia bluastra di un ematoma. Aveva tentato
il suicidio? A considerare la quantità di fiale vuote, avrebbe
risposto di sì. Quelle dosi avrebbero ucciso un cavallo. Ma allora,
perché era ancora vivo? E per quale motivo aveva desiderato la
morte?
Ogni emisfero cerebrale è un insieme autonomo e
perfetto, ricordò d’aver letto da qualche parte. È come se vi
fossero due menti, due coscienze, due individui in una testa sola.
Balenò rapida come un lampo un’immagine di giovani in camice
bianco intorno a un cadavere in una sala circolare. E un uomo dai
capelli brizzolati e gli occhiali contornati di metallo gesticolare
nei pressi del corpo.
“Una psicosi cerebrale di natura tossica, indotta per
esempio da dosi massicce di morfina” stava spiegando “può
attecchire nel sistema percettivo determinandone una scissione e
generando un cattivo funzionamento sia del sistema percettivo stesso
che di quello cognitivo, sebbene quest’ultimo continui in apparenza
a funzionare correttamente”. I ragazzi ascoltavano assorti ed egli
era uno di loro.
Cosa significavano quei ricordi? Non ne aveva idea. Si
era davvero iniettato la sostanza contenuta nelle fiale che aveva
rinvenuto nella stanza numero novantacinque? E se era stato così, la
morfina poteva aver danneggiato il suo sistema percettivo e il suo
sistema cognitivo, poteva averli contaminati entrambi spargendovi
tenebra a ricoprire ogni cosa, spegnendo ogni ricordo, ogni emozione
e cancellando il suo passato? Poteva avere una simile spiegazione
l’intermittenza dei ricordi?
Avvertiva pensieri non suoi, parole estranee e ignote
affioravano di tanto in tanto da profondità nascoste e sgorgavano
sulle sue labbra, come se un’entità sconosciuta parlasse una
lingua straniera dentro la sua testa, tentando di sostituirsi al suo
io cosciente.
Cosa gli stava accadendo?
Cercò la risposta fuori dalla finestra, ma la sua
domanda rimbalzò nel grigiore della strada di sotto, si perse fra i
rumori del traffico e le parole vane e inconsistenti dei passanti e
fu risucchiata dalle nuvole gonfie di pioggia. Pensò che se avesse
realmente tentato il suicidio, aveva scelto il giorno giusto per
morire. Un giorno inutile, un giorno grigio, senza gloria, senza
significato. Un giorno senza passato né futuro, un giorno di un
calendario monotono e ripetitivo.
Si addormentò pensando al grande rompicapo che era la
sua vita.
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