martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo III




III


Dammerschlaft tornò lentamente alla luce. Aprì gli occhi ed emerse dall’abbraccio delle coltri. Che ora era? Difficile dirlo. Il chiarore ambiguo e sfumato che veniva dalle imposte poteva appartenere all’alba pallida di un giorno di vento, una mattinata scialba, vuota, senza tempo, oppure al preludio della notte, sospeso nell’etere tremolante, in attesa di un luminoso tramonto. Si levò e socchiuse gli scuri. La strada di sotto era deserta e riluceva di riflessi fantasmagorici. Proprio in quell’istante l’orologio di un lontano campanile batté mesto i suoi rintocchi.

Solo cinque? Così gli era parso. Quel numero non risolveva certo il problema. Troppo esiguo per essere già parte del giorno, troppo elevato per appartenere ancora alla notte. Decise di tornare a letto a pensarci su e intanto, infinite dimensioni di tempo scorrevano parallele, scivolando nel silenzio su piani inclinati e non si intersecavano mai.

Si avvide però di un riflesso fosforescente che baluginava nella penombra, poco oltre il bordo del letto. Un orologio da polso ticchettava sulla cantoniera. Lo prese e annusò il cinturino. Odori familiari di cuoio e sudore stuzzicarono le sue narici. Portò la cassa all’orecchio e il ticchettio regolare del meccanismo gli confermò che il tempo non aveva mai smesso di battere e scorreva come un fiume placido e silenzioso nel vasto letto dell’universo infinito. Il quadrante mostrò inconfutabilmente che stava nascendo il giorno. Si allacciò l’orologio al polso e in quel momento sentì che gli apparteneva, seppe che era suo.

Allungò una mano verso il comodino in cerca delle sigarette e dell’accendisigari, ma quest’ultimo, per un suo gesto incerto e maldestro, gli sfuggì e rotolò sotto il letto. Dammerschlaft si sporse e scrutò sotto le coltri penzolanti.

Ricacciò un urlo in gola, come se avesse visto un mostro spaventoso, vacuo, fatto nient’altro che d’ombra e di dolore. Un corpo sorgeva dalle tenebre in fondo al letto, affiorando come un oggetto misterioso dalle acque torbide dell’oblio. Una donna, bella come sanno essere soltanto i sogni, emergeva dall’oscurità. Pareva un sogno, ma non lo era. Dammerschlaft si fece coraggio e l’accarezzò. Il contatto con la sua pelle lo fece rabbrividire. Le tastò il polso e il collo. Era senza battito.

La morte era sorta dalla terra.

Un dolore antico risalì dalle viscere a straziargli il cuore, un dolore familiare, eppure misterioso al tempo stesso, gli aggredì la gola e gli riempì la bocca e gli occhi.

Dammerschlaft pianse e non seppe perché.

Si asciugò lentamente le lacrime. Scorse una forma chiara sotto il letto. Allungò un braccio e la estirpò dalle tenebre. Era una borsetta da donna. Trovò delle lettere, una boccetta di profumo e un libro. Mise da parte le lettere, aprì il flacone e lo annusò. Era un’essenza esotica, forse patchouli, forse no. Avvicinò ancora il naso, gli parve un odore familiare e si abbandonò alla sua fragranza.

Aprì le lettere. Le fibre della carta erano intrise dell’inchiostro blu di una scrittura piena e tondeggiante e le vocali si chiudevano con un elegante svolazzo. Egli non comprendeva appieno il significato di quelle righe, si alludeva a fatti e accadimenti noti allo scrivente e al destinatario.

Prese il libro. Era un volume di pittura, lo aprì e ne cadde una foto. Si chinò a raccoglierla. Mostrava il volto di una donna elegante, dai capelli corvini e gli occhi chiari. La voltò e lesse. C’era una dedica per lui firmata da Josefine Ascher.

Quel nome non gli diceva nulla. Eppure, era sicuro che significasse qualcosa.

Ma perché era nuda, dov’erano finiti i suoi vestiti?

Guardò ancora sotto il letto. Non c’era nient’altro.

Lo sopraffece nuovamente la sensazione che aveva provato quella mattina, guardandosi allo specchio. Non aveva riconosciuto il suo volto, come se durante la notte ne avessero incollato un altro al suo cranio. Eppure, avrebbe dovuto conoscerne alla perfezione ogni lineamento, ogni più piccola e trascurabile ruga, se quel viso era il suo.

Rimase senza fiato sull’orlo di una vertigine.

Al di là della superficie di cristallo c’era un mondo uguale a quello che si trovava al di qua. Un mondo sorprendentemente identico, eppure spaventosamente a rovescio. Un mondo bizzarro nel quale ogni cosa era l’opposto della sua gemella dall’altro lato dello specchio.

Un riflesso cangiante e caduco di luce fra le ombre.



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