III
Dammerschlaft tornò lentamente alla luce. Aprì gli
occhi ed emerse dall’abbraccio delle coltri. Che ora era? Difficile
dirlo. Il chiarore ambiguo e sfumato che veniva dalle imposte poteva
appartenere all’alba pallida di un giorno di vento, una mattinata
scialba, vuota, senza tempo, oppure al preludio della notte, sospeso
nell’etere tremolante, in attesa di un luminoso tramonto. Si levò
e socchiuse gli scuri. La strada di sotto era deserta e riluceva di
riflessi fantasmagorici. Proprio in quell’istante l’orologio di
un lontano campanile batté mesto i suoi rintocchi.
Solo cinque? Così gli era parso. Quel numero non
risolveva certo il problema. Troppo esiguo per essere già parte del
giorno, troppo elevato per appartenere ancora alla notte. Decise di
tornare a letto a pensarci su e intanto, infinite dimensioni di tempo
scorrevano parallele, scivolando nel silenzio su piani inclinati e
non si intersecavano mai.
Si avvide però di un riflesso fosforescente che
baluginava nella penombra, poco oltre il bordo del letto. Un orologio
da polso ticchettava sulla cantoniera. Lo prese e annusò il
cinturino. Odori familiari di cuoio e sudore stuzzicarono le sue
narici. Portò la cassa all’orecchio e il ticchettio regolare del
meccanismo gli confermò che il tempo non aveva mai smesso di battere
e scorreva come un fiume placido e silenzioso nel vasto letto
dell’universo infinito. Il quadrante mostrò inconfutabilmente che
stava nascendo il giorno. Si allacciò l’orologio al polso e in
quel momento sentì che gli apparteneva, seppe che era suo.
Allungò una mano verso il comodino in cerca delle
sigarette e dell’accendisigari, ma quest’ultimo, per un suo gesto
incerto e maldestro, gli sfuggì e rotolò sotto il letto.
Dammerschlaft si sporse e scrutò sotto le coltri penzolanti.
Ricacciò un urlo in gola, come se avesse visto un
mostro spaventoso, vacuo, fatto nient’altro che d’ombra e di
dolore. Un corpo sorgeva dalle tenebre in fondo al letto, affiorando
come un oggetto misterioso dalle acque torbide dell’oblio. Una
donna, bella come sanno essere soltanto i sogni, emergeva
dall’oscurità. Pareva un sogno, ma non lo era. Dammerschlaft si
fece coraggio e l’accarezzò. Il contatto con la sua pelle lo fece
rabbrividire. Le tastò il polso e il collo. Era senza battito.
La morte era sorta dalla terra.
Un dolore antico risalì dalle viscere a straziargli il
cuore, un dolore familiare, eppure misterioso al tempo stesso, gli
aggredì la gola e gli riempì la bocca e gli occhi.
Dammerschlaft pianse e non seppe perché.
Si asciugò lentamente le lacrime. Scorse una forma
chiara sotto il letto. Allungò un braccio e la estirpò dalle
tenebre. Era una borsetta da donna. Trovò delle lettere, una
boccetta di profumo e un libro. Mise da parte le lettere, aprì il
flacone e lo annusò. Era un’essenza esotica, forse patchouli,
forse no. Avvicinò ancora il naso, gli parve un odore familiare e si
abbandonò alla sua fragranza.
Aprì le lettere. Le fibre della carta erano intrise
dell’inchiostro blu di una scrittura piena e tondeggiante e le
vocali si chiudevano con un elegante svolazzo. Egli non comprendeva
appieno il significato di quelle righe, si alludeva a fatti e
accadimenti noti allo scrivente e al destinatario.
Prese il libro. Era un volume di pittura, lo aprì e ne
cadde una foto. Si chinò a raccoglierla. Mostrava il volto di una
donna elegante, dai capelli corvini e gli occhi chiari. La voltò e
lesse. C’era una dedica per lui firmata da Josefine Ascher.
Quel nome non gli diceva nulla. Eppure, era sicuro che
significasse qualcosa.
Ma perché era nuda, dov’erano finiti i suoi vestiti?
Guardò ancora sotto il letto. Non c’era nient’altro.
Lo sopraffece nuovamente la sensazione che aveva provato
quella mattina, guardandosi allo specchio. Non aveva riconosciuto il
suo volto, come se durante la notte ne avessero incollato un altro al
suo cranio. Eppure, avrebbe dovuto conoscerne alla perfezione ogni
lineamento, ogni più piccola e trascurabile ruga, se quel viso era
il suo.
Rimase senza fiato sull’orlo di una vertigine.
Al di là della superficie di cristallo c’era un mondo
uguale a quello che si trovava al di qua. Un mondo sorprendentemente
identico, eppure spaventosamente a rovescio. Un mondo bizzarro nel
quale ogni cosa era l’opposto della sua gemella dall’altro lato
dello specchio.
Un riflesso cangiante e caduco di luce fra le ombre.
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